Cerca nel blog

Etichette

martedì 28 giugno 2022

UNA NUOVA FORMIA SI AFFACCIA AGLI ALBORI DEL XX SECOLO
Il ventesimo secolo inizia offrendo un’immagine di Formia molto diversa da quella impressa nella memoria dei viaggiatori stranieri che la visitarono nei secoli passati. Agli antichi borghi di Mola e Castellone andava sostituendosi una nuova città che il turismo nascente la sancì balneare. Una nuova Formia, eletta a luogo di villeggiatura, andava formandosi. Un potente apparato turistico ricettivo, sui due litorali, si andava man mano potenziando nella città, sostituendosi alla tradizionale vocazione ospitale dei due antichi borghi. Formia divenuta città a vocazione turistica, nel 1928 contava 9127 abitanti e poteva vantare la possibilità di ospitare numerosi visitatori. Gli alberghi a disposizione di chi volesse soggiornare erano: Il Grand Hotel in piazza della Vittoria (con 32 camere), l'Hotel Excelsior in via della Stazione (con 12 camere), il Modern Hotel in piazza Tommaso Testa (con 12 camere), l'Hotel dei Fiori in via Lavanga (con 6 camere), L'albergo Presutto (con 5 camere), l'Italia (con 5 camere), La Rifiorita (con 6 camere) tutti in via Rialto Ferrovia; inoltre vi erano le pensioni: Giuliano in via Vitruvio e Bella Spiaggia e Lina in via Vendicio. Numerosi villini ed appartamenti mobiliati, situati nell'area balneare e nel centro città, erano disponibili per affitti stagionali. Nel 1932 Formia contava 14.352 abitanti. La città cresceva non soltanto sul punto di vista demografico ma anche su quello urbanistico e nei servizi. La direttissima Roma - Formia - Napoli era stata inaugurata, ambulatori medici, farmacie, case di cura, negozi d'ogni genere vi erano in tutto il territorio. Rete fognate, idraulica ed elettrica copriva tutta la parte residenziale della città. La vita di mare, ricca di elementi che giovano alla salute del corpo, fece meritare a Formia una menzione nella guida turistica più importante dell'epoca. Il Touring Club Italiano, nella sua: "Guida pratica ai luoghi di soggiorno e di cura d'Italia", nel volumetto sulle stazioni di mare, dedica a Formia due pagine ed una stupenda immagine della spiaggia di Vendicio. Così inizia la descrizione: "Cittadina situata in amena posizione tra le colline ed il mare, sul Golfo di Gaeta, il centro urbano é assai animato per traffici ed industrie, i dintorni sono popolati di ville, in mezzo ad una lussureggiante vegetazione. (...)" Le risorse naturali di cui Formia era eccezionalmente ricca, i suoi tesori archeologici, la mitezza del clima, le spiagge meravigliose ed infine il continuo sviluppo delle attrezzature turistiche, le hanno fatto meritare l'appellativo di "PERLA DEL TIRRENO", portandola ad essere considerata un luogo di soggiorno tra i più ricercati della penisola e la meta prediletta di numerosi turisti. La spiaggia di Vendicio e quella del litorale di levante consentivano un lungo periodo di balneazione, e la possibilità di spostamenti brevi e comodissimi sia da Roma che da Napoli. Nella stagione estiva, la temperatura del mare di Formia è sempre stata relativamente costante, senza brusche oscillazioni, durante la giornata aumenta regolarmente dal mattino fino alle ore 17, conservando una temperatura gradevole anche durante la notte.
Nelle immagini due vedute dei litorali di ponete e di levante all'inizio del Novecento; gli alberghi Hotel Excelsior, il Modern Hotel, il Grand Hotel e la pensione Marina; l'immagine pubblicata sulla guida del TCI, che reca in basso la seguente didascalia: "La spiaggia principale di Formia è lunga circa 2 km., e si compone di sabbia fine..."; due istantanee degli anni Trenta di vita balneare: una colonia marina e un gruppo di villeggianti.

