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mercoledì 28 dicembre 2022

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sabato 10 dicembre 2022

IN MERITO AD ALCUNI COMMENTI SULLA “TOMBA DI TULLIOLA” - di Salvatore Ciccone
Dopo la pubblicazione dell’articolo “Indagini sulla “Tomba di Tulliola” si sono avuti dai lettori due soli “commenti” espressi in immagini. Mentre ringrazio tutti coloro che seguono le mie argomentazioni, lo sono di più a questi stessi che hanno così voluto essere partecipi, poiché mi permette di sottolineare e meglio definire due diversi aspetti della questione. La prima immagine (da Emilio Sparagna) riguarda la forma architettonica del monumento, consistente in una ricostruzione in altezza d’uomo, realizzata in giardino con materiali lapidei e in cotto di una delle “torri” ottagonali con il relativo podio. L’esecuzione è accurata ed anche corretta nella semplificazione schematica delle modanature, nonché nel restituire l’effetto bicromo della cortina della torre con fasce alternate di “opus reticulatum” a fasce di “opus testaceum”, ossia di cotto. In realtà si tratta di una singola parte di un complesso funerario più articolato di epoca tardo repubblicana, che già vedeva due torri abbinate a comprendere un’area riservata dove sul muro di fondale e di generale contenimento contro pendio doveva essere posta la statua muliebre ora esposta nel Museo di Formia. Di poi la torre è stata riproposta con limitata altezza, credo per motivi di opportunità, risultando equiparata al podio e coperta da basso tetto. A ciò devo far notare come nel monumento si volesse richiamare propriamente delle torri a protezione di quell’area compresa, quasi quelle poste ai lati di una porta urbica. A conferma di ciò basta confrontare l’esempio singolo della “Torretta” sulla via Appia in località S. Remigio, di epoca imperiale, dove si può constatare la preponderante altezza scandita da “opus vittatum”, ossia da fasce di blocchetti calcare e cotto. Quanto al tetto si deve immaginare come le tegole di bordo avessero “antefisse” cioè rialzi figurati che visti dal basso coprivano il tetto e che verosimilmente dovevano richiamare il coronamento di una torre. La seconda immagine (da Mario Mirco Mendico) ritaglia una pagina di un antico libro con testo in latino senza specifica bibliografica. Si tratta dell’opera di Raffaele Volaterrano, il “Commentariorum Urbanorum ecc.” edito a Basilea nel 1530, dove alla pagina 233 del libro XX, nel riportare notizie della vita di Cicerone accenna alla figlia “Tulliola” e alla sua prematura morte, quindi del ritrovamento del suo sepolcro attestato da epigrafi presso la sesta pietra miliare della via Appia in prossimità di Roma. Purtroppo ciò non cambia nulla rispetto a quanto detto nella lettera di Bartolomeo Fonte pubblicata nel mio articolo. Tale documento si presenta il più attendibile e dove si specifica con rammarico l’assenza di qualsivoglia epigrafe per identificare la mummia di giovane donna trovata in una cripta sul medesimo sesto miliare. Ritengo comunque che il deciso cenno al ritrovamento di epigrafi riferite a Tulliola sia la prova di due diversi avvenimenti circa coevi, confusi nelle trascrizioni della seconda metà del 1400 e poi cristallizzati nelle prime opere a stampa. Resta quindi in sospeso il problema di una duplicità dove si deve anche annoverare quanto riferito da Celio Rodigino in “Antiquae lectiones”, pubblicate nella stessa Basilea ma nel 1516, che tale ritrovamento venne fatto sulla via Appia davanti la Tomba di Cicerone, mai esistita nei pressi di Roma, bensì saldamente attestata nel nostro territorio come del resto quella ritenuta di Tulliola. Devo quindi essere grato a questi contributi dei lettori che evidenziano l’amore verso il nostro paesaggio, risorsa delle future generazioni cui però si deve far gara nella difesa con l’imposizione di diverse e illegittime finalità, non ultime e attuali di personali immeritevoli affermazioni nella scalata del potere.
Didascalie delle immagini 1 – La ricostruzione in dimensioni ridotte di una delle torri della Tomba di Tulliola (Emilio Sparagna). 2 – La “Torretta” sulla via Appia presso S. Remigio, particolare da un disegno di Carlo Labruzzi del 1789 (Bibl. Ap. Vaticana). 3 – La medesima “Torretta” oggi impropriamente fatta ricoprire da piante decorative senza intervento delle autorità. 4, 4 bis– La pagina del testo e frontespizio dell’opera di Volaterrano, riferita al ritrovamento del sepolcro di Tulliola vicino Roma.

