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domenica 20 febbraio 2022

L’ANTICA VIA APPIA CHE ATTRAVERSA FORMIA
Tra le opere straordinarie che gli antichi romani ebbero la capacità di realizzare è senza dubbio da menzionare la via Appia. La prima autostrada della storia: la “Regina Viarum”, come la chiamavano i Romani, era formata da una pavimentazione composta da basoli, pietre basaltiche di grosse dimensioni ben levigate, poggianti su di uno strato di pietrisco, che riempiva una trincea artificiale che assicurava il drenaggio e la tenuta. Per volere del senatore Appio Claudio i lavori iniziarono nel 312 a. C. e partendo da Roma raggiunsero Capua, toccando le città di Ariccia, Terracina, Fondi, Itri, Formia e Minturno. I lavori si protrassero fino al 190 a.C., data in cui la via completò il suo percorso fino alla città di Brindisi, che era il più importante porto marittimo che collegava l’Italia alla Grecia e all’Oriente. Le città laziali attraversate dalla via Appia ebbero tutte un notevole sviluppo; per alcune, tra cui Formia, fu motivo per diventare, prima "civitas sine suffragio" ed in seguito, poiché il passaggio attraverso il suo territorio era strategicamente importante per le legioni romane, ricevette nel 188 a.C. la piena cittadinanza romana. L’ingresso alla città ad occidente dell’Appia era nella zona di Rialto; si addentrava nel centro cittadino e da quel punto prendeva il nome di via Tullia, così denominata per ricordare la giovane figlia di Cicerone. Si estendeva fino alla torre di Mola dove si apriva l’ingresso orientale della città. Attraversando tutto il centro cittadino, era il passaggio obbligato per i viaggiatori che nei secoli scorsi viaggiavano da Roma a Napoli e viceversa. Il lungo tratto, che all’epoca si percorreva in carrozza, aveva come tappa “obbligata” Formia: ci si fermava volentieri per far riposare i cavalli e per ristorarsi dalle fatiche del viaggio, in uno dei vari alberghi esistenti in città. Il basolato che oggi percorriamo su via Angelo Rubino e Via Ferdinando Lavanga è stato posto in opera in epoca Borbonica sovrastante lo stesso tracciato dell'antica via Appia. I basoli di epoca romana spesso vengono alla luce quando si eseguono scavi per lavori di posa in opera di cavi o condotte, come è successo alcuni anni fa (vedi foto) a circa due metri di profondità. Gli eventi bellici dell’ultima guerra mondiale distrussero Formia per circa il 90% dell’abitato e la lenta ricostruzione ha portato notevoli sconvolgimenti alla struttura urbanistica della città, comportando in molti casi anche la perdita o il cambiamento della toponomastica. La via Appia era il centro economico di Formia, lungo i suoi due lati numerose attività commerciali ed artigianali rendevano viva ed attiva la vita cittadina. Credo che questo tratto di storica via, che attraversa il centro cittadino, dovrebbe tornare a chiamarsi “via Appia Antica”, e sono certo che Angelo Rubino, Ferdinando Lavanga e l’Abate Tosti non avrebbero nulla da ridire.
Nelle foto: la via Appia in località S. Remigio (ingresso occidentale alla città) tratta da una Incisione dell'arch. Luigi Rossini del 1835, una foto di uno dei tratti della via ancora in perfetto stato di conservazione tra Fondi ed Itri, la via Appia nei pressi della torre di Mola (ingresso orientale della città) tratta da una Incisione dell'arch. Luigi Rossini del 1835 e due immagini dei lavori eseguiti in via Ferdinando Lavanga.