lunedì 20 giugno 2022

SAN MICHELE SUL MONTE ALTINO E LA STATUA DI POMPEO FERRUCCI - di Salvatore Ciccone
In questo 26 giugno di primo mattino, a Maranola si avvierà la caratteristica “Scalata di San Michele” che con grande devozione condurrà a spalla la taumaturgica statua di pietra dell’Arcangelo dalla chiesa della SS. Annunziata al suo antico santuario posto in un ampio speco del monte Altino a più di 1100 metri di quota; il simulacro rientrerà in paese il 29 settembre festa del Santo. Per questo ritengo opportuno pubblicare una sintesi di una lunga e laboriosa ricerca che mi ha condotto alla scoperta dell’autore della statua, cosicché laddove si trovassero simili notizie sarà possibile conoscerne la originaria trattazione dell’autore nelle edizioni riportate al termine di questo articolo. Una lunga serie di miracoli e la protezione avuta contro le scorrerie napoleoniche fece ottenere ai Maranolesi nell’anno 1800 di eleggere San Michele protettore del Paese; verso il suo santuario le popolazioni rurali del circondario si sobbarcavano a pellegrinaggi gravosi fatti a piedi nudi e pronunziando voti a gran voce. Monsignor Vincenzo Ruggiero arciprete di Marànola, sullo scorcio dell’Ottocento diede nuovo impulso al culto dell’Angelo, avventurandosi nell’impresa di rifondare in quella rupe una chiesa che venne inaugurata nel 1895; per l’occasione scrisse “L’Arcangelo S. Michele e l’antichissimo suo Santuario Sul Monte Altino in Maranola”, rarissimo volumetto pubblicato in Roma fondamentale per la conoscenza del monumento. La fondazione della chiesa e del cenobio di San Michele risale all’830 circa, come si legge in un diploma del Codex Diplomaticus Cajetanus, ad opera di Giovanni l vescovo della cattedra allora altalenante tra Formia antica in decadenza e la nuova più protetta Gaeta. La dislocazione in un sito così impervio è da porre in relazione ad un preesistente culto pagano dal quale si voleva purificare quel monte per mezzo dell’Angelo vincitore sul demonio, circostanza comune a molte altre località, come sul monte di Terracina, in cui il “maligno” poteva manifestarsi, specie in presenza di antri e burroni. Perciò il monte e lo speco stillante di perenne acqua dev’essere stato dapprima dedicato a Giove per quanto suggerisce il toponimo di “Altinum”, dell’alto, dell’eccelso; quindi il nome di “Gegne” dato all’altopiano dominato dalla vetta, è attendibile derivazione di Juno, la dea Giunone consorte di Giove alla quale erano sacre le giumente e appropriata a questo alpeggio. I monaci e l’abate Rodoino che tennero in un primo tempo il cenobio “in cilio montis qui vocatur de altino” appartenevano ad una specifica congregazione di San Michele, forse proveniente dall’omonimo e principale santuario dei Longobardi del Mezzogiorno situato nell’antro del Monte Gargano, tanto più che in presso il monte Altino si incrociavano il confine del Ducato di Gaeta, quello del gastaldato longobardo di Aquino e della Terra dell’abbazia di Montecassino. Una lapide posta nel santuario in occasione della riconsacrazione, il 5 agosto 1895, ricorda i principali eventi del luogo culminati nella nuova cappella, sostitutiva dell’ultimo edificio settecentesco con cupola posto all’esterno e ripetutamente offeso dagli eventi meteorologici: era ora tutta inserita nella caverna con l’imboccatura chiusa da un’armoniosa facciata neogotica, soluzione che venne suggerita da monsignor Niola arcivescovo di Gaeta, ispirata al santuario del Gargano e tradotta dall’ingegnere Silvio Forte di Trivio. La devozione per San Michele del monte Altino si concretizza con la venerazione del suo simulacro di pietra peperino dei Colli Albani. Il Ruggiero fida nell’antica tradizione popolare concernente la statua, subordinandone la datazione: in origine era collocata nella “Grotta delle Sette Cannelle” lungo la scogliera del promontorio di Giànola verso Scàuri, dalla quale a causa delle imprecazioni dei marinai se ne andò sulla