lunedì 5 dicembre 2022

INDAGINI SULLA “TOMBA DI TULLIOLA” - di Salvatore Ciccone
Nello scorso articolo sul paesaggio del “Formianum”, la villa di Cicerone, ho fatto cenno alla “Tomba di Tulliola” situata sulle pendici del colle Acervara. Tulliola era il vezzeggiativo di Tullia, la figlia tanto amata da Cicerone e che morì giovane di parto. I ruderi in effetti rispondono ad un sepolcro rupestre nel quale il Gesualdo nel 1754 (Osservazioni Critiche…) voleva però identificare la vera sepoltura del padre (fig.1), facendo leva finanche sul nome della collina: sarebbe una corruzione dall’iscrizione ACERBA ARA di là estratta anni prima e riferita alla cruda morte di quello. In realtà il toponimo proviene dal latino “acervus”, riferibile al “cumulo” di elementi del rudere. La tesi venne rinvigorita dal Principe di Caposele (Antichità Ciceroniane) allorché disse di avervi rinvenuto nel 1798 e fatta nascondere una statua priva di testa di un uomo in toga, confrontabile con un oratore. L’attribuzione del monumento a Tullia si perde nel tempo e incontra l’episodio riportato da Pasquale Mattej (Poliorama Pittoresco) tratto da Celio Rodigino nel 1516 (Antiquae Lectiones), secondo il quale al tempo di Sisto IV (1471-1484) venne rinvenuta la mummia di una donna in un sepolcro sulla via Appia davanti alla Tomba di Cicerone, identificata come figlia di questi da una iscrizione. Tutto ciò mi ha spinto fin dalla metà degli anni Settanta a svolgere una serie di indagini per collocare il monumento nell’ambito dell’autenticità. i rilievi restituiscono un unitario complesso funerari (fig. 2) situato a mezza costa circa a 100 metri di quota, costituito da una terrazza contenuta sul ripido pendio con muri in “opus incertum”, profonda circa 15 metri e con una fronte di circa 30, divisa al centro dai muri paralleli di una scala di accesso larga m. 2,35. La metà occidentale dell’area era sovrastata da una coppia di torri ottagonali integrate al muro di ritenuta superiore e tra le quali si sopraelevata una piazzola; nella metà opposta si ergeva isolato un altare monumentale con alta cuspide conica. Retrostante al medesimo muro vi è un ipogeo naturale la cui volta è però crollata, probabile camera funeraria. Il monumento si allineava sulla stradina di un insediamento rustico con cisterna sul soprastante pianoro “Le Fonti”, tuttavia a quello inadeguato; la posizione invece lo rendeva visibile dalla villa litoranea in asse alla Tomba di Cicerone, che appare rispondente alla di lui tenuta con una parte in altura a mille passi dal mare, circa 1500 metri. Il muro di contenimento a monte, variamente documentato, era in ”opus quadratum” di pietra calcarea, superstite in sua continuazione sul lato esterno del basamento a podio della torre occidentale (figg. 3, 3A): con filari regolari su nucleo cementizio costituiva un dado raccordato ad uno zoccolo con modanatura a gola rovescia espansa e sopra limitato da cornice, il tutto elevato dal calpestio in lastre calcaree squadrate tramite un piedistallo, come unicamente testimonia la seconda torre integralmente vittima delle spoliazioni. Pochi resti sono a cognizione della torre occidentale: era cementizia, ottagonale, con lato di circa metri 1,55 e larga 3,75; paramento in fasce orizzontali alterne a minuto “opus reticulatum” e a frammenti di tegole; altezza ipotizzabile due volte la larghezza in metri 7,48 e 11,24 dal calpestio. La struttura cuspidata, abbattuta nel secondo conflitto, in una rara foto (fig. 4) mostra nucleo cementizio a base quadrata con sovrapposta muratura di tegole: in traccia sul suolo e dagli elementi sparsi, si doveva comporre di un podio rivestito con blocchi di arenaria dorata di Gaeta, con esclusiva cornice a gola rovescia espansa su entrambi i margini e l’elemento conico con il paramento di tegole; inclusa nella spianata e col lato di circa tre metri doveva pareggiare almeno l’altezza delle torri. L’elemento riferisce alla tipologia di un’ara o altare, il cui cono simboleggiava l’ascesa dell’offerta sacrificale. Si confronta con quelle plurime del sepolcro tardo repubblicano alle porte di Albano, notevole per l’uso di una pietra dorata benché vulcanica. Alla stessa età accordano le modanature espanse come nel podio delle torri e non contraddetta dal paramento di quelle, quale decorazione a scandirne l’altezza. Durante le indagini ho voluto dar credito al ritrovamento della statua e mi sono impegnato in una sua ricerca estenuante lungo la rupe; quando sembrava non dare esiti, stanco e arreso mi accorsi…di starci sopra, confusa com’era tra le rocce. In realtà rappresentava una figura femminile panneggiata in posa di “pudicizia”, priva dei piedi e con il solo incavo per l’inserimento della testa purtroppo irreperita; la statua, esposta nel Museo di Formia (fig. 5), venne recuperata dalla Soprintendenza Archeologica insieme ad un frammento epigrafico della stessa pietra di Gaeta che comprovava come l’ara conica fosse iscritta. Ora resta il problema dell’appellativo tradizionale che sembra avvalorarsi e trovare origine in quel ritrovamento della mummia con epigrafe e che il Mattej relegò più tardi, come la statua e la ACERBA ARA, nel mondo della fantasia. Ne dubitava il Middleton nel 1744 (Vita di Marco Tullio) il quale scriveva di non aver mai saputo di una Tomba di Cicerone sulla via Appia, invece qui attestata. Determinante è quanto riportato da Ceram nel fortunato libro “Civiltà al sole”, riguardo la lettera del 1485 dell’umanista Bartolomeo Fonte al mercante Francesco Sassetti, amico di Lorenzo il Magnifico. Vi riferisce del rinvenimento al sesto miglio della via Appia di un sepolcro nel cui sarcofago venne trovata la mummia di una giovane donna ricoperta da unguento profumato e così ben conservato da sembrare deceduta il giorno stesso, con i capelli intrecciati di seta e oro, ma che nessuna iscrizione attestava la sua identità: ne inframezza il disegno (fig. 6), l’unico finora conosciuto, del corpo con il sarcofago, quando fu esposto al Campidoglio e visto in pochi giorni da oltre ventimila persone, finché il papa Innocento VIII prese la decisione di farlo seppellire in un luogo segreto. Dunque il fatto somiglia a quello riportato da Rodigino, benché questi lo collochi al tempo di Sisto IV, invero morto nel 1484, ma con la sostanziale differenza di essersi il corpo disfatto tre giorni dopo essere stato trasportato a Roma e che una iscrizione lo identificava con Tullia, figlia di Cicerone. Dunque un episodio creduto fantastico trovava riscontro in un reale accadimento, ma come confrontare la tradizione locale di Tulliola, con quella la mummia senza iscrizioni? Credo nella possibile somiglianza o meglio confusione tra due distinti episodi di cui certa è la mummia di Roma e possibile il rinvenimento di epigrafi sul sepolcro rupestre; questo in un periodo in cui l’interesse per le antichità trovava approssimata diffusione tra gli umanisti del Rinascimento. Una risposta è ancora da attendere e sono certo che verrà, se il monumento sarà sottoposto agli scavi scientifici ed estendendo le ricerche d’archivio, ma ciò sarà possibile nella considerazione del paesaggio che ci comunica valori e in generale la fede e la capacità di affrontare le sfide del futuro. (Sull’argomento dell’Autore con bibliografia in “Formianum”, Atti del Convegno IX-2001).
Didascalie delle immagini: 1 – Stampa nell’opera di Gesualdo: a destra la Tomba di Cicerone, sulla collina quella di “Tulliola”. 2 – Pianta e ricostruzione sintetiche del complesso funerario “di Tulliola” (Ciccone, 1982). 3 – Sopra, il podio della torre occidentale e la stessa vista da oriente, con il muro della scala e l’area della cuspide. 3 A - Disegno di Labruzzi del 1789 (Bibl. Ap. Vaticana): a sinistra la cuspide e a destra le basi delle due torri. 4 – La “Tomba di Tulliola” raffigurata da Mattej nel “Poliorama Pittoresco” del 1837: a destra la cuspide nel 1930. 5 – A sinistra in basso, la statua a valle del sepolcro prima del trasporto nel Museo Archeologico di Formia, a destra. 6 – Disegno nella lettera di Bartolomeo Fonte nel 1485 della mummia col sarcofago trovati nei pressi di Roma.

sabato 26 novembre 2022

LA STAZIONE FERROVIARIA DI FORMIA

Quando il 3 maggio 1892 entrò in funzione la Stazione Ferroviaria di Formia, sulla linea Gaeta-Formia-Sparanise, nessuno avrebbe mai immaginato quale importante futuro era destinato a questo piccolo scalo ferroviario con solo due binari. Infatti, il 16 luglio 1922, veniva inaugurato il primo tronco ferroviario da Roma a Formia e la nuova Stazione ferroviaria di Formia sulla “Direttissima Roma-Napoli”, una delle più importanti opere portate a termine dal regime fascista tra il Lazio e la Campania. Da tempo si parlava di una nuova linea ferroviaria che collegasse Roma a Napoli in breve tempo, in alternativa alla lenta Roma-Segni-Cassino-Napoli, già in funzione dal 1863 e che aveva interessato tre differenti amministrazioni statali: Lo Stato Borbonico, il neonato Regno d’Italia e lo Stato Pontificio. Il primo progetto della Direttissima porta la data dell’anno 1871, ma soltanto nel 1907, con apposita legge sulla progettazione di nuove ferrovie, fu affidata all’Amministrazione delle Ferrovie dello Stato la costruzione della Direttissima. La nuova linea, per la quasi totalità prettamente in rettifilo, con pochissime curve d’ampio raggio, pendenze insignificanti, assenza di passaggi a livello e soprattutto a trazione elettrica, consentiva una maggiore velocità di quella a vapore e avrebbe ridotto di circa un’ora e mezza il viaggio tra Roma e Napoli, portandolo a tre ore, in luogo delle quattro e mezzo della linea Roma-Segni-Cassino-Napoli. I lavori della costruzione della nuova linea iniziarono nel 1907; nel tratto che da Formia conduce al fiume Amaseno, furono comprese le due gallerie più lunghe di tutta la linea, quella di Priverno-Fossanova e quella di Fondi-Sperlonga, di circa 7 km. cadauna. I lavori di traforo delle gallerie durarono 5 anni e furono completati nel 1912, quando il resto della ferrovia era ancora all’inizio. Allo scoppio della prima guerra mondiale i lavori vennero sospesi e ripresero proseguendo a rilento nel 1920. Con l’insediamento del governo fascista venne dato una forte impulso ai lavori che proseguirono con celerità, tanto da ultimare il primo tratto fino a Formia già nel 1923 e concludersi, come preventivamente determinato, nel 1927. L’inaugurazione della stazione di Formia, avvenne alla presenza del re Vittorio Emanuele III, con una fastosa cerimonia presenziata da autorità civili e militari locali e nazionali. 
Fino al completamento della Direttissima avvenuta nel mese di ottobre del 1927, i treni provenienti da Roma, a Formia venivano istradati sul vecchio tratto della linea Gaeta-Sparanise fino a Caserta, per poi raggiungere Napoli sul vecchio tronco ferroviario. L’interessante denominazione Direttissima pare sia opera di un deputato napoletano che, affine ad usare i superlativi, la chiamò così nei suoi interventi di preparazione alla legge ferroviaria, e tanto piacque che ne divenne il toponimo indiscusso. Gli eventi bellici dell’ultimo conflitto mondiale non risparmiarono la stazione ferroviaria di Formia che venne quasi totalmente distrutta, rimanendo inattiva fino al mese di luglio del 1949, quando i lavori di ricostruzione riconsegnarono una nuova stazione più moderna, senza le pensiline di metallo in stile Liberty e con il numero dei binari portato a cinque, tutti a servizio dei passeggeri.
Nel 1926, la Stazione di Formia partecipò al "Concorso Abbellimento Stazioni", ricevendo un'ambita medaglia di vermeil.