martedì 15 febbraio 2022

L’AREA ARCHEOLOGICA DI GIÀNOLA: PROMEMORIA ALLA REALTÀ di Salvatore Ciccone
Da tempo più persone mi hanno fermato in strada ed anche telefonato per chiedermi quando sarebbe stato possibile visitare l’edificio ottagonale della villa di Mamurra nel Parco di Giànola, motivati dall’essere io conosciuto quale architetto incaricato dei lavori colà finalizzati e colui che da decenni studia l’area archeologica. La ripetuta domanda lecita e anche infarcita di complimenti, nelle ultime settimane ha fatto trasparire una certa inquietudine e anche qualche sotteso disappunto, la qual cosa ha cominciato a preoccuparmi. Infatti all’inizio si faceva certo riferimento all’intervento di recupero dell’edificio ottagonale, dei quali io l’ingegnere Giovannone eravamo stati incaricati del progetto e direzione lavori, procedimento concluso e che permetteva l’apertura delle visite invero rimasta sospesa; per gli ultimi tempi ci si riferiva evidentemente ai nuovi lavori sulla medesima area dei quali noi siamo rimasti totalmente estranei. Per capire cosa stesse avvenendo, sono andato ad osservare e farmi capace della situazione per esprimere questa nota di chiarimento, nel rispetto della deontologia professionale concernente le opere di colleghi, anzitutto delineando i prodromi in cui si è realizzato il nostro operato. Poco dopo l’istituzione del Parco regionale di Giànola e del monte di Scàuri, avutasi nel 1987, il presidente “Mimmo” Villa mi chiamò per varie libere consulenze e poi incaricarmi del progetto di recupero della parte del complesso indicato Cisterna Maggiore, da destinare a centro di accoglienza per i visitatori dell’area archeologica; a ciò si sovrappose l’acquisto di circa nove ettari corrispondenti alla maggior parte dell’antica villa. L’obiettivo era quello di salvaguardare l’integrità dell’insieme delle strutture, con interventi che consentissero la fruizione e comprensione e la relazione dei vari edifici, conservando la caratteristica d’inserimento nell’ambiente naturale e nel paesaggio formata nei secoli, questo nel rispetto della legge costitutiva dell’area protetta, per realizzare l’uso appropriato delle risorse nelle attività economiche, agricole e turistiche. Ai vari progetti ed opere messe in campo da vari colleghi, come nella scala coperta “Grotta della Janara” e nella cisterna “Trentasei Colonne”, rimaneva di affrontare il più arduo dei problemi: il recupero del principale e distintivo edificio ottagonale, che diroccato durante l’ultimo conflitto risultava un informe ammasso di macerie con intricata vegetazione. Di esso solo lo studioso formiano Pasquale Mattej, sulla rivista “Poliorama Pittoresco” del 1845, ne aveva documentato le peculiarità e l’enigmatica pianta ottagonale, eminente tra le sparse vestigia attribuite ad un “Tempio di Giano” ma da egli ricondotte ad una villa romana. Al bando di concorso nazionale indetto dalla Regione, risposi insieme al collega ingegnere Orlando Giovannone con una proposta progettuale e vincemmo. Ai lavori benché facilitati dalle cognizioni che avevo annosamente acquisite, si pararono difficoltà oggettive, nonché discordanze con la direzione scientifica assunta come dovuto dalla Soprintendenza Archeologica, comunque uniformate in una volontà di rendere il meglio sia riguardo alla testimonianza prevalentemente architettonica che al contesto naturale. All’inizio dell’intervento, le immediate scoperte di sculture, teste ritratto marmoree di una fase di medio Impero, sono state il principale motivo di rinunzie alle dotazioni tecniche su cui contava il progetto, che avrebbero consentito lo spostamento dei grandi blocchi strutturali e liberare un settore e la sala centrale dell’edificio. Ciò fu comunque fatto limitatamente ai pochi mezzi disponibili e al dirottamento di parte dei fondi sullo scavo non previsto del corpo di fabbrica di collegamento tra l’edificio e la sottostante villa. Fu quindi messa in opera la programmata copertura della parte centrale dell’ottagono, con sistema reversibile a giunti e tubi zincati, assicurata a terra nel rispetto delle rovine con