cima del retrostante monte Sant’Angelo di Spigno; tuttavia anche dal quel luogo vedeva i marinai ed allora si portò nell’antro del monte Altino; gli spignesi la riportarono sulla cima del loro monte nascondendola in una siepe spinosa, ma la statua si riportò sull’Altino, ancora andarono a riprenderla ma divenne tanto pesante che dovettero desistere, costruendo però una piccola cappella dove essi volevano che rimanesse. Nella leggenda è interessante come l’aumentato peso della statua trapeli una sopraggiunta statua di pietra. Quanto alla grotta di Giànola, originaria collocazione del simulacro, essa si presenta tra enormi strati obliqui di roccia conglomerata, dove l’erosione di una intercalazione più tenera apre una imboccatura a fessura e una vasta sala con basso soffitto che inclinato penetra il mare; nel mezzo una massiccia stalagmite tocca appena la volta la cui trasudazione d’acqua dolce va a colmare di quella alcune concrezioni a vaschette, fatto che spiega la denominazione e l’uso tradizionale fatto dai pescatori della zona. Sulla balza prossima alla grotta esisteva una torre di avvistamento distrutta nell’ultimo conflitto, detta di “Sant’Angelo” e più correntemente “della Fica”, denominazione questa che venne ‘aggiustata’ con “Fico” riferito all’albero, ma che senza dubbio deriva dalla caratteristica scogliera corrugata in cui si apre la fessura che l’immaginazione popolare colorita e grassa non ha esitato ad accostare alla forma del sesso femminile: stessa espressione è anche impiegata per indicare un gesto fatto a sua imitazione con le dita della mano, talvolta come scongiuro, talaltra per scherno. Emerge la concordanza tra la fuga della statua e il nome osceno del luogo, in una sorta di braccio di ferro tra la voluta santificazione della grotta e la pervicace locuzione popolare, inconciliabili nella pur bonaria intenzione della seconda rimasta nell’epiteto della Torre. La scultura era pervenuta assai rovinata e con le mani rifatte rozzamente di tenera pietra arenaria locale, e perciò nel 1888 il Ruggiero decise di farla restaurare interpellando a Roma lo scultore Lodzja Brozsky che diede l’incarico al suo primo collaboratore, il romano Giuseppe Blasetti: la pietra occorrente fu offerta appositamente dai Basiliani di Grottaferrata, presso la quale vi è il peperino in tutto simile alla scultura. Si ricostruirono oltre le mani la figura del demonio appena percepibile ai piedi dell’Arcangelo. Il Ruggiero raccolse il parere scritto dal restauratore che la statua sarebbe stata di manifattura romana tarda, cosa che andava a collegarsi bene con la tradizione che la voleva antichissima, influenzando in ciò il giudizio dello stesso Blasetti. La statua è alta cm 94, compresa la base quadrata di cm 42 di lato, alta cm 10 e rappresenta un guerriero le cui membra un po’ tozze sono più rispondenti a quelle di un fanciullo: veste tunica e lorica decorata nel mezzo da un serafino; sostiene col braccio sinistro un mantello desinente in terra e con la mano la catena con la quale soggioga il maligno atterrato; il braccio destro è alzato a sostenere la spada ed è coordinato al movimento della testa sfuggente dall’osservatore; le ali sono assenti, ma vi sono sulla schiena i fori per applicarle in metallo. Sul lato frontale della base vi è nel mezzo uno stemma, allora integro descritto dal Ruggiero: è ovale, forzatamente dimensionato con taglio dei culmini, avente una fascia centrale, tre monticelli nella metà inferiore e una rosa a cinque petali in quella superiore; a sinistra sono sovrapposte le residue lettere S e TOR, probabili desinenze di Angelus/victor; a destra quelle consecutive P ed F. La generale impostazione compositiva esclude che la scultura sia d’età Antica di uso cristiano, del IV-V secolo, principalmente perché l’Arcangelo veniva allora e fino al Medioevo raffigurato in semplice tunica. La statua va invece assegnata al Rinascimento, come quella simile marmorea del