Nelle immagini :
Nell'immagine il frontespizio, e uno stralcio su Formia della corografia del progetto originale della direttissima Roma Napoli, il giorno dell'inaugurazione avvenuta il 7 luglio 1922 e il riconoscimento ricevuto nel 1926.

mercoledì 23 novembre 2022

GIÀNOLA: NATURA E ARCHEOLOGIA ESALTATA DAL CEMENTO - di Salvatore Ciccone
Non sono molte ore che il giornalista Saverio Forte ha pubblicato sul suo blog (vedi in calce) una mia esternazione circa le opere compiute nell’area archeologica della “Villa di Mamurra” nell’area naturale protetta di Giànola compresa nel Parco regionale “Riviera di Ulisse”. La notizia porta sul piano della polemica, genericamente assunto come inefficace, un accadimento certamente serio e imbarazzante per il contesto istituzionale coinvolto; pertanto, chiamato in causa, condivido qui la pagina di cronaca per sollecitare la pubblica opinione con alcune mie aggiuntive considerazioni. L’istituzione delle riserve naturali protette, come quella di Giànola, hanno lo scopo di conservare ambiti armonizzati di natura e di cultura, incentivando le attività ad essi congeneri e assicurandoli alla pubblica godibilità come esemplari all’apprendimento di un adeguato rapporto tra sviluppo e ambiente. Il recupero dell’edificio ottagonale sulla sommità della villa romana, motivato dall’esponenziale degrado a seguito del diroccamento nell’ultimo conflitto, è passato attraverso un concorso di selezione dei progetti aggiudicando quello redatto da me insieme al collega ingegnere Orlando Giovannone. Con l’accordo d’obbligo della Soprintendenza Archeologica del Lazio si prefisse l’obiettivo di istituire un cantiere permanente e visitabile per garantire la prosecuzione delle indagini e degli scavi solo al termine dei quali definire il tipo di intervento di parziale ricostruzione e copertura. Nello svolgimento delle opere fu rigorosissimo l’approccio alle opere imponendo due varianti al progetto e limitandole al minimo nel rispetto delle testimonianze nell’area naturale di cui esse costituivano basilari fattori di caratterizzazione: l’area scavata dell’edificio venne coperta con struttura a tubi e giunti “Innocenti” però resa più stabile e duratura. Concluse le opere con successo, invano si è attesa l’apertura al pubblico finché la succeduta Soprintendenza di nuovo ordinamento ha ottenuto di poter gestire tutta l’area centrale della villa, circa 10.000 metri quadrati, recintarla, progettare d’ufficio le opere e di appaltarle con finanziamento del Ministero dei Beni Culturali di circa 800.000 euro. Risultato: Recinzione con pannelli di rete e pesanti cancelli, circa 200 metri lineari di viali di calcestruzzo larghi due metri con piazzole, da ambo i lati cinti da transenne di castagno, alterazione dei livelli dell’antico giardino con scavo del terreno soprastante la cisterna “Trentasei Colonne”, piazzale di accoglienza dominato da avveniristico wc ma per una sola persona, sostituzione della copertura sull’edificio ottagono con un’altra definitiva in putrelle di acciaio…Tutto questo quando prima ci si era limitati come si doveva alla terra battura e alle più invisibili soluzioni, ad una evoluzione di interventi e non ad una mediocre definitiva “musealizzazione”. Devo subito dire che la critica ovviamente non è diretta all’impresa appaltatrice e direi neppure al progettista, ma di certo solo ed esclusivamente a chi e per conto della Soprintendenza con queste opere ha materializzato tutta la sua incompetenza e arrogante insensibilità verso l’area. Tutto questo comunque non sarebbe potuto avvenire se l’Ente Parco avesse preteso il giusto orientamento e vigilato come si doveva sul suo istituto di prioritaria competenza. Pare invece, anzi è stato asserito, che il Parco si è limitato a consegnare l’area alla Soprintendenza e che in essa sono state ottimamente eseguite le opere che ne danno maggior lustro. Se lo scopo dell’area protetta è quella di proteggere l’ambiente e di farne promozione, non so con quale giustificazione si potrà proporre la stesa di cemento al pubblico e alle scolaresche. Il solo rispetto della ‘filiera’ burocratica e le pretese competenze istituzionali non basteranno a giustificare questo danno di fronte all’opinione dei cittadini. Non creda chi ha responsabilità di seppellire questo abominio nella noncuranza generale e piuttosto si affretti a trovare un rimedio assolutamente imprescindibile, anche se costoso, di vero e proprio restauro ambientale.
Le immagini Alcuni tratti di viali e piazzali di calcestruzzo, di “labirinti” staccionati e sconvolgimenti di livelli nella parte centrale della Villa di Mamurra afferente l’edificio ottagonale.

lunedì 21 novembre 2022

DILUVI SUL PAESAGGIO DI FORMIA - di Salvatore Ciccone
Di recente nel territorio di Formia si registrano fenomeni alluvionali a corti intervalli e particolare violenza. Le “bombe d’acqua” sono ormai temibili per l’effettiva quantità della precipitazione in un breve lasso di tempo e per concentrazione. È questo sicuramente un effetto dei cambiamenti climatici, tuttavia i fenomeni amplificati evidenziano gli squilibri apportati da una improvvida espansione urbana. Pesanti alterazioni dei livelli del suolo, incremento abnorme di piccole e grandi coperture, distese di piazzali e nastri d’asfalto, raccolgono l’acqua delle piogge senza un commisurato sistema di smaltimento, andando direttamente ad alimentare piccoli scoli e torrenti che inevitabilmente straripano e furiosamente devastano ogni cosa. Al suolo è impedita la sua naturale permeabilità e di assorbire parte delle piogge, capacità tanto più elevata quanto maggiore è la copertura vegetale fino a quella massimamente evoluta a bosco, le cui chiome ammortizzano e distribuiscono nel tempo l’impatto delle precipitazioni. Se così fosse sulle nostre colline e montagne, dai rubinetti non verrebbe acqua terrosa e che è quella che scivola tra le nude rocce intercalate da poca terra, privata di vegetazione da ostinati incendi, che poi si infiltra inquinando le falde… Quanto accade è responsabilità di un modello di società che nello “sviluppo” è discriminante all’ambiente, usando scorciatoie e paradossi tecnologici, negli ambiti di scarsa cultura concretizzato nell’edilizia scadente almeno nei confronti del rispetto del territorio. Così si osserva l’avanzare informe della città sulla terra abbandonata, incolta e bruciata per la quale l’unica soluzione attesa di ricchezza consiste nel ricoprirla di cemento e di asfalto. I fenomeni alluvionali hanno quindi evidenza dove l’uomo vuole strappare alla natura i propri spazi senza osservare le leggi di quella, tanto semplici quanto imprescindibili. Anche nel passato Formia è stata vittima di alluvioni e dissesti idrogeologici. Tra i più recenti sono quelli procurati col passaggio della ferrovia, la cui sede ‘a riporto’ imposta ai piedi del monte di Mola ha impedito il naturale deflusso delle acque fino a causare instabilità di edifici in via della Conca: si dovette consolidare il suolo con una complessa ‘palificata’ di cemento armato. I più anziani ricorderanno le colate di fango che da via Cassio presso il “Cimitero vecchio” giungevano ad invadere piazza Santa Teresa, rimosse poi con improvvisate squadre di spalatori: erano dovute dall’accumulo dell’acqua sul fianco a monte della ferrovia e che in supero si riversava nella strada. Questa parte della città è testimone di più antiche alluvioni, come si è potuto constatare nei vari scavi edilizi all’incrocio tra via Rubino, via Nerva e XXIV Maggio dove i reperti si sono trovati sepolti a considerevole profondità. La possibilità di documentare meglio questa condizione si è avuta con l’apertura della trincea per il collettore fognario in via Vitruvio nel 1998-2000 e che ho seguito per conto della Soprintendenza Archeologica del Lazio. In particolare nella zona della “Quercia” delle strutture romane che contenevano il salto di quota sull’insenatura portuale, si sono trovati colmati con un terreno compatto e scuro spesso circa quattro metri e tutto di composizione omogenea, il quale quindi privo di alterne stratificazioni testimoniava una vera e propria colata di fango. Simile situazione si è manifestata procedendo fino in corrispondenza di piazza Della Vittoria, dove già si sapeva che un pari spessore ricopriva le volte di un criptoportico e quasi schiacciato sotto l’enorme peso; invece nel livello più alto della costruzione intercettato dalla trincea, nella colmatura alluvionale delle stanze sono affiorate sepolture con vasellame databile intorno al VI-VII secolo dopo Cristo. Il fenomeno si è ugualmente evidenziato nel parziale scavo dell’anfiteatro compiuto dalla Soprintendenza Archeologica nel 2011. L’edificio è apparso sepolto sotto una analoga ingente massa alluvionale tanto da determinare il verso di frammenti strutturali. I fusti di colonne che componevano il portico di coronamento che proteggeva le gradinate di legno, sono apparse abbattute e dirette verso il mare, come sospese sopra l’ambito dell’arena: trovati anche frammenti dei capitelli, alcuni dei quali “corinzieggianti” in precedenza recuperati sono presso il Museo. Insomma appare chiaro che Formia fu vittima di una eccezionale colata alluvionale sul tipo di quella recente d Sarno, in entrambi i casi per liquefazione e smottamento del terreno dalla montagna a ridosso: il monte di Mola infatti presenta un doppio profilo più acclive nella parte bassa, certamente favorevole all’insorgenza del fenomeno. Quando e perché ciò è avvenuto appaiono interrelati: l’epoca di quelle sepolture annovera fatti storici che sicuramente hanno condotto alla decadenza della Città, dalla guerra Greco-Gotica ai Longobardi. Ciò deve aver condotto all’abbandono e incuria dei terreni o all’incendio di un bosco ceduo, privando il terreno di solidità che a fronte di abbondanti precipitazioni è scivolato invadendo la città; questo sarebbe comprovato dall’abbondanza di reperti non soggetti a spoliazione, evento che potrebbe aver maggiormente determinato il suo declino. Questo suolo soprastante le strutture, stanze e pavimenti, infiltrato dall’acqua delle colline, facilmente si impantanava e si chiarisce perché fu successivamente caratterizzato da estensiva coltivazione degli agrumi, piante cui necessita un terreno costantemente pregno d’acqua. L’area dell’antica città declive verso il mare fu ridotta a giardino persino versando terra sopra le sostruzioni a volta delle ville, uniche ad apparire dal seppellimento sulla riva contesa dal mare. Appare evidente come nel paesaggio, determinato da fattori naturali e umani, le alluvioni siano in ogni modo influenti nella nostra vita e le loro cause necessariamente da prevenire e certo non da incentivare. A ciò vale l’opera di divulgazione e sensibilizzazione nella popolazione attraverso i media, in cui i fatti storici come quelli qui appena accennati costituiscono tangibile prova. Nel raggiungimento di questo obiettivo è l’istituzione delle riserve naturali protette, le quali hanno lo scopo di conservare ambiti equilibrati di natura e di cultura ed anzi incentivarne le attività ad essi congeneri, assicurandoli alla pubblica godibilità e esemplari all’apprendimento di un adeguato rapporto tra sviluppo e ambiente alternativo all’imperante cementificazione; però esso stesso è insidiato da incompetenza e manifestazioni di potere: il principale diluvio sul paesaggio di Formia.
Didascalie delle immagini 1. veduta aerea dello scavo dell’Anfiteatro con l’ingente seppellimento evidenziato dalle opere di provvisorio contenimento. 2. Stanza decorata in finte lastre di marmo (Primo Stile) affiorata dal sedimento alluvionale in via Vitruvio presso piazza Della Vittoria. 3. Veduta della parte centrale dell’area archeologica nell’Area naturale protetta del Parco regionale “Riviera di Ulisse”.

