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mercoledì 22 dicembre 2021

LE MOLE DI FORMIA: PERMANENZA E RINASCITA DI UNA CITTA’ "Lunario Romano 1995", Mestieri nel Lazio, Roma 1995, pp. 177-194. di Salvatore Ciccone
(terza parte) Il processo di riduzione e riconversione dei mulini doveva già farsi sentire allora per il miglioramento delle tecniche di macinazione, ma fu decisivo con l'introduzione delle macine metalliche. Il mulino a palmenti, benché perfezionato, aveva la caratteristica di schiacciare il frumento in un solo passaggio, detta bassa macinazione, producendo una farina ricca di impurità. Il nuovo sistema a laminatoi e cilindri, definito di alta macinazione, si caratterizza per le macine costituite da coppie di cilindri metallici orizzontali variamente scanalati e procede allo schiacciamento del grano in fasi successive, differenziandone il prodotto fino alla massima purezza e finezza e in quantità giornaliere irraggiungibili dai vecchi mulini. Nel 1904 sorge a Mola, nella contrada “fuori il Ponte” e sulla riva del mare, il primo mulino a cilindri mosso dalla forza del vapore, altra innovazione che svincolava questa attività dalla tradizionale dipendenza idrica oltremodo insufficiente ad azionare i più complessi macchinari. Il fondatore, Domenico Paone, concepisce una moderna industria affiancando la macinazione del frumento alla produzione di pasta alimentare che aveva intrapreso nel medesimo sito nel 1878. La schiacciante superiorità dell'impianto rese inevitabile la chiusura di alcuni mulini, come quello dei fratelli Bove che era sorto tardivamente tra il mulino Nucci e quello a Mirti. Venne acquistato da un napoletano e riconvertito in cartiera alla quale si addicevano le grandi quantità d'acqua e lo sfruttamento della sua forza motrice; tuttavia anche la nuova impresa cessò nel 1914 e l'edificio fu trasformato in civile abitazione. Per non chiudere l'attività i due mulini che facevano capo al formale di via Orto del Re verso il 1920 si fusero nella Società anonima “La Turbina” Molino e Pastificio, facente capo a Salvatore Magliocco. L'impianto si componeva di fabbricati contigui allineati sul versante occidentale della via e si caratterizzava dal mantenimento di una ruota idraulica perfezionata o turbina, mossa dalla maggiore quantità di acqua conseguente alla cessazione di alcuni mulini. Si trattava di una scelta operata nella tradizione sia dei modi che dei luoghi e che oggi si direbbe ecologica, ma il risparmio energetico si pagava in termini di rendimento sulla produzione e nel 1933 la società dichiarò fallimento, il fabbricato sarà adeguato a Scuola Avviamento al Lavoro, oggi Scuola Media Statale M. Vitruvio Pollione. Nel fallimento della società fu trascinato l'altro mulino Magliocco insediato presso la Gualchiera, susseguitosi ai più antichi citati. Era mosso ancora dalla forza dell'acqua dell'omonimo formale e produceva farina integrale con il vecchio sistema dei palmenti. Venne acquistato all'incanto dai fratelli Colella che vi installarono un molino a cilindri. I nuovi opifici caratterizzarono maggiormente il tessuto urbano per la grandezza dei fabbricati, e sulla costa per i lunghi pontili di attracco per mezzo dei quali avveniva il rifornimento di grano e l'imbarco delle paste alimentari. Il più lungo era quello dell'industria Paone, ad essa direttamente collegato, realizzato in ferro e munito di carrelli; vi ormeggiava una propria flottiglia di cui l'unità più grande era l'Immacolata III di 120 tonnellate di stazza. Il pontile della “Turbina” si trovava in prossimità del fabbricato accanto al Castello di Mola e vi si accedeva da via Abate Tosti: era realizzato in legno con rinforzi di acciaio. Altri pontili facevano da risalto, appartenenti ad altre industrie del luogo come quelle di laterizi “La Tiberina”, già di Tito Rubino, e quella di Luca De Meo poi SALID, che ponevano al vertice un'altra tradizione locale artigiana. Mola si configurava ormai come quartiere industriale di Formia e la necessità di adeguate infrastrutture viarie e di approdo si rendeva inderogabile. Oltre alla costruzione del porto nel 1922 si diede mano al raddoppio della via Appia col prolungamento di via Vitruvio fino alle porte occidentali della città e allo scavalcamento del rione Mola. Quest'ultima opera fu effettivamente tracciata nel 1936 in base al piano regolatore redatto dall'architetto Gustavo Giovannoni. Tra l'altro si volle bonificare i terreni dalle acque — imperativo dell'epoca — per restituire salubrità ai luoghi. L'intervento condusse a indiscutibili vantaggi tuttavia