Gargano di Andrea Sansovino (1507), oppure all’età barocca, e della quale di ambiente romano è forse lo scultore in relazione all’uso del peperino, scelta da collegare con la destinazione del simulacro in un luogo freddo o umido e per il peso di dimensione minuta più agevole. L’identificazione dell’artefice viene facilitata dalle due lettere P ed F presenti sulla base, certamente iniziali di persona. Tra gli scultori operanti a Roma in quel periodo la sigla corrisponde a Pompeo Ferrucci, originario di Firenze e vissuto all’incirca tra il 1566 ed il 1637, artista di scuola sebbene con una certa personalità, appartenente al folto gruppo operante nella massiva produzione decorativa della Città agli inizi del Barocco. Un confronto con alcune sue opere marmoree in parte ugualmente siglate, da me fatto una ad una a Roma, si rivela interessante per le analoghe caratteristiche delle figure dagli arti tozzi, per le posture ed i tratti dei volti, nonché per le modeste dimensioni delle sculture, riscontrabili nella Madonna col Bimbo ora sull’ingresso del convento delle Maestre Pie in via delle Botteghe Oscure, ma anche nella figurazione della Religione nel monumento del cardinale Alessandrino alla Minerva. Varie rispondenze stilistiche si possono inoltre cogliere nella pala marmorea del S. Matteo e l’Angelo, eseguita insieme al Coubert nella Trinità dei Pellegrini, e in quella dell’Assunta (1629) in Santa Maria della Vittoria, firmata, le cui Madonne sono simili a quella sull’ingresso principale del palazzo del Quirinale (1615); infine qualche similitudine nel volto si trova nelle cariatidi del monumento borghesiano in Santa Maria Maria Maggiore, eseguite insieme al Muzi. Un rilievo presente sopra l’altare maggiore della cattedrale di San Pietro a Frascati, La Consegna delle Chiavi (1612), attesta la sua presenza nell’area di provenienza del peperino in cui è scolpito il nostro San Michele, rispetto al quale le elencate sculture mostrano una diversa raffinatezza dovuta alla fine grana del marmo pur in simili caratteristiche d’impostazione e d’intaglio. Lo stemma inciso alla base è di complessa interpretazione e sicuramente aggiunto in un secondo momento da mano meno esperta insieme all’epiteto dell’Angelo, potendo rilevare un committente o offerente. Secondo la traccia di provenienza della scultura, lo stesso stemma compare tra gli emblemi della famiglia Orsini, nobili romani di antica origine della quale i capostipiti di nome Orso occupavano importanti cariche nel XII secolo e il cui elemento araldico principale era l’orso rampante. Una importante connessione si ha con Giacoma Orsini che fu la madre del conte Onorato I Caetani conte di Fondi, artefice sullo scorcio del Trecento di importanti opere a Maranola e fondatore del vicino Castellonorato, madre che era inumata con il consorte nella cappella della già francescana chiesa dell’Annunziata a Minturno; tuttavia la scultura del San Michele è di duecento anni dopo. Una delle principali famiglie di Maranola porta il cognome D’Urso che è facile far risalire a de Urso ossia dell’Orso. Comunque è possibile che da quella discendenza vi possa derivare la commissione della scultura. La vetustà attribuita alla statua di San Michele è quindi comprensibile nell’idealizzazione popolare insieme alla favola del suo peregrinare chiaramente espressive di una lunga tradizione di culto in questo territorio. Entrambe sottolineano la dimensione temporale di queste comunità dedite alla economia della montagna, che nella loro apparente immutabilità hanno tramutato gli eventi in saga fascinosa, come i luoghi tersi ed eterei risaltati dallo sfondo turchino del mare sconfinato. Bibliografia dell’Autore : - L’Arcangelo Michele del Monte Altino, “Lunario Romano”, Santuari cristiani del Lazio, pp. 175-194, Roma 1992. - La statua San Michele dalla leggenda alla storia, “Storia Illustrata di Formia”, vol. III, Formia in età moderna, pp.217-232, Pratola Serra 2000.