plinti di calcestruzzo in funzione di zavorra contro le spinte dei vento localmente impetuosi; il resto del cumulo ruderale venne protetto con uno speciale telo impermeabile traspirante ricoperto con uno strato minerale sterile per impedire lo sviluppo di vegetazione. La recinzione dell’area era stata realizzata con la più semplice rete romboidale e paletti di ferro, di comune uso e poco visibile già sulla media distanza. I percorsi poi furono compiuti con semplice fondo inghiaiato e transenne di castagno, nella parte verso il mare lasciando libero il passaggio con la parte occidentale della collina, per i visitatori oltre che agli operatori del Parco e a mezzi di pronto intervento in caso di incendio. Queste procedure furono tutte progettate, concordate e sottoscritte dalla Soprintendenza nella visione di realizzare un cantiere archeologico visitabile, dove il sistema provvisorio di tettoia si sarebbe potuto ampliare al progredire degli scavi e, una volta acquisita più ampia cognizione dell’edificio e dello stato delle strutture, sostituirlo con un progetto di ricostruzioni e più specifiche protezioni. Era questa non solo una procedura scontata per qualsivoglia area archeologica ma di più si imponeva in questo caso, poiché il cumulo informe di strutture abbattute anche dopo lo scavo era appena intellegibile e certamente non oggetto di una definitiva musealizzazione con una pretenziosa copertura qualificata, tra l’altro preclusiva al proseguimento degli scavi. Ugualmente la recinzione non poteva essere autoreferenziale, così pure i percorsi ed altri elementi di arredo, altrimenti antagonisti di questo peculiare paesaggio armonizzato dalle strutture e dalla natura, scopo preminente delle opere di conservazione. Anche in ciò si fece in modo di non alterare i livelli del terreno, in particolare nella parte a valle del collegamento tra l’edificio e la villa, dove sul pianoro si accertarono le tracce di un portico a emiciclo di circa 18 metri di raggio, il cui spazio racchiuso era delimitato lungo diametro verso il mare da un basso muro con al centro i gradini di transito: su questo piano vennero infatti in luce i resti di una chiesa con resti decorativi di IX secolo e circondata da un cimitero. Questo fu il risultato difficilmente raggiunto facendo combaciare tra loro diverse “anime” e istituzioni nella necessità di indagine, conservazione, tutela, fruizione e del delicato aspetto paesaggistico, procedendo per gradi e nel tempo per acquisire le più adatte soluzioni nel migliore equilibrio: un procedimento teso minimizzare gli elementi aggiuntivi nella maggiore soddisfazione delle attese. Malgrado queste solide motivazioni proiettate a futuri maggiori sviluppi, di quelle opere accessorie non esiste più traccia: questo è quello che si constata recatomi sul posto e che deriva dai seguenti fatti succeduti. Mentre il Parco procedeva ad aprire il monumento alle visite, la Soprintendenza Archeologica ha assunto l’integrale conduzione dell’area, con nuovo progetto e opere finanziate dal Ministero per i Beni, Attività Culturali e Turismo, smantellando quanto era stato realizzato, principalmente con la sostituzione della copertura sull’edificio ottagonale, recintando tutto il comparto a chiuderne l’area fino a comprendere la scala voltata “Grotta della Janara” e la Cisterna “Trentasei Colonne”, interrompendo la naturale continuità del Parco. L'ordine di questi nuovi lavori, ancora non terminati, oltre a disattendere l’aspettativa di una ulteriore indagine in quell’edificio, si evidenziano incomprensibili a fronte del disfacimento dei ruderi della parte più bassa e prossima al mare, con mosaici e intonaci decorati alla mercé degli agenti naturali e di chiunque, verso i quali invece necessita il più tempestivo intervento. Dunque ora non si può che fermarsi ad osservare fuori il recinto e i più robusti cancelli di ferro, limite ad ogni altra constatazione. Per quanto ci riguarda rimane la certezza di aver bene operato e con il massimo scrupolo e di ciò contiamo nel ricordo che qui si vuole trasmettere e perpetuare a confronto della realtà.