sabato 12 novembre 2022

ULTERIORI CONSIDERAZIONI SUL PAESAGGIO DEL “FORMIANUM” - di Salvatore Ciccone
Nel precedente articolo ho spiegato il significato di paesaggio in relazione alla parte del territorio individuata come il “Formianum”, cioè la villa o tenuta di Cicerone dove egli trovò la morte il 7 dicembre del 43 avanti Cristo. Il sito comprenderebbe parte del litorale di Vindicio, della retrostante piana di Pontone e della immediata altura dell’Acervara, separata dalla via Appia dove si staglia il rudere del sepolcro tramandato a suo nome. Qui testimonianze archeologiche concernono l’antica viabilità, opere idriche e approdi relativi a resti di residenze costiere di cui una eccelle in rapporto con il sepolcro e con la sovrastante collina. Ho evidenziato la differenza tra paesaggio e panorama, il primo insieme di fattori ambientali e culturali, di cui il secondo è l’ampia parte visibile. Questa cognizione è importante soprattutto di fronte alle convulse trasformazioni attuali, che vengono imposte devastando il retaggio culturale e mortificando i panorami: infatti in relazione ai guasti visuali di un sito, subentra la logica del declassamento per avallare interventi di più ampio e definitivo disfacimento. Ciò è errato, in buona fede, ma in molti casi voluto in una logica che vuole forzatamente imporre ed anzi sfoggiare potere dove nessuno oserebbe e dove la legge stabilisce. Anche quando un panorama fosse stato rovinato, il paesaggio potrebbe conservare buona parte delle componenti valoriali potenzialmente integre, risorse ancorché sotto specifica tutela da utilizzare sia all’incremento culturale che al miglioramento economico della comunità locale; comunque quest’ultima finalità non va assunta come esclusiva. Detto questo, rivediamo il problema di quest’area di grande pregio che nel passato ha destato ammirazione, ispirato artistiche espressioni di cui solo alcune già presentate, e che oggi si trova in un accavallare di contingenze pregresse, nell’accrescimento di attività e sovraccarico viario, ulteriormente gravato dall'accrescimento del finitimo porto di Gaeta. Tale circostanza non permette di questo importante tratto della via Appia antica, un adeguato utilizzo sul piano turistico al punto che è arduo fermarsi presso la Tomba di Cicerone o alla successiva Fontana Romana verso Formia, di percorrerlo cioè come si conviene in sicurezza e in condizioni confacenti per recepirne i valori di indiscutibile importanza. Tra le altre presenze culturali proprio in vicinanza della Fontana si erge un sepolcro a torretta ottagonale e ne sono stati posti in luce i resti di un altro che si riconnette a famose iscrizioni tra cui quella di un Marco Vitruvio, molto probabilmente riconducibili al celebre architetto di Cesare ed Augusto: purtroppo questo sepolcro, vincolato ma inosservato, è fatto volontariamente inghiottire da edere poiché ritenuto di aspetto indecoroso… Come si vede, ai problemi indotti dallo sviluppo si registra una generalizzata assenza di consapevolezza del patrimonio identitario, con l’effetto di accelerare i fenomeni di depauperamento sulla media e lunga prospettiva. Pertanto il soddisfacimento delle necessità indotte dalla produzione sul territorio deve partire dal riconoscerne tutte le potenzialità in modo da stabilire che interventi non solo non siano lesivi, ma rappresentare l’opportunità per ulteriormente preservarne le peculiarità e utilizzare al meglio le componenti: una “coltivazione” del paesaggio per tramandarlo con valori acquisiti; un processo che altrove stabile rende ricche e rinomate fino le più piccole comunità. La soluzione per ottenere dallo sviluppo benefici per il “Formianum” e il connesso tratto monumentale della via Appia, sta nello stabilire la gerarchia dei percorsi veicolari che devono distinguersi tipologicamente e pertanto finalizzati alle specifiche necessità. Il problema attuale è che il traffico delle merci è commisto a quello delle autovetture e costretto a transitare pericolosamente verso Formia sulla via Appia-Cicerone e per via Vindicio collegarsi alla Litoranea “Flacca”; non di meno lo è quello tramite via Canzatora che separa Formia da Gaeta. Ora sarebbe inconcepibile la soluzione di un ulteriore raccordo che connettesse direttamente la Flacca dal confine di Gaeta alla via Appia in prossimità della Tomba di Cicerone, senza risolvere ed anzi rendere più critico il traffico proprio in corrispondenza del celebre monumento, magari con la pretesa di porlo in maggiore visibilità, ma che lo lederebbe irrimediabilmente insieme al suo ambito campestre, dopo il passaggio della Litoranea di nuovo amputato nella sua distesa continuità verso il mare. A scongiurare questo minacciante scenario, la soluzione esiste già ed anzi è stata realizzata recentemente sia pure in maniera approssimativa ed è la ‘bretella’ che dall’Appia presso i “25 Ponti” passa tra il monte Conca e monte Lauro per biforcare nella via di Arzano diritta al nuovo porto di Gaeta e in quella verso la Piana di Sant’Agostino; si tratta solo di riadeguarne la carreggiata e alcuni passaggi del tracciato commisurati in funzione dello scalo marittimo. I vantaggi sarebbero immediati, non solo per il territorio di Formia, ma anche per larga parte di quello di Gaeta poiché questo percorso potrebbe svincolarla di gran parte del traffico sulla costiera di uso turistico e propriamente urbano, con una variante dalla stessa Piana litorale. Tale bretella verrebbe convenientemente allacciata alla progettata viabilità pedemontana dalla zona di “Piroli” ai “25 Ponti” e da qui verso Formia tutto il tracciato della via Appia risulterebbe sgravato del traffico pesante insieme agli odierni collegamenti con la litoranea. A seguito di ciò sulla via Appia, dall’incrocio Canzatora verso Formia, diventerebbe attuabile una percorrenza privilegiata a prevalenza pedonale e ciclabile, con aree di sosta adeguate ai torpedoni turistici; il paesaggio verebbe di conseguenza preservato nelle sue prerogative nel generare molteplici vantaggi e occasioni di lavoro. Del “Formianum” la parte che cela inedite possibilità è quella collinare dell’Acervara attraverso l’ottocentesca via “Militare” che la percorre e che permette di accedere al sepolcro rupestre di Tulliola e alla soprastante piana “Le Fonti”, dove insistono i resti di una villa romana con cisterna: un’area di elevato pregio panoramico, tutta da rivalutare anche tramite attività naturalistica, di rimboschimento o di culture specializzate. Si tratta quindi di riconoscere questi valori e le opportunità offerte da questa parte del territorio principalmente a Formia, ma che credo anche a Gaeta, nella considerazione che queste due città sono inscindibili in un comune patrimonio di paesaggio.
Didascalie immagini : 1 – Mappa del “Formianum” di Cicerone (Ciccone 1993); in rosso gli antichi tracciati viari: A, Tomba di Cicerone e B villa connessa (prop. Lamberti); C, Tomba di Tulliola; 1, resti di acquedotto e 2 serbatoio di arrivo; 3, basamento di edificio pubblico (tempio di Apollo?); 4, resti di approdo; 5, 6, resti di villa rustica con cisterna. 2 – La via Appia presso la Tomba di Cicerone. 3 – Il paesaggio del “Formianum” dalla Tomba di Tulliola (a destra) sul colle Acervara (foto G. De Filippis). 4 – Resti del sepolcro di Marco Vitruvio sulla via Appia presso la Fontana Romana.