produsse una lacerazione nel contesto abitato e di questo rispetto al territorio. La rete dei condotti scomparve fatta eccezione il Gran Formale corrente su un alto muro che, interrotto dalla nuova via, suggerì la creazione di una cascata ornamentale e la cui acqua continuava ad alimentare il rivierasco mulino di Rubino al vicoletto Ponte di Mola. Un'altra mola Rubino rimaneva presso il Maiorino, probabilmente ad uso di frantoio. La persistenza dell'attività molitoria sviluppata in funzione di una forte industria alimentare fa sentire il suo peso anche nell'immagine materiale del quartiere. Nel 1928 il settantenne Domenico Paone con rara munificenza offre alla cittadinanza un'opera pubblica di grande impegno, la creazione di un largo con rotonda centrale nell'ansa della Spiaggia di Mola, che divenne la passeggiata del Rione. Fu un segno di riconoscenza per la considerazione che di lui avevano i cittadini, anche in occasione nell'episodio delittuoso che nel 1919 procurò col fuoco il grave danneggiamento dell'opificio. In quella occasione egli non si limitò a recuperare la raggiunta capacità produttiva, ma rinnovò potenziandolo anche il mulino con macchinari fatti eseguire dall'Officina Meccanica Lombarda. Fino all'ultimo conflitto la tradizionale attività molitoria di Mola si concentra nei due mulini di Paone e dei Colella, ognuno con una lavorazione giornaliera di 150-200 quintali di grano. Nel primo erano occupati una decina di operai, nel secondo, compreso il pastificio, una cinquantina; poi l'indotto di facchini, trasportatori, marinai, artigiani. Ecco allora che quest'industria si poneva in primo piano nell'occupazione del Rione e nell'economia primaria dei produttori della materia prima, dapprima singoli agricoltori, poi i consorzi. Dai territori vicini provenivano per lo più grani teneri, dai chicchi tozzi ricchi di amido: si impiegavano principalmente per i prodotti da forno. Più impegnativo era il rifornimento di grandi quantità di grano duro, dai chicchi allungati e lucidi, ricco di glutine, indispensabile alla fabbricazione delle paste alimentari. Paone lo trasportava dalle Puglie con i suoi motovelieri e dalla Russia per mezzo di un piroscafo che attraccava al suo pontile. In quello stabilimento la molitura in proprio agevolava la preparazione delle miscele di farine specifiche alla lavorazione dei diversi formati di pasta, oltre a controllarne la qualità, il prezzo e assicurarne le quantità necessarie. Questa operosità fu spezzata la domenica del 12 settembre 1943, quando alle 13 tutta la zona del Ponte di Mola fu fatta segno di un violento bombardamento aereo alleato. Totalmente distrutto il pastificio; decine i morti e feriti tra i molani, molti dei quali colti in strada intenti agli ultimi acquisti di derrate. Paone, allora ultraottantenne, vi sopravvisse solo otto giorni a conferma della dedizione e dell'impegno profuso nel suo mestiere. In successivi bombardamenti anche il mulino Colella subì gravi danni, depredato inoltre di oltre 8000 quintali di grano. Dalle macerie polverose, in fedeltà al motto araldico cittadino “post fata resurgo” si ricostruisce la speranza. Il mulino Colella riprese l'attività fino al 1960; oggi è trasformato in appartamenti. Il Pastificio Paone nella ricostruzione non ebbe reimpiantata la molitura per convenienza di mercato e passò in mano ad Erasmo, nipote del fondatore e ai due figli Domenico e Franco; da ultimo trasferito nell’area industriale di Penitro all'estremità orientale del Comune e acquisito da un facoltoso imprenditore italo-argentino. Cessa così la lunga tradizione dei mulini che, residuati da Formia antica, per un millennio ne hanno guidato la rinascita urbana, economica e politica. Eppure il bagaglio di esperienze, la cultura del grano, la laboriosità di questa terra non sembra perduta; rimane insita nell'attuale Pastificio, diffusa in Italia, ed esportata col nome della famiglia e di Formia. Di quella attività millenaria rimarranno il nome di Mola e quelli di vico Gualchiera con qualche pietra; dei siti del Maiorino, delle Forme, del vicolo Ponte di Mola e dell'Orto del Re; la nostalgia per quei vecchi mulini dalle caratteristiche ruote che il progresso ha relegato nella storia, ma che non impedisce di rammentarne e valorizzarne la testimonianza. Nell’immagine il tratto della variante medievale della via Appia nella Spiaggia di Mola verso l’omonima porta poi dell’Orologio (dis. P. Mattej, 1840 ca.): l’insenatura rappresentava la parte più interna del porto romano, rimasta come valido approdo all’attività molitoria di supporto per Gaeta.