Nelle immagini: Planimetria della villa romana con schema di orientazione delle parti: 1. edificio ottagonale c.d. Tempio di Giano (musaeum - sepulcrum); 2. canale ornamentale (euripus); 3. cisterna ‘maggiore’; 4. plesso invernale e castellum aquae; 5. cisterna c.d. Trentasei Colonne; 6. scala c.d. Grotta della Janara; 7. fontana; 8. balneum; A. chiesa altomedievale; B. basamento Torre di Giànola. (Arch. S. Ciccone 1990). La copertura provvisoria a protezione della parte scavata dell’edificio ottagonale non più esistente, l’ingresso presso i resti di una abside e l’interno della sala ottagona centrale (foto Arch. S. Ciccone 2018), l’attuale recinzione nella parte inferiore dell’area di intervento della Soprintendenza Archeologica.

venerdì 11 febbraio 2022

GLI EPITAFFI DEL DUCA DI ALCALÀ LUNGO LA VIA APPIA di Salvatore Ciccone
La via Appia ha sempre suscitato interesse ed emozioni nei viaggiatori eruditi del Grand Tour per la sua fama di “Regina Viarum”. Ciò avveniva dopo secoli di abbandono, tuttavia mai completo in virtù dell'importanza strategica del tracciato che già aveva accompagnato l'espansione di Roma nel Meridione ed alle rotte per la Grecia e l'Oriente. Frequenti erano le interruzioni per il crollo di ponti, frane, paludi, queste ultime ancora dopo il prosciugamento ed il restauro operato da Teodorico fino alla Mesa presso Terracina, fecero preferire l'interna e più sicura via Latina. Nel Rinascimento, al consolidarsi degli assetti politici, al rifiorire dell'economia e dell'arte, la via Appia tornò nuovamente ad essere considerata un indispensabile e rapido collegamento del Meridione con Roma e quindi con l'Europa; testimonianza sono i documenti dei restauri riguardanti il tratto che va dal più antico confine degli Stati della Chiesa col Regno di Napoli tra Terracina e Monte San Biagio, fino al fiume Garigliano che attualmente separa il Lazio e la Campania: i cosiddetti Epitaffi, monumenti commemorativi dei lavori compiuti sotto il dominio spagnolo di Filippo II il Cattolico. L'indagine prende avvio da quello un tempo esistente presso il Ponte di Rialto a Formia, sul torrente dalle alte e ripide sponde (rivum altum), vera difesa naturale ad occidente dell'antica Città e poi del trecentesco Castellone. Il ponte, semidistrutto insieme all'Epitaffio nell'ultima guerra, oggi ancora resiste all'incuria e all'erosione: era costituito da un grande arco girato in conci di tufo alternati a mattoni, solido e leggero ad un tempo, impostato su spalle inferiormente rivestite da alte cortine di pietra squadrata. Dell'Epitaffio non rimangono che alcune parti lapidee del basamento, delle modanature e del nucleo cementizio. Il basamento in forma di podio è lungo m. 5,30, largo 1,70 e alto 1,90 compresa la cornice composta di un grosso ‘toro’ con sottostante ‘guscio’, spesso usata alla sommità delle scarpe di mura e torri dell'epoca: il cosiddetto ‘redondone’. L’architettura del monumento può solo osservarsi in rare foto d'epoca, dove sul podio si erigeva una parete risaltata sui cantoni da coppie di lesene, concluse da modiglioni sorreggenti un frontespizio ad ‘arco spezzato’; nello specchio centrale campeggiavano tre stemmi e una lapide commemorativa; l'altezza complessiva doveva essere prossima ad 8 metri. Il testo dell'iscrizione compare in una annotazione di Pasquale Mattej contenuta nel manoscritto “L'Ausonia” (1866-69) conservato nella Biblioteca Vallicelliana in Roma:
PHIL • II • CHAT REGNANTE PERAF • ALCALAE DVX PRO REGE RIVO ALTO PONTEM ALTVM IN OMNIBVS REBVS ALTA QVADAM MENTE PRAEDITVS ADDITIT M•D•L•XVIII
Con una libera traduzione si apprende che regnante Filippo II il Cattolico, il viceré Perafan duca d'Alcalà pose nel 1568 sul Rialto un ponte ardito, avendo in tutte le cose una certa ampia cognizione. Il duca d'Alcalà Pedro Afàn de Ribera, detto don Perafan, era nato a Siviglia nel 1508 ricoprendo la carica di viceré in Catalogna e poi a Napoli dal 12 giugno 1559 al 2 aprile 1571, data della sua morte. Condusse un’amministrazione distintiva per le opere pubbliche a difesa dai Turchi tra cui i Bastioni detti d'Alcalà a Napoli e le torri costiere. Degli epitaffi e delle relative epigrafi si fa comunque menzione nella “Pianta del real cammino di Roma da Napoli fin’al confine del Regno” (Bibl. Naz. Napoli, mss xv A 16) e nella “Raccolta di tutti i più rinomati scrittori dell’istoria generale del Regno di Napoli […]; D. A. Parrino, “Teatro eroico e politico de’ governi de’ viceré del Regno di Napoli dal tempo del re Ferdinando il Cattolico fino al presente” (Napoli 1770, pp. 181-82). Gli stemmi dell'Epitaffio dovevano essere quello della casa regnante al centro e ai lati del duca e della città di Gaeta, alla quale Castellone venne associato nel 1564, come appare nell'insegna sulla porta meridionale del castello. Il Mattej riferisce ancora che il monumento era in origine collocato sul piano del ponte e rimosso per l'ampliamento dell'attuale via Olivetani nel 1856-57, congetturando come le spalle di pietra a secco più a valle fossero appartenute ad un provvisorio ponte ligneo durante la costruzione di questo in muratura. Interessanti confronti tipologici, oltre ai contenuti epigrafici, possono farsi con i simili monumenti eretti dal duca tra i quali innanzitutto quello posto al Km. 109,500 nel comune di Monte San Biagio, adiacente la torre del vecchio confine pontificio detta appunto dell'Epitaffio. Analoga l'impostazione compositiva con un podio lungo m. 6,54 e largo 3,55 concluso dal medesimo redondone su cui è impostata la partitura verticale questa volta costituita da quattro erme su basi sorreggenti la trabeazione, in parte crollata, tutto per un'altezza circa pari alla lunghezza. È scritto di frequente che questo monumento sarebbe un reimpiego di un sepolcro romano, ma nulla di ciò può essere attribuito a quell'epoca. Nel campo centrale è inserita una lapide sormontata un tempo certamente da stemmi:
PHIL • II • CATH REGNANTE PERAF • ALCALAE DVX HOSPES HIC SVNT FINES REGNI NEAP • SI AMICVS ADVENIS PACATA OMNIA INVENIES ET MALIS MORIBVS PVLSIS BONAS LEGES M•D•L•XVIII
Omessa la consueta intestazione dice: “Ospite, qui sono i confini del Regno di Napoli; se vieni da amico troverai tutto tranquillo poiché sono eliminati i cattivi costumi con le buone leggi – 1568”. Ciò si ricollega agli efferati episodi di banditismo avvenuti nella zona nel 1567, per cui anche le teste delle erme potrebbero inserirsi in un generale messaggio intimidatorio. Più piccolo e semplice monumento è il cosiddetto Epitaffiello al Km. 113,200, sul lato opposto alla stazione ferroviaria di Monte San Biagio. Diruto in parte, esso è impostato su un basso plinto ed il podio, lungo m. 2,26 e largo 1,29, è concluso da una fascia su cui si eleva il campo liscio dell'epigrafe assai mutila e perciò così completata:
(Phil • II • Cath •) (regnante) (Peraf • Alcalae dux) (pro rege) V1AM LVTO ET STAGNANTE A(qua invasa) ET OB A VIATORIBUS DES(ertam abstergam) ET IN AMPLIOREM FORM(am pervium fecit) M•D•L•XVI(II)
la quale dice che la via invasa dal fango e dall'acqua stagnante e per questo abbandonata dal viandante bonificò ed in forma più ampia e praticabile fece - 1568. Anche qui la parte superiore opportunamente separata dall'epigrafe con una modanatura doveva contenere degli stemmi, come si può desumere dall'altro Epitaffio in località Sant'Andrea nel Comune di Fondi e prossimo al confine con Itri, sull'antico tracciato dell'Appia a 600 metri dall'incrocio con l'attuale al Km. 125,900. Il monumento possiede un podio in tutto analogo ai primi due, lungo m. 3,74 e largo 1,35, dove si sovrappone una partitura a campo liscio tutto occupato dell'epigrafe; la parte superiore diruta era verosimilmente destinata all'esposizione degli stemmi. L'epigrafe mutila per metà è stata così reintegrata (vedi: Fondi nei tempi, di M. Forte, Casamari, 1972):
PHIL • II • (Cath regnante) PERAF • (Alcalae dux pro rege) PONTEM VETVSTAT(em temporis ruptum) VNDE NOMEN TANT(um superat loco) MARMOREI LAPIDIS OPERE (magnifico extruxit) ALCALAE NOMEN PER S(aecula mansurum dederunt) (M•D•L•XVIII)
dove è detto che si realizzò il ponte, rovinato per il trascorrere del tempo, con un'opera ammirevole in blocchi di pietra, donde cotanta fama restasse nel luogo si diede il nome di Alcalà da rimanere nei secoli - 1568; dunque Ponte d'Alcalà. Altri epitaffi erano oltre il Garigliano. Notevole quello in località Vattaglia, già in passato privato della lapide e degli stemmi, probabilmente riferito alla costruzione di un ponte di legno sospeso su catene di ferro distrutto nel '600. Altri due furono collocati sull'antico tratto dell'Appia ora via Domiziana, in località Centore, al centro del ponte sul Fusaro come è rappresentato dal Rossini (1839), e al Ponte della Doccia nei pressi dell'antica Sinuessa, entrambi datati 1568. È anche documentata un'iscrizione del duca sull'antica porta di Mola (vedi: Natan Chytraeus, “Variorum in Europa itinerum deliciae […]”, (?) 1606, p. 48; A. Di Biasio in “Formianum” I-1993, p.105): PHILIPPE II CATH • REGNANTE PERAFAN ALCALAE DUX PROREGE SI QUIS AQUAM ET PONTES CONTEMPLETUR NATURAM ET ARTEM PULCHRITUDINE CERTANTES ITA DIJUDICET UT NEUTRI QUOD SUUM EST DEFICIAT “Regnando Filippo II il Cattolico viceré Perafan duca d’Alcalà. Se qualcuno voglia ammirare l’acqua e i ponti la natura e l’arte che gareggiano in bellezza valuti cosicché a nessuno dei due manchi ciò che è proprio”. Si conferma come la porta meridionale presso il castello venne costruita sotto il dominio spagnolo tanto da conferire il nome di Porta degli Spagnoli: in varie incisioni questa appare coperta da volta estradossata tipica della zona, con i soliti tre stemmi sopra il fornice. Il testo d’epigrafe, elegante e di elevato contenuto, pare ispirato agli autori classici e si riferiva evidentemente ai numerosi ponti che superavano i numerosi ruscelli sorgivi o “formali” distintivi del borgo di Mola. Emerge come il duca d'Alcalà abbia voluto restituire alla via Appia non solo la funzionalità di un tempo, ma anche la fama e la monumentalità dell'antica “Regina Viarum” in cui la memoria dell'artefice, a somiglianza degli antichi, rimanesse eternata nelle lapidi e che le stesse forme architettoniche degli epitaffi richiamassero gli splendori della classicità. Si conferiva così all'arteria una connotazione