sabato 5 novembre 2022

IL PAESAGGIO DEL “FORMIANUM” DI CICERONE - di Salvatore Ciccone
Negli ultimi due articoli che ho qui pubblicato, riguardo la chiesa incognita sulla via Appia e la via Olivella, emerge il valore e il significato del paesaggio, vale a dire l’insieme dei fattori ambientali intrecciati a quelli della cultura materiale e immateriale di un popolo a costituire l’identità di un “paese”; è scambiato con il panorama che di esso rappresenta solo un’ampia parte visibile. Attualmente le dinamiche di progresso prevalgono a snaturare se non distruggere l’essenza dei paesaggi e ovviamente devastandone i panorami, usando pretenziose soluzioni “urbanizzanti” ed enucleando dai contesti solo quegli elementi giudicati di valore per lo stesso sviluppo economico. Esempio emblematico per Formia fu l’attraversamento della via Litoranea su uno dei tratti di costa urbana più belli d’Italia: ciò fu possibile con la strada progettata come asse di un parco archeologico per accedere alle aree monumentali, devastandole e poi rese indisponibili; una distorsione asservita al gretto utilitarismo col benestare dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione! In base a questo temo l’evolversi di idee e progetti di “passeggiate” sulla costa archeologica cittadina, che se anteposte sul mare ne terminerebbero le caratteristiche superstiti e irripetibili. Non di meno temo il concepimento di raccordi viari a servizio del porto di Gaeta, ad investire una delle zone più belle del territorio di Formia: la valle di Pontone retrostante la costa di Vindicio, attraversata da uno dei più rinomati tratti della via Appia antica risaltata dalla celebre Tomba di Cicerone. Non sono tranquillo e non dovrebbero esserlo tutti i cittadini formiani, riguardo alla protezione e al controllo di queste risorse da parte degli uffici preposti, considerando i trascorsi ed anche l’attualità come nell’area archeologica di Giànola con opere che chiunque potrà giudicare. La mia opinione è che Formia da tempo sia considerata come ‘porto franco’ per ogni azione altrove non accettabile e consentita in un acritico automatismo burocratico. Non è il caso di risalire alle cause di ciò, ma credo e anzi voglio credere ancora che si possa fermare questo scempio muovendo l’interesse dei nativi e non, per essere orgogliosi di vivere questo territorio nella sua più completa dimensione e prospettiva per sé e per i propri discendenti; quindi non basta infondere curiosità, ma si deve comprendere il valore dell’insieme e soprattutto sentirlo proprio. Dunque il paesaggio della via Appia nella piana di Pontone (fig. 1). Esso è stato ammirato e descritto tra i più belli dai viaggiatori del Grand Tour che da tutta Europa e dal settentrione della Penisola da Roma si portavano a Napoli. Nel lungo percorso nella piana di Fondi e poi per l’angusto valico di Sant’Andrea alla valle di Itri, improvvisamente gli si spalancava il Golfo di Gaeta: lo vedevano presso la Tomba di Cicerone in un unico scenario emblematico di storia e natura, rievocante le origini mitiche e le glorie della romanità nello sfondo partenopeo ravvisato dal fumante Vesuvio. Questa visione viene efficacemente restituita in una stampa incisa da William Brockedon (1787-1854) nello “Illustrated Road Book from London to Naples” del 1835 (fig. 2), dove il suo commento puntualizza il monumento costruito nel luogo dove Cicerone venne ucciso dai mandatari di Marco Antonio il 7 dicembre del 43 prima di Cristo. Questa identificazione è riportata da altri autori, i quali riferiscono di una viuzza accostata al sepolcro che giungeva al mare e sulla quale sarebbe avvenuto il delitto: in effetti parte di questa stradina lastricata appare inclusa e sepolta nel recinto funerario. Nell’immagine appaiono due elementi di apparentemente fantasia: in primo piano delle agavi sul bordo viario e il monumento come torre difensiva. Le agavi in effetti c’erano e lo dimostra una fotografia in simile vista di primo Novecento (fig. 3), ciò che riporta alla veridicità della torre. Quest’ultima specificità si coglie nella prima immagine del monumento (fig. 4), nell’unica incisione a corredo del volume “Osservazioni critiche sopra la Storia della via Appia di Don Francesco Maria Pratilli”, edito a Napoli nel 1754, scritto dal dotto Erasmo Gesualdo di Gaeta. Egli dice di averne chiesto il disegno al celebre pittore conterraneo Sebastiano Conca (1680 – 1764), ma l’incisione è siglata da Giuseppe Vasi (1710 –1782), architetto corleonese famoso per le sue vedute di Roma, ove morì. Qui la torre appare con le esplicite caratteristiche difensive, merlatura su beccatelli e un piccolo edificio sulla sommità. Ciò rispecchia la stessa denominazione di allora, Torre di Cicerone, con l’evidente impiego di sorveglianza di quel transito importante in rapporto al castello di Gaeta, probabilmente riadattata durante il periodo Aragonese, circa dalla metà del Quattrocento. Ma l’illustrazione Conca-Vasi è anche unica nel dare una visione del sito distinto dalle testimonianze connesse a Cicerone. Difatti a monte dell’Appia sono contemplati altri ruderi tra i quali spicca sulla prospiciente collina quella che la tradizione indica “Tomba di Tulliola”, la figlia dell’Oratore morta di parto. Gesualdo vuole che questo sepolcro sia quello vero di Cicerone facendo anche leva sul discutibile ritrovamento dell’iscrizione “Acerba Ara” da lui relazionata all’aspra morte di quello e al nome stesso della collina, Acerbara. In realtà in nome è Acervara deriva dal latino “acervus”, mucchio, cumulo, riferibile al rudere composto da più elementi ravvicinati. Questo monumento funerario è altresì specificatamente illustrato da Carlo Labruzzi nel 1789 e da Pasquale Mattej nell’illustrazione di un suo articolo sul “Poliorama Pittoresco” del 1837 (fig. 5): questi ricolloca la tomba di Cicerone e per il sepolcro rupestre riporta la notizia del ritrovamento nel Quattrocento di una mummia di donna, da una iscrizione identificata in Tullia, figlia di quello. Un altro disegno di Labruzzi, della stessa serie presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, raffigura la tomba di Cicerone dove in alto sulla collina allora boscosa appare l’altra di “Tulliola” (fig. 6): sulla sommità del primo appare un casotto traforato, inconfondibile piccionaia atta alle comunicazioni militari. La sedimentazione storica di questo paesaggio oggi si arricchisce di significati e nel pregio da nuove acquisizioni scientifiche di una più probabile per non dire certa appartenenza al “Formianum” di Cicerone. La sua villa è dagli antichi collocata parte sul mare e parte in altura e che ben si adatta alla zona di Pontone-Vindicio, dove è attendibile il monumento celebrativo: nell’anno 954 l’Ipata di Gaeta Docibile II vi annovera nel suo testamento un “vico ciceriniano”, cioè la villa di Cicerone. Pensare ora quella valle contrassegnata dal podere e dal sepolcro di quell’uomo illustre in tutto il mondo sconvolta per sempre da opere tanto inopportune quanto altrove collocabili, renderebbe nel paesaggio veramente tangibile l’identità di un popolo, ma nella barbarie. (Sulla villa e la Tomba di Cicerone si veda dell’Autore in “Formianum”, Atti del Convegno IX-2001) Didascalie delle immagini
1 - La piana di Pontone e la Tomba di Cicerone all’inizio degli anni 1960 (foto di P. G. Sottoriva). 2 – La veduta della via Appia presso la Tomba di Cicerone realizzata da Brockedon nel 1835. 3 – La via Appia e la Tomba di Cicerone nel primo Novecento (coll. R. Marchese): in primo piano, agavi. 4 – Stampa nell’opera di Gesualdo del 1754: a destra la Tomba di Cicerone, sulla collina quella di “Tulliola”. 5 – La Tomba di Tulliola raffigurata da Mattej nel “Poliorama Pittoresco” del 1837. 6 – La Tomba di Cicerone disegnata da Labruzzi del 1789: in alto a sinistra la Tomba di Tul