sabato 18 dicembre 2021

LE MOLE DI FORMIA: PERMANENZA E RINASCITA DI UNA CITTA’ "Lunario Romano 1995", Mestieri nel Lazio, Roma 1995, pp. 177-194. di Salvatore Ciccone
(seconda parte) Si è a conoscenza che la Mola Zoppella si trovava prossima a quella di Pampilino, rispettivamente appartenenti ai monasteri di S. Erasmo di Formia e di S. Michele in Planciano a Gaeta. Di tali proprietà la prima sembra la mola anonima posta sotto il mulino della Palude e sfruttante il medesimo formale; la seconda si trovava invece sulla spiaggia del mare: entrambe dovevano dunque trovarsi nell'area di via Orto del Re. In una pianta parziale del borgo risalente al 1830, sono indicati in quel luogo due mulini disposti sulla direttrice di quella strada verso occidente, quello in alto di proprietà Agresti e l'altro sottostante sul lato opposto al mare di via Abate Tosti. Erano alimentati in successione da una diramazione del Gran Formale, ricalcante longitudinalmente il tratto antico dell'Appia. Sembra perciò di riconoscervi i mulini Zoppella e Pampilino, quest'ultimo, e non pare una coincidenza, in vicinanza della cappella di S. Michele Arcangelo inglobata poi dal duecentesco Castello di Mola. Riguardo ai condotti, sembrerebbe che il formale del Mulino della Palude venisse con esso dismesso, non essendovi traccia sulle mappe, deviando il canale all'origine e affiancandolo al Gran Formale per poi seguire, come detto, un tratto dell'Appia. La spiegazione di ciò starebbe nella presenza di un'altra mola che testimoni dicono situata nei giardini a oriente di via Orto del Re, lungo il rettilineo longitudinale, e chiamata Mola Stretta, dalla “Strettola” che era un viottolo pubblico munito di porta che conduceva agli orti, ai mulini e alle fonti. E probabile che la Mola Stretta fosse l'originale Mola “dellu Podio” o del Poggio, nome indicante o il salto di quota del luogo o qualche rudere dell'Appia. Nella medesima mappa del 1830 si trovano altre due mole consecutive in via Ponte di Mola, tra l'antica Appia e la via Abate Tosti, servite direttamente dal Gran Formale: per quella a monte più grande sembra riconoscervi le mole Maggiore e Minore. Nelle testimonianze verbali la prima veniva indicata “Mola Noce”, per la presenza di un vetusto esemplare distintivo per grandezza da altri frequenti negli orti del borgo. Verso il mare, al di là della strada, vi era il luogo detto “abbascie gliu mugline”, dove era situata la mola di proprietà Rubino: era alimentata dall'acqua dello stesso formale che sottopassava la via e si accumulava in un caratteristico bacino. Essendo questa l'unica mola posta sul versante esterno della strada medievale, non sembra azzardata l'identificazione con la Mola de Fore. Dai registri della chiesa parrocchiale dei Ss. Lorenzo e Giovanni Battista, si rilevano le rendite di alcuni mulini esistenti tra Settecento e Ottocento. Si menziona così un “montano con camera” al vicolo del Maiorino, forse il trecentesco Mulino della Camera; una “punta del vicolo di S. Caterina al Ponte”, forse la Mola de Fore; una “strettola della Madonnella ossia Molino” a Caposelice o “Vicolo della Molella” nel luogo del supposto Mulino di Follino. Dalla individuazione più o meno certa di questi mulini è importante comunque rilevare che essi si trovavano per lo più dislocati in corrispondenza delle traverse marine dell'Appia, tanto da determinare la stessa rete dei formali. Ciò comprova l'originario sistema insediativo che si sviluppava secondo raggruppamenti isolati costituiti dai mulini con le loro pertinenze e dalle abitazioni, secondo la dinamica prevalente dell'attività che si basava sull'arrivo del frumento dalla consolare, stoccaggio e macinazione, imbarco sulla costa antistante. Il nucleo originario più importante fu certamente quello della via Maiorino che conduceva al porto, la zona degli Armeni, riferimento ad uno dei contingenti tradotti nel Meridione nell’887, quando Gaeta era nell’orbita dei Bizantini. Con l'accresciuto fabbisogno