storica e culturale quale effettivamente andò sviluppandosi in particolare nel Golfo di Gaeta, apprezzato dai viaggiatori per la natura incantevole dei luoghi e per le sparse antichità. Il gruppo di monumenti e le notizie epigrafiche costituiscono documenti di notevole importanza per la storia della via e delle regioni che attraversa. Essi devono essere salvaguardati in un progetto di valorizzazione dell'itinerario culturale dell'Appia antica; infatti anche il modesto rudere di Rialto ed il ponte assumono ora l'identità di insopprimibile testimonianza del passato. Nelle immagini: L’epitaffio di Rialto in una cartolina d’Epoca, i ruderi del medesimo - dipinto di Pasquale Mattej contraffatto a firma di Angelo Viviani, che illustra il ponte di Rialto con l’epitaffio poi spostato sull’asse viario a metà Ottocento - l’epitaffio presso l’antico confine del Regno di Napoli, il monumento oggi - il cosiddetto Epitaffiello nel territorio di Monte S. Biagio - l’epitaffio e il ponte d’Alcalà all’imbocco della gola di S. Andrea verso Itri in un disegno di Carlo Labruzzi di fine Settecento, il monumento oggi - particolare della cinquecentesca incisione di J. Hoefnagel: il Castello di Mola e la Porta degli Spagnoli con i consueti tre stemmi relazionati all’epigrafe dell’Alcalà.

lunedì 7 febbraio 2022

L'IMPERATORE ANTONIO PIO E IL SUO AMORE PER FORMIA
Nel museo archeologico nazionale di Mantova, già museo della Reale Accademia, è custodita un'epigrafe certamente rinvenuta a Formia. La lapide, in marmo bianco è infranta in tre parti che ricomposte ne consentono la completa lettura: IMP. CAESARI.DIVI HADRIANI ELIO. DIVI TRAIANI.PARTHICI.NEP DIVI.NERVAE.PRONEPOTI TITO.AELIO.HADRIANO ANTONINO. AVG.PIO.PONT MAX.TRIB.POTXI.COS.IIII PP FORMIANI.PUBLICE l'iscrizione è di tipo onoraria, e senza dubbio era posizionata sulla base di una statua eretta per commemorare l'imperatore romano Antonino Pio, la cui presenza nella città di Formiae era frequente. La scritta "TRIB.POTXI.COS.IIII" sta per "Tribunizia potestà XI del consolato IIII", che indica l'anno 148 d.C. (901 di Roma), da cui si può dedurre che fu resa quest'onorificenza ad Antonino Pio tredici anni prima della sua morte avvenuta nell'anno 161 d.C. Francesco Mari Pratilli nella sua opera "Della via Appia riconosciuta e descritta da Roma a Brindisi", pubblicato a Napoli nel 1745, cosi scrive: "(...) Per le sue delizie, e per la sua amenità fu la città di Formia frequentata dalle più illustri famiglie di Roma, e da' medesimi Imperadori, come si ravvisa ne' marmi, avanzi per altro miseri di sue passate grandezze. Ben tre di essi veggonsi innalzati da Formiani all'Imperadore Antonino Pio: argomento chiarissimo, che questo Imperadore, il quale, al riferir degli storici, frequentò le delizie della Campania, spezialmente dell'amenità di Formia dovette dilettarsi, e colmare i Formiani di molti beneficj. Per la qual cosa alzati gli furono in segno di gratitudine i mentovati marmi.(...)" Non mi è dato sapere come questa epigrafe sia finita nel museo di Mantova, certamente acquistata da chi ha avuto cura di raccogliere queste opere d'arte per poi trasferirle altrove, quando i reperti archeologici avevano libero mercato. L'Amministrazione comunale, molti anni addietro, ha dedicato all'imperatore Antonino Pio un breve tratto di una strada del centro cittadino. Nelle immagini due incisioni del 1830 che raffigurano l'epigrafe e l'imperatore Antonino Pio.