Didascalie immagini - 1 - La Statua di San Michele di Pompeo Ferrucci (1612?) dopo i restauri del 1888 (Maranola, Archivio parrocchia di San Luca) 2 - La statua marmorea di San Michele nel Santuario del monte Gargano, opera di Andrea Sansovino del 1507 (foto del Santuario). 3 - La Madonna col Bimbo di Pompeo Ferrucci sull’ingresso del convento delle Maestre Pie in via delle Botteghe Oscure a Roma (foto S. Ciccone). 4 - Arrivo della Scalata di San Michele al santuario nell’ampio speco del monte Altino (foto G. De Meo). 5 - La facciata neogotica del nuovo santuario consacrato nel 1895 (foto S. Ciccon

giovedì 16 giugno 2022

LA STATUA FORMIANA DI SAN GIOVANNI BATTISTA - di Salvatore Ciccone -
San Giovanni Battista, compatrono di Formia con Sant’Erasmo qui martire nel 303, ha grande venerazione nella parrocchia di Mola, borgo marinaro presso il porto romano che prese nome dall’antica attività dei mulini mossi da canali d’acqua sorgiva. Nella chiesa contitolare a San Lorenzo, sostitutiva di quella esistita sulla costa prospiciente, la devozione si concretizza nel tramite della sua statua di grande pregio e vigore espressivo avvolta da leggenda, come di consueto per queste sacre immagini, restando ignoto lo scultore e al quale risalire è possibile solo da un autografo, o documenti d’archivio o da una accurata analisi di raffronto. Proprio quest’ultimo caso mi fu offerto dal volume “Giuseppe Picano nella scultura del Settecento napoletano”, scritto da Giovanni Petrucci ed edito da Caramanica nel 2017. Il personaggio che si dice nato a Sant’Elia Fiumerapido nel 1725, ma documentatamente a Napoli il 14 maggio 1716 da Dorotea de Mari, fu sacerdote scultore di figure sacre di grande fama e caposcuola di lunga vita artistica morto ultranovantenne, formatosi nel laboratorio del padre Francesco Antonio nella realizzazione di figure presepiali. Nell’ottima ricerca di Petrucci si elencano numerose sue opere, per lo più a Napoli, ma anche in Puglia e in Calabria ed in un consistente nucleo nel palazzo Picano del centro cassinate. La sua arte meritò la considerazione di re Ferdinando IV di Borbone, allorché ammirato per una statua dell’Immacolata gli elargì una congrua gratifica. Quindi questi massimi esempi di sculture sacre nulla hanno di inferiore rispetto a quelle di più duro materiale e di più vario soggetto se non l’essere di destinazione processionale e per questo di legno più leggero, nonché di aver mantenuto dalla scultura antica l’uso del colore per rendere i soggetti simili al vero, nello specifico di immediato e maggiore impatto percettivo. La statua di San Giovanni di Formia è evidentemente di fattura tardo barocca, pregevole nella resa anatomica e nell’elegante incedere, con una mano levata al cielo ad annunziare il Cristo e investita da un vento quasi divino: sbandiera il rosso mantello che scopre la povera ma dorata tunica di vello sghemba sul nudo torace; la testa ricca di capelli scuri fluenti sulle spalle che inquadrano il viso barbato giovanile con le labbra nell’atto di proferire. La modalità espressiva si ritrova nella pittura di Sebastiano Conca di Gaeta (1680-1764), pittore celeberrimo di iconografia sacra, che operando sia