di Gaeta già dovette esservi una tendenza alla saldatura di questi gruppi edificati con collegamenti spontanei lungo la spiaggia, percorsi che diverranno sostitutivi dell'Appia per motivi strategici in occasione della costruzione da parte angioina del castello, sullo scorcio del Duecento. Le caratteristiche dei mulini più antichi, desunte dai documenti, evidenziano una serie costante di elementi a configurazione di unità autosufficienti che, isolate in gran numero e concentrazione su questo substrato storico, hanno costituito le cellule di riaggregazione di un nuovo tessuto urbano. Il mulino sotto quello della Palude era una struttura integrata “con la casa, il cortile e gli orti davanti e di dietro, con la vigna annessa” (cum sedimen cortina et hortales suos ante et retro, cum ipsa vinea); è il già ipotizzato Mulino Zoppella che viene detto provvisto di “acque sue e di un suo canale e con il suo granaio” (cum aquis suis, et concursus aquarum suarum et cum paliaria sua). Similmente compaiono impostati il Mulino Maggiore, e quello Minore che si componeva “dei cortili, degli orti, delle parti in ferro, nonché della casa” (cum cortinas, seu hortales, et ferratura, necnon et sedimen suum). Maggiori particolari costruttivi si colgono in un documento del 1353 riguardante “il mulino abbandonato detto la Mola di follino, nonché una casa dello stesso mulino scoperchiata e in parte diruta” (molendinum vocatum la Mola de follinu dirrutum ac domum unam ipsius molendini discopertam et partim dirutam). Questi vengono concessi in affitto per otto anni a Francesco Romano di Mola col patto che riconsegni “!il mulino finito e riparato, con la casa coperta ad embrici (cupellus seu canales) e con le porte e le serrature, nonché anche il canale di legno (canalem de ligno) dove corre l'acqua al mulino, rifatto e finito a malta di pozzolana e pietre” (calce pulvizana et lapidibus), il tutto “ad arte dei maestri fabbricatori di Gaeta”; inoltre “il mulino riparato e rifinito in tutto il necessario con le macine, la ruota e gli ingranaggi” (lapidibus molinis et fuso). Le parti fondamentali dell'organismo meccanico, così sinteticamente delineate, sono ancora quelle ereditate dall'antichità e costituenti il mulino a macine orizzontali o a «palmenti», gradatamente soppiantate dalla metà dello scorso secolo dal sistema a cilindri metallici. Infatti le macine lapidee richiedevano frequenti e impegnative cure tanto da formare un'arte vera e propria nel mestiere del mugnaio. I palmenti erano realizzati con pietre di particolare durezza come la quarzite e lavorati in forma di spessi dischi. Caratteristica figurativa la lavorazione delle facce di fregamento con solchi a raggiera variamente disposti, rievocativi le foglie di palma. Il numero e la disposizione dei raggi dipendeva dalla qualità del grano da macinare: più radi per il grano duro, più fitti e profondi per il grano tenero, per permettere una maggiore circolazione dell'aria ed evitare il surriscaldamento delle farine. Durante la macinazione le superfici pur non in stretto contatto erano soggette ad usura, tra l'altro con dispersione di sabbie nelle farine. Per questo ogni due o quattro giorni, a seconda della quantità e qualità del frumento e anche del tipo di pietra, si doveva restituire affilatezza alle raggiere con l'operazione di «aguzzatura», eseguita con martelli a punta e a taglio, che richiedeva 4-5 ore per macina. Il sollevamento e il rovesciamento della pietra superiore si effettuava per mezzo di un verricello munito di bilancia che si agganciava a due perni opposti lungo il bordo. L'aguzzatura di una sola macina, lasciando l'altra consunta, si diceva “rabbigliatura” e permetteva una macinazione più fine, si effettuava alternativamente tra la macina superiore rotante e quella inferiore fissa o” palmento dormiente”. Proprio i palmenti sono oggi l'unica testimonianza dell'uso millenario di queste macchine che hanno dato il nome a Mola, superstiti per la loro durezza e per