venerdì 28 ottobre 2022

VIA OLIVELLA, ESEMPIO DA PRESERVARE - di Salvatore Ciccone
C’è una stradina appartata che collega il mare alla via Appia (oggi via Remigio Paone) prima di guadare il torrente Rialto: è via Olivella, a me cara perché legata ai ricordi della prima infanzia quando vi abitavo ed era l’unico percorso più prossimo alla città per raggiungere la spiaggia di Vindicio e il porto Caposele. Allora un viatico di umanità colorita rompeva il predominante silenzio, dagli sporadici venditori al risonante scalpiccio degli zoccoli dei bagnanti e ai richiami in puro dialetto; i profumi poi, delle zagare inebrianti, insieme agli aliti del mare, dominante… Abbandonata dal prevalente transito della nuova via Felice Tonetti, nella sua attuale secondarietà via Olivella nasconde l’originaria rilevanza poiché ricalca una via romana, parte del tracciato che si vuole realizzato dal censore Lucio Valerio Flacco nell’anno 188 prima di Cristo. Da questa estremità di Formia, la via si allungava sulla costa di Vindicio e del monte Conca dove, presso l’omonima cappella viaria della Madonna, si biforcava da una parte nel golfo a servizio del “Portus Caietae” e dall’altra portarsi sulla costiera da Sant’Agostino a Sperlonga e il fondano: proprio quest’ultimo breve tratto condotto arditamente sulle falesie, sarebbe quello effettivamente realizzato da Flacco, a collegare due opposti percorsi preromani nell’occasione incrementati. L’attestazione archeologica della strada è in più parti riscontrabile e per quanto concerne il tratto litorale di Vindicio anche variamente testimoniata dal XVII secolo, sebbene ultimamente contraddetta in base ai reperti affiorati nei saggi per la realizzazione del nuovo lungomare, ma da trincee sulla parte esterna e in lungo alla carreggiata invece che opportunamente trasversali. Di fatto della via romana se ne evince la presenza e la direttrice nella parte inferiore di via Olivella sul mare, dove in un muro ottocentesco che la limita compaiono riutilizzati numerosi basoli di pietra lavica del selciato, evidentemente intercettati nello scavo di fondazione (fig. 1). Nel 2007 il terreno retrostante fu interessato alla realizzazione di due ville unifamiliari: la Soprintendenza Archeologica acertò l’assenza di testimonianze dell’epoca e un terreno vergine, dando disposizioni affinché i basoli presenti nel muro rimanessero visibili. Sullo scorcio degli anni 1950, con il passaggio della retroposta via Litoranea fu fatta ad essa sottopassata via Olivella modificando in quel punto il livello della carreggiata e l’uniforme pendenza, venendo intercettati e rimossi i resti dell’antico selciato (fig. 2). È da considerare che a Formia la pavimentazione in pietra lavica sulla via Appia è comparsa verso il basso Impero, a partire dal rifacimento della via fatto dall’imperatore Caracalla nell’anno 216 da Fondi a Formia; invece del più antico lastricato in pietra calcarea locale rimangono i singoli elementi di rado riutilizzati nei muri susseguenti, nonché lungo la salita di Conca presso il Borgo Sant’Angelo. Sulla via Olivella attualmente non vi sono presenze visibili di antiche costruzioni. Invece a metà Ottocento lo studioso formiano Pasquale Mattej documenta in una sua mappa una serie di sepolcri allineati sul limite a monte della salita in prossimità della via Appia (fig. 3): vengono riportati con forma quadrangolare di medie dimensioni, probabilmente parti basali o nuclei strutturali. Ad essi sembrano potersi riferire gli schizzi di due distinte costruzioni del genere (fig. 4), dove l’indicazione “a Vendice” deve ragionevolmente identificarsi con quelli ubicati sulla mappa lungo Via Olivella. Alla presenza dei sepolcri si confronta un reperto conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Formia, ritrovato nell’ambito della strada negli anni 1920 in occasione della costruzione di una casa e donato dal proprietario Bernardo Miele, il fondatore dello stabilimento balneare “Bandiera”: consiste in una scultura marmorea ascrivibile al I o II secolo d.C., che rappresenta il corpo mutilo di un animale mitologico di prevalentemente significato funerario. La caratteristica visuale del percorso storico della via Flacca – Olivella, oggi in parte compromessa dal passaggio della via litoranea, è rappresentata dalla combinazione tra la notevole pendenza della carreggiata e la stretta delimitazione dei fianchi, più evidente nella parte alta del tracciato dove vi sono gli alti muri di confine su entrambi i lati. Così da questa posizione elevata a scendere, si produce l’effetto ottico ‘a cannocchiale’ che risalta il tratto panoramico del golfo (fig. 5). Invece salendo lo sguardo è gradatamente accompagnato dai muri in curva sull’incrocio con la via Appia (fig. 6), questa però nel periodo post-bellico avvicinata di una quindicina di metri per infilare il nuovo ponte. I suddetti effetti si dimostrano alterati dove sul lato mare è stata poi abbattuta una porzione del muro relativa il fronte del dismesso “Romantic Hotel” costruito negli anni 1960. Vie ‘murate’ come questa erano consuete nelle immediate periferie ed anche nei centri abitati prima che l’urbanistica generalizzasse canoni relativi all’aumento e godibilità pubblica degli spazi privati con risultati non sempre felici. Credo che queste antiche strade così spazialmente definite costituiscano una preziosa componente del paesaggio, purtroppo continuamente stravolte come si vede lungo la via Appia ad occidente di Formia a causa dell’apertura di inviti con modalità contrastanti al valore dei siti. Esse ricadono comunque nei vincoli di tutela, non di meno per gli elementi significativi che spesso includono, veri e propri ‘muri parlanti’ della storia dei luoghi. L’auspicio di una maggiore attenzione verso queste precarie testimonianze si infrange nell’apprendere che proprio l’immediata vicinanza alla Tomba di Cicerone è interessata dal progetto di un innesto viario di sconvolgente brutalità che decreterebbe l’alienazione del monumento e il suo antico contesto, oggi appurato pertinente alla villa del celebre personaggio e dove venne trucidato il 7 dicembre dell’anno 43 prima Cristo: un uomo e un fatto delittuoso celebri e degni di considerazione nel mondo…A quanto pare non dove consegnati in lascito. Sulla via Flacca a Sperlonga e sulla villa e la Tomba di Cicerone, si veda dell’Autore in “Formianum”, Atti del Convegno IX-2001.
Didascalie immagini 1. Lo sbocco di via Olivella sul lido di Vindicio, incrocio vie Tito Scipione - Porto Caposele: a sinistra il muro include basoli lavici dell’antica via Flacca. 2. Via Olivella durante l’adattamento della carreggiata al sovrappasso della via Litoranea (circa 1958): la freccia indica alcuni basoli rimossi dell’antica via Flacca. 3. Particolare della mappa archeologica elaborata da Pasquale Mattej nel 1868: la freccia indica via Olivella con sepolcri espressi con quadratini rossi. 4. Resti di due sepolcri romani “a Vendice” in un disegno di Pasquale Mattej del 1847 presso la Biblioteca Vallicelliana in Roma. 5. Via Olivella in discesa verso con visuale indirizzata al lido di Vindicio: a sinistra il dismesso “Romantic Hotel”. 6. Via Olivella in salita nella visuale guidata dai muri in curva verso l’incrocio con la via Appia.

venerdì 21 ottobre 2022

UNA NUOVA IPOTESI SULLA CHIESA INCOGNITA - di Salvatore Ciccone
Ho iniziato il precedente articolo da due disegni di Pasquale Mattej del 1847 che raffigurano una “chiesa diruta” sulla via Appia presso la Tomba di Cicerone. La ricognizione del luogo ha evidenziato i resti ancor più degradati dell’edificio effettivamente rispondenti ai disegni, ma nulla è emerso sulla sua identità, né dai documenti, né dalla toponomastica locale. Si è supposto che tale ragione possa derivare dal remoto abbandono della chiesa, pressoché vicino alla sua istituzione, che dalla architettura rimonterebbe alla seconda metà del 1400, implicando forse i Francescani di Gaeta, il transitorio regno degli Aragona e un possibile conflitto con l’abbazia di Sant’Erasmo di Castellone. Proprio su questa pista, facendo riferimento alle continue cause intentate dagli Olivetani succeduti nell’abbazia nel 1491 a difesa della loro influenza, la mia attenzione si appunta sulla chiesuola di San Sebastiano eretta nel decennio 1470 e poi co-intitolata a San Rocco, situata davanti alla porta meridionale di Castellone detta più recentemente dell’Orologio. Dai documenti dell’Archivio Diocesano si documenta come il sacro edificio venne ostacolato fin dalla sua costruzione, alla fine compiuta ma con precisi condizionamenti al suo esercizio. Essa era intitolata a San Sebastiano, similmente all’altra cappella a Mola presso il castello e fuori la Porta degli Spagnoli, già abbandonata all’inizio del ‘600 e fittata ad altri usi. Essa era sussidiaria a quella interna di San Lorenzo, dove in quella attuale prevalsa da San Giovanni Battista è conservato il pregevole dipinto circa del 1490 riferibile ad Antoniazzo Romano, con San Sebastiano speculare a San Lorenzo ai lati della Vergine col Bimbo. Dunque, riguardo la chiesuola di Castellone, in un secondo momento compare anche il culto di San Rocco al quale oggi è comunemente riferita. Fatto sta che i due santi appaiono raffigurati sul trittico sopra l’altare, anche qui ai lati della Vergine col Bimbo. Quest’opera su tavole è firmata da Geronimo Stabile “neapolitanus”, probabilmente parente di Antonio attivo a Napoli nella seconda metà del Cinquecento e alla quale pure risale quest’opera. È pertanto da supporre che il culto di San Rocco venne istituito in antecedenza al dipinto, dove la figura dominante della Vergine sembra equiparare al Santo preesistente quello aggiunto successivamente nella cappella. Questa circostanza mi fa pensare alla possibilità che il culto di San Rocco possa essere stato trasferito a causa dell’abbandono di un altro specifico luogo; alla sua identificazione la natura del Santo è indicativa. Nativo di Montpellier intorno al 1350, il suo fervido credo lo condusse in pellegrinaggio in Italia curando miracolosamente gli infetti della peste che imperversava l’Europa e che fece strage della popolazione affliggendo egli stesso; morì a Voghera dopo tre anni di ingiusta prigionia più probabilmente il 16 agosto 1379. Il suo culto si propagò fulmineamente come secondo santo più invocato e diffusissimo con chiese e cappelle già alla metà del secolo successivo; alla sua specifica qualità si unì quella emblematica del pellegrino divenendone quindi anche patrono: così nel trittico di Castellone è nelle vesti di pellegrino intento a curarsi le piaghe. Il culto fu sostenuto dai frati di Assisi ai quali nel 1547 Papa Paolo III inserì nel loro Martirologio San Rocco in quanto ritenuto appartenente al Terz’Ordine Francescano. Questa canonizzazione mi riporta al monastero di Sant’Agata sull’omonimo colle di Gaeta, retto proprio dal Terz’Ordine Francescano; quindi il suo essere pellegrino alla chiesuola diruta sulla via Appia. Questa ipotesi verrebbe corroborata dalla natura dell’altro Santo, Sebastiano, che fu il primo ad essere invocato nelle pestilenze: anch’esso oriundo ‘francese’ di Narbona nato nel 256 d. C., ufficiale dell’esercito imperiale, fu martirizzato a Roma trafitto da innumerevoli frecce e creduto morto, guarito dalle ferite similmente alle piaghe della peste e poi ucciso per flagellazione il 20 gennaio del 288. Pertanto la chiesa di San Sebastiano già lo vedeva invocato contro le epidemie cui il successivo San Rocco appare sminuirne la qualità, a meno che quest’ultimo come pellegrino fosse considerato rifugiato presso quello con simile ufficio, da un luogo non più sicuro o dismesso per complessi motivi. Si deve ricordare che la dominazione Aragonese venne interrotta con la discesa in Italia di Carlo VIII, il quale nel 1495 prese Gaeta facendo scempio di popolazione persino nelle chiese e queste depredate e rovinate tanto che una delle quattro navi carica dei bottini naufragò presso Terracina e approfittata da quegli abitanti. Sicuramente a questa data la chiesa sulla via Appia non poté scampare e neppure la torre di vedetta adattata nel sepolcro di Cicerone. In questa circostanza è probabile il riparo del culto a Castellone, occasione forse per far decadere la chiesa periferica destinandola ad alto impiego, anche a frantoio come indica una pietra nei muri d’ampliamento. Si tratta naturalmente solo di una ipotesi, benché ponderata e molto probabile, cui mi serbo di mantenere la predominanza rispetto ad un culto mariano tipico di molte cappelle viarie della zona. Essa può costituire lo spunto di ricerche d’archivio, ma che potrebbero rivelarsi a lungo infruttuose. Nel frattempo è però da considerare lo stato del rudere, unica testimonianza certa di un culto e di non secondaria importanza. Esso è infatti in serio stato di degrado e il prossimo al cedimento di alcune sue parti potrebbe causare anche incidenti gravi al traffico viario. Questa urgenza nella apparente banalità dei resti potrebbe essere il pretesto di una facile risoluzione di abbattimento, cancellando definitivamente la memoria del sacro sito. Per la sua valenza storica la sua preservazione è cosa di competenza né si può addebitare ai proprietari, ma credo spetti al Comune di Formia e direi anche a quello di Gaeta sulla via che ne separa i rispettivi territori. Quanto poi alla chiesa di San Sebastiano e San Rocco di Castellone, essa sembra accomunata da similare sorte. Dopo il furto del trittico qualche anno fa e poi recuperato in parte mutilo dai Carabinieri, esso ancora non è stato ricollocato; benché tenuta aperta, si osserva un decadimento della stessa considerazione a confronto col restauro eseguito nel 2001 dalla Inner Wheel Formia-Gaeta, allora dinamicamente presieduta dalla compianta professoressa Paola Fabiani. Anche questo monumento presenta molti spunti di interesse. L’aula a tre campate con volte a crociera quattrocentesche è il risultato di una successiva trasformazione, essendo illustrata da Giacinto Gigante nel 1855 con antistante portico: è questo che chiuso ha costituito l’attuale terzo vano di accesso, insieme all’irrobustimento ‘scarpato’ del muro orientale. Si osserva come il portale d’ingresso sia una mescolanza tra le prevalenti parti ottocentesche e quelle visibilmente discordanti delle pietre ornate all’imposta dell’arco; in questo poi è l’ingenua riproposizione del sacro trittico. Si vede così come la conoscenza del nostro patrimonio muova la necessità della conservazione e la considerazione della cultura come base di ogni espressione della società civile. Per questo è proprio nell’attuale difficile situazione che questo principio deve essere sostenuto a fronte dell’incredibile sfaldamento di ogni certezza. Nello specifico caso si aggiunge la fede e comunque il dovuto rispetto verso il sacro che si spera possa essere ulteriormente determinante.
Didascalie Immagini 1 – La chiesa incognita in uno dei disegni di Pasquale Mattej del 1847 confrontata nel sito attuale. 2 – Vista frontale dei ruderi: a destra la parte dell’aula di culto. 3 – Chiesa di San Sebastiano e San Rocco a Castellone, confrontata con il disegno di G. Gigante del 1855 (da A. Treglia, Mola e Castellone di Gaeta oggi Formia, 2014): il portico risulta chiuso ad ampliamento dell’aula. 4 – Interno della chiesa di San Rocco con in primo piano l’ambito dell’originario portico. 5 – Il trittico con a destra rappresentato San Rocco.

mercoledì 19 ottobre 2022

LA COLLABORAZIONE DI PASQUALE MATTEJ CON IL POLIORAMA PITTORESCO
Il “Poliorama Pittoresco”, uno dei più vivaci periodici napoletani, diretto dall’abate Giustino Quadrari, edito a Napoli dal 1836 al 1860, stampato dell’editore-tipografo Filippo Cirelli, è stata forse la pubblicazione più letta della stampa periodica del Regno di Napoli. Garantiva una notevole varietà di argomenti e di spunti artistici e letterari, vantando una numerosa schiera di collaboratori. Uno dei più fecondi è stato il formiano Pasquale Mattej, che illustrava numerosi articoli del periodico. La litografia che vi presento è una pregevole opera del nostro artista pubblicata nel numero 2 dell’anno 1855, dove si festeggia la nascita della principessa Maria Luisa. A margine della litografia si legge: “Illuminazione che l’Eccellentissimo corpo di città faceva eseguire nel largo del Mercatello per tre sere consecutive nei giorni 23, 24 e 25 gennaio per festeggiare il felice sgravio di Sua Maestà la Regina” Maria Luisa di Borbone (Caserta, 21 gennaio 1855 – Pau, 23 agosto 1874), era figlia minore di Ferdinando II delle Due Sicilie e della sua seconda moglie, l'arciduchessa Maria Teresa d'Austria. Orfana del padre a soli 4 anni, fu cresciuta insieme alle sorelle della madre, che dedicò il resto della sua esistenza esclusivamente alla cura della sua numerosa prole.
Nelle immagini, oltre alla stupenda litografia, una fotografia della principessa Maria Luisa.

venerdì 14 ottobre 2022

LA CHIESA INCOGNITA - di Salvatore Ciccone
Tra i tanti disegni che il colto artista Pasquale Mattej produsse intorno la metà dell’Ottocento, quasi fotogrammi del suo peregrinare nel territorio di Formia, un soggetto mi incuriosisce ben oltre l’apparenza. È in due simili schizzi nell’album conservato presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma, che rappresentano un tratto della via Appia presso il bivio della via Canzatora in direzione di Formia, dove la carreggiata appare limitata da un fabbricato diruto ma caratterizzato da un pregevole portale: dei due schizzi uno è annotato “Scansatoia 20 feb° 47” e l’altro con “Casa di Polito alla Scansatoia, chiesa diruta 14 marz° 47”, dunque eseguiti nel 1847 una ventina di giorni l’uno dall’altro. La Scansatoia è appunto la via oggi omologata “Canzatora”, definita anche “Spartitora d’Itri” nel ‘700, strada che consentiva il diretto collegamento con la via litorale più interna al golfo di Gaeta già in epoca romana, come ha dimostrato il selciato di recente venuto in luce. Poi nel secondo disegno, a parte il nome del proprietario, certo Polito, quello che risalta è la definizione del rudere in “chiesa diruta”, senza specifico titolo insolito alla scrupolosità del Mattej. Comunque, rispetto ad altre sue raffigurazioni lungo la via Appia che oggi non hanno riscontri, queste invece corrispondono con lo stesso rudere ulteriormente degradato, certamente riconducibile ad un edificio di culto. Il fabbricato è a pianta rettangolare all’incirca di 15 metri lungo la via e di 8 metri nell’interno, con muri rosi di una sequenza di vani scoperchiati dei quali si distingue quello estremo verso Formia, con resti di copertura a botte, come androne di passaggio del campo retrostante: ampio poco più di 3 metri, tiene all’interno un muro aggiunto alla parete verso Itri, rinforzo alla sopraelevazione abitativa palese nei disegni di Mattej. La volta è tranciata nella parte di colmo che era pressappoco 5 metri dal pavimento e pare essere stata moderatamente a sesto acuto: è di tipo massiccio, formata di blocchi di tufo giallo rinfiancati da calcestruzzo livellato per un piano superiore; resto di una simile volta si osserva nel vano susseguente. L’androne è quello che corrispondeva al portale illustrato e perciò doveva costituire l’aula di culto il cui fondale è però totalmente aperto sul campo e non determinabile. Nulla resta dell’ingresso che dai disegni appena si può delineare nella sua principale caratteristica. Si tratta infatti di un portale di stile “durazzesco” riferibile al quattrocentesco tardogotico, individuato dalla incorniciatura quadrangolare della parte alta a contenere e a risaltare l’arco, qui in più con un soprastante fastigio in forma di frontone triangolare ‘spezzato’, probabilmente per accogliere nel mezzo un elemento emergente. Di questo portale, almeno in parte di elementi di pietra o marmo, ho tentato una ricostruzione schematica del tutto ipotetica con possibile proporzionamento secondo la “sezione aurea” e al relativo rettangolo, solo per rendere intellegibile il disegno di Mattej. Dunque l’edificio presenta una modalità costruttiva in uso nel ‘400 e combacia lo stesso portale più evoluto da collocare nella seconda metà o allo scorcio del secolo medesimo. La chiesa si collocherebbe quindi nel periodo della conquista aragonese, da Alfonso V che dalla presa di Gaeta del 1435 vi eresse la reggia per sette anni per poi insediarsi a Napoli, fino al figlio Ferdinando sul finire del secolo. Allo stesso periodo deve risalire l’adattamento della Tomba di Cicerone a vedetta e perciò prima detta “Torre di Cicerone”, con l’intonacatura sfaccettata del fusto cementizio tipica dell’epoca e la colombaia sulla soprastante terrazza, torre indispensabile a sorvegliare la via Appia in collegamento con il castello di Gaeta. Si deve rammentare quanto narra Beccadelli, biografo di Alfonso, quando il re non volle impiegare per le fortificazioni di Gaeta i massi appartenenti alla villa per “antica tradizione” indicata di Cicerone, di certo quelli del basamento del sepolcro e in quel “vico ciceriniano”, villa o contrada, citato nel testamento dell’Ipata Docibile II nell’anno 915, perciò probabilmente quello stesso monumento trasformato dagli Aragonesi in difesa. Si può quindi immaginare una organizzazione del territorio in relazione alla presenza del re, dove anche la chiesa assolveva una funzione utile sì, ma anche di immagine tanto è denotata dal pregevole portale altrimenti eccessivo per un sito rurale periferico. A quale titolo fosse dedicata la chiesa e a chi affidata resta un mistero; però se fosse stata connessa alla vicina abbazia di Sant’Erasmo che aveva molti possedimenti nella zona, essa sarebbe rimasta più lungamente in uso, presente nei documenti di quell’istituto come nella toponomastica, invece nulla di ciò. È quindi probabile che sia stata relazionata ad un ordine religioso di più recente insediamento, come quello francescano che a Gaeta era potentemente attestato anche nel monastero di Sant’Agata sull’omonimo colle e che attraverso quella chiesa periferica poteva dare assistenza ai contadini e ai viandanti ricavandone utili offerte. Simile situazione si è avuta con la chiesa di Santa Maria delle Grazie presso Giànola sulla stessa Appia, tenuta dai Francescani di Marànola nel cui territorio insisteva e della quale recentemente ho individuato l’edificio. Il culto della chiesa in questione poteva essere riferito alla Vergine come le frequenti cappelle mariane su strada di Gaeta ed Itri, il quale probabilmente imposto nell’ambito dell’abbazia benedettina, appena fu possibile venne da questa soppresso cancellandone totalmente la memoria: sappiamo di svariate cause intentate dai successori dei Benedettini cassinesi, quelli dell’ordine Olivetano insediatisi nel 1491, riguardo a chiese e cappelle che potessero distogliere i fedeli dalla loro influenza; anzi è proprio forse dall’insediamento di quelli che la chiesa di lì a poco può essere stata soppressa, tanto indietro nel tempo da cancellarne la memoria. Null’altro si può dire se non che alla ricerca infruttuosa di notizie, ho dovuto far posto ad un ragionevole rientro nel mio campo dell’architettura, lasciando ad altri l’eventuale rinvenimento di documenti, soprattutto sperando che questo contributo, nell’attuale bisogno di migliori auspici, possa muovere l’interesse e comunque salvaguardare la memoria di questa chiesa incognita.
Didascalie Immagini 1. Il rudere della chiesa incognita sulla via Appia raffigurato da Pasquale Mattej il 20 febbraio 1847: sul fondo la più evidente Tomba di Cicerone. 2. I ruderi della “casa di Polito” comprendenti la chiesa disegnati da Mattej il 14 marzo 1847. 3. Veduta attuale del tratto della via Appia con i ruderi identificati alle raffigurazioni di Mattej. 4. Vista frontale dei ruderi: a destra l’ambiente con volta corrispondente all’aula della chiesa. 5. Il portale della chiesa: dal primo disegno di Mattej e ipotesi del disegno (S. Ciccone, 2022).