la loro durezza acconciati nel pavimento del vico Gualchiera a Caposelice. La presenza dei mulini era fondamentale per le popolazioni del golfo. Dapprima avevano una importanza più strategica che economica e ponendo in maggiore rilievo il sito ove essi sorgevano, in rapporto ai rifornimenti di frumento e alla macinazione più rapida per mezzo della forza idraulica; comunque il sistema delle più antiche macine permetteva una scarsa produzione giornaliera di farina e da qui il numero considerevole di queste installazioni trasformative. A conferma della loro importanza, il fatto che la proprietà fu di iniziale esclusiva degli Ipati di Gaeta e dei loro familiari, poi degli istituti monastici, primo fra tutti il monastero di “S. Erasmo di Formia”, nonché dell'episcopio; in essi lavoravano perciò servitori, monaci o venivano concessi in fitto. Interessante il prestito reciproco di due mulini, quelli della Palude e di Armenia, evidentemente volto a riequilibrare una disparità di redditi dei beni ereditati. È quindi sempre crescente negli atti la valenza economica di queste strutture di trasformazione nel quadro di una nuova espansione delle attività agricole e di controllo del territorio. In questo senso risalta l'intervento di Carlo II d'Angiò in lotta con gli Aragonesi per il possesso del Meridione. Al potenziamento delle difese di Gaeta egli stimò necessario erigere a Mola un castello tale da costituire, con la deviazione dell'Appia e l'allagamento dei soprastanti pianori, un ostacolo momentaneo alla penetrazione offensiva e alla distruzione delle attività economiche. Queste ultime dovevano essere già abbastanza sviluppate e molteplici, ma è certo che l'impulso determinante fu l'immissione di popolazione provenzale, già al seguito di Carlo I, e la ristrutturazione urbanistica a vero e proprio borgo. Con il passaggio del castello in signoria alla famiglia Gaetani, nel 1460, un nuovo soggetto si affaccia nell'economia dei mulini, col diritto del castellano di esigere “un grano a tomolo” su tutti i cereali che si macinavano nella terra di Mola e sua comarca ossia “gabellam quartucio macinae spectantibus”. Nel 1503 il monastero di S. Erasmo beneficia per i suoi mulini di una “regia esenzione delle tomola”, sia nei confronti del castellano che dei doganieri, a titolo di risarcimento dei danni di guerra: l'occupazione delle truppe di Carlo VIII e la riconquista spagnola di Gaeta dello stesso anno. Riconosciuta anche dal nuovo governo la preminenza economica e strategica di Mola, il borgo avrà installate due nuove porte, una verso l'ansa dell'antico porto detta porta della Spiaggia poi dell'Orologio, l'altra a levante unita al castello detta porta del Ponte o degli Spagnuoli; per la funzione daziaria di quest'ultima Mola divenne una sosta forzata del Grand Tour, decantata e ritratta per amenità, ma disprezzata dai malcapitati viaggiatori vittime dei soprusi dei doganieri. Le notizie sulla produzione dei macinati sono scarse e genericamente limitate alle granaglie. Si può supporre che oltre alle varie qualità di frumento vi fossero il farro, l'orzo, la segale; più tardi il mais: localmente era anche impiegato nel confezionamento di economici e compatti panini con olio di oliva detti “pène de ràurine”, dal color rame dell'ingrediente. Risalta invece una curiosa informazione tratta dalla già citata mappa del 1830, in cui appare un “Molino a Mirti” posto sotto quello Nucci in via Ponte di Mola. L'indicazione trova riscontro nei registri della chiesa parrocchiale dei Ss. Lorenzo e Giovanni Battista, dove nel 1795 si menziona la “Corba della Mirtella” esplicata come “diritto della chiesa di esigere una misura della mirtella macinata”: la macinazione delle bacche di mirto o “mortella”, la cui salsa trovava impiego nel trattamento delle carni, ma che in questo caso doveva riguardare l'estrazione di un olio profumato destinato ad uso liturgico; si trattava evidentemente di un mulino trasformato al nuovo e specifico impiego.
Nelle immagini: Veduta di Mola e della rada di Gaeta in cui è pienamente colta la floridezza delle attività produttive e commerciali nello scambio tra la via Appia e il mare (dipinto di Filippo Hackert, 1790, Reggia di Caserta); il Castello di Mola sulla variante medievale della via Appia (dis. P. Mattej, 1840 ca.): si evidenzia l’imbarco di sacchi di farina dai mulini dell’Orto del Re. (continua)

mercoledì 15 dicembre 2021

LE MOLE DI FORMIA: PERMANENZA E RINASCITA DI UNA CITTA’ "Lunario Romano 1995", Mestieri nel Lazio, Roma 1995, pp. 177-194. di Salvatore Ciccone
“Volo liberum esse petrulum a mola” (Voglio che sia libero Petrulo [uno schiavo] a Mola), con questa disposizione del testamento dell'ipata di Gaeta Docibile dell'anno 906, pubblicata nel Codex Diplomaticus Cajetanus (di seguito C.D.C.), compare la prima menzione del borgo di Mola, oggi quartiere di Formia. Il nome del sito rivela la presenza di un'attività molitoria, determinata dalla presenza di copiose sorgenti in un’esile striscia di terra tra il mare e le estreme pendici dei Monti Aurunci. L'acqua si incanalava in numerosi «formali», correndo cristallina e rapida tra gli orti di agrumi, le vie e le case per unirsi al mare, specchio di un cielo splendente per i quali Simmaco scrisse di Formia tanta “coeli salubritate, et aquarum frigore” (Epistolarum, 8, 23). La particolarità motiva il nome stesso di Formia che Strabone (Geographia, 5, 233) dice derivare dal greco hormiai, approdi, se si pensa che proprio in quest'ansa di mare più protetta e così proliferante di sorgenti i Romani vi edificarono il porto. La genesi di Formia da una colonizzazione sparsa di pagi fortificati, solo nel V-IV secolo passa ad un insediamento cinto da poderose mura megalitiche a controllo del valico costiero, i “formiana saxa” (Livio, Ab Urbe condita libri, anno 215): per la morfologia del luogo si sviluppava in linea al mare per circa un chilometro dalla rocca al porto verso est, la zona che sarà Mola. La principale arteria, un'importante via di transumanza, passava immediatamente a monte delle fortificazioni, fin quando il tracciato della via Appia diede una nuova impostazione alla città, attraversandola a formare il decumano massimo. Questo terminava in prossimità del porto per poi aggirarlo, dove nel Medioevo si diceva “Capite silicis” (C.D.C. n.430, anno 1306); la via pedemontana tuttavia sopravvisse, testimoniata nello stesso periodo come “Massarina”. Nell'area del porto sono documentati i balnea riforniti da un acquedotto su archi, un edificio peninsulare sotto il Castello di Mola di probabile destinazione cultuale e tra i reperti una dedica sacra a Fontano (Corp.Inscr.Lat., X, 6100), dio delle fonti, che evidenzia la peculiarità e l'importanza delle scaturigini in questo contesto infrastrutturale. Appare verosimile come già in quell'epoca la forza motrice sviluppata dall'acqua fosse utilizzata per azionare mole per cereali, innovazione introdotta verso il 170 a.C. e di cui Vitruvio (X, 5) ne descrive sommariamente il funzionamento: derivando il movimento dalla ruota idraulica: «i mulini ad acqua (hydraletae) (...) tengono attaccata all'estremità dell'asse una ruota dentata (tympanum dentatum) che posta verticalmente gira insieme all'asse: una seconda ruota dentata più grande si pone accanto orizzontalmente con il suo asse, sull'estremo del quale vi è il sostegno di ferro (subscudem ferream) che ne regge la macina (mola). Così (...) fanno girare la macina, sopra la quale stando appesa la tramoggia (infundibulum) somministra alle macine il frumento, ricavandone la farina». Le testimonianze archeologiche forniscono complessi esempi di mulini, come quello di Arles a otto ruote idrauliche, di cui è significativa l'utilizzazione consecutiva dell'acqua per una fullonica o lavanderia. Con i noti eventi della decadenza, il tessuto urbano di Formia venne rarefacendosi, rimanendo tuttavia focalizzato nei due principali poli della rocca e del quartiere portuale mentre si accresceva il castrum sorto sull'antistante promontorio a presidio del porto naturale di Cajeta. È qui che non ultime le vicende legate all'occupazione saracena dall'846 al 915, le principali rappresentanze del potere si trasferiranno a determinarne la nuova Civitas, che fortemente eccentrica rispetto al territorio produttivo avrà come principale base logistica il quartiere delle mole determinandone l'impulso. Nei diplomi medioevali che vanno dal X al XIV secolo nel C.D.C. sono nominate a Mola ben 12 aquismolae e individuate nella integrata mappa corografica: “de pampilini” (906-1008); “maiore” (933-1386); “minore” (933-1010); “de palude” (934-1024); "de Armenie” (937-1079); “Sancti Georgi” (954-1055); “de flumicello frigidi” (1002); “de tauro” (1024); “Zoppella” (1056-1386); “de follinu” (1353); “dellu Poggio”, “de fore, della Camera” (1386). Esclusi i mulini coevi e quelli nominati insieme quali di Armenia e della Palude, del Toro e della Palude, Maggiore e Minore, Zoppella e Maggiore, S. Giorgio e Maggiore, del Fiumicello e Maggiore, è probabile che alcuni di essi cambiassero nome, come sicuramente dimostrabile per i secoli più recenti; che venissero abbandonati, rimpiazzati o che assumessero più tardi alcuni dei nomi suddetti, come quello posto sotto il mulino della Palude, poi Zoppella, o i “molendini novi iuxta portum ipsius loci molarum” del 1305, forse poi indicati in quelli “della Camera”, “de Fore” e “del Poggio”. Sta di fatto che in un documento governativo del primo Ottocento pubblicato da A. Di Biasio, riguardante il Comune di Mola e Castellone di Gaeta" oggi Formia, si dice espressamente che superato il ponte sul fosso (del Rio Fresco già Flumicello Frigido) sul cammino da Napoli a Roma, «a destra delle prime abitazioni — perciò a monte della via — esistono dieci mulini a granaglia, animati dal perenne e copioso sgorgo delle acque dei suoi monti». Rimane quindi comprovata la quantità dei mulini dedotti dalle antiche pergamene, dovendo anche considerare che per mulino si indicavano i frantoi o «montani», le cui molazze erano mosse ugualmente da ruote idrauliche. Il numero elevato di queste mole spiega da sé il nome dato al luogo, ancor più per il peso che avevano per la vita delle popolazioni di questo territorio. Questa attività prevalente non poteva che innescare un sistema più ampio ed articolato, sviluppando un nuovo e specifico tessuto urbano e gettando le basi di una futura rinascita “politica”. La lettura dei documenti va ben oltre la semplice citazione, offrendo una interrelazione di notizie che vanno dalla topografia dei luoghi, alle caratteristiche costruttive dei mulini e al loro impiego, ai proprietari e locatari, alle spettanze dei redditi, alle disposizioni sulle trasmissioni dei diritti, a scambi periodici, permute, vendite, riparazioni. Primariamente necessaria è la restituzione topografica delle varie fasi dell'insediamento per comprendere in che modo e in quale misura lo sviluppo di questa attività ha esercitato sull'evoluzione del borgo. Per l'ubicazione dei mulini è essenziale sapere che la strada fondamentale del borgo, via Abate Tosti, in tempi più recenti creduta e indicata come via Appia, in realtà è un percorso sostitutivo del basso Medioevo sulla medesima direttrice della consolare situata sul pianoro soprastante un centinaio di metri. In origine il borgo si strutturava sulle diramazioni a pettine che dall'Appia conducevano al mare, di cui quella per il porto era costituita dalle vie Maiorino-Provenzali; poi di seguito verso oriente via S. Lorenzo o «Portone Vecchio», via Orto del Re, via Ponte di Mola. L'ambito delle mole è strettamente dipendente dalle tre scaturigini, più o meno a 200 metri dal mare e nello spazio di circa 600 metri, di cui una è a Caposelice-Conca e le altre due vicino al capo orientale in prossimità del Rio Fresco-Ponte di Mola. Queste sorgenti asservite alla rete idrica cittadina e i formali, già in parte tombinati durante gli interventi urbanistici degli anni Trenta, sono oggi praticamente scomparsi. È possibile ora ricostruirne i percorsi per mezzo delle mappe che vanno dalla prima metà dell'Ottocento agli anni Cinquanta, individuando i siti e talvolta gli edifici stessi dei mulini. Delle mole, solo una sfruttava le acque del «Fiumicello Freddo», collocata su un'isola del medesimo, alle spalle dell'antico ponte dell'Appia: aveva un proprio canale di derivazione con chiusa e in pertinenza altre due isolette di cui una nella foce. Tutti gli altri mulini erano disposti lungo la rete dei formali, sfruttando i salti di quota per aumentare la velocità dell'acqua e regolati da chiuse dalla presa ai collettori e alle diramazioni. Vicina al fiumicello, la sorgente più abbondante alimentava dapprima il Mulino di S. Giorgio, eponimo della fonte, versando l'acqua nel “Gran Formale” che scendeva diritto al mare sottopassando un ponticello, verosimilmente della via Appia, sotto il quale stavano in stretta successione la Mola Maggiore e la Mola Minore. Il formale dell'altra sorgente, poco ad occidente della prima, tagliava trasversalmente diretto all'ansa del porto al “Mulino di Armenia”, seguendo in parte lo speco dell'acquedotto romano, oltre gli archi del quale vi era una diramazione verso il “Portone Vecchio” per un mulino posto sotto l'Appia, quello del Toro. Dalla medesima sorgente è probabile che provenisse l'altro formale del Mulino della Palude, ubicato sul pianoro acquitrinoso in sommità di via Orto del Re. Sul versante opposto dell'insenatura portuale, a Caposelice, correva l'acqua dell'altro formale che sottopassava la via Appia, attuale via della Conca, e azionava il Mulino di Follino, così chiamato forse perché in combinazione con una fullonica; da questa attività ne deriverebbe il nome attuale di vico Gualchiera. I restanti cinque mulini di epoca medievale, per l'assenza a diretti e noti riferimenti topografici, non sono individuabili che in via mediata attraverso testimonianze di varia natura, restando perciò elevato il grado di incertezza. Nell’immagine: Mappa corografica del Borgo di Mola tra X e XVIII secolo (S. Ciccone 1995) in nero pieno le sorgenti, i corsi d’acqua e il battente marino; in tratteggio i percorsi dismessi: A, Porta della Spiaggia; B, Castello di Mola e Porta del Ponte o degli Spagnoli; C, acquedotto romano. Mulini:1, di Follino; 2, di Armenia; 3, del Toro (Portone Vecchio); 4, 5, 6, Zoppella, di Pampilino, della Stretta (Orto del Re – Strettola); 7, della Palude; 8, S. Giorgio; 9, 10, Maggiore e Minore; 11, de Fore; 12, del Fiumicello. Nella vignetta, scorcio ridisegnato del Gran Formale con strutture pertinenti un mulino (da P. Mattej, 1840 ca.).

mercoledì 8 dicembre 2021

BREVE STORIA DELLA BIBLIOTECA COMUNALE DI FORMIA


Le origini della biblioteca comunale risalgono al 28 agosto 1920, quando un'Associazione Culturale formata da giovani studenti si prese l'incombenza di voler diffondere la cultura. Nel breve volgere di pochi anni riuscirono a raccogliere circa 10.000 volumi, riviste ed altro materiale. La biblioteca all'origine era denominata "Biblioteca Circolante Vitruvio Pollione" ed i libri erano custoditi in una casa privata. Tra i molti giovani che portavano avanti l'illustre iniziativa si ricordano i nomi dei fratelli Testa Tommaso, Pasquale e Filippo, i fratelli Rolando e Mario Di Fava, Placido Di Russo e Mario Franzini. Nel 1929 la biblioteca divenne comunale con sede nei locali al piano strada del palazzo comunale, dove oggi insiste il Museo Archeologico. Fu intitolata a Filippo Testa, uno dei fondatori, ufficiale nel primo conflitto mondiale, scomparso prematuramente nel 20.1 1926. Quando l'Amministrazione comunale acquisì la Biblioteca, aveva già raccolto circa 18.000 volumi. La direzione venne affidata a Placido Di Russo che ne curò la custodia fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale. La guerra e gli "sciacalli intellettuali", ridussero il patrimonio bibliotecario a non più di 7.000 volumi. Collocati nel secondo piano del palazzo comunale, furono inventariati e custoditi dal prof. Ciro Allegro. Alla fine degli anni Sessanta, con la sede definitiva e la cura di valenti Responsabili, il patrimonio librario è arrivato a circa 40.000 volumi. La Biblioteca oggi è un vanto per la nostra città ed i suoi locali sono sempre affollati da studenti e lettori di ogni età.
Nelle foto la prima sede della Biblioteca, il tenente Filippo Testa a cui è stata dedicata la Biblioteca e il fratello Tommaso che ne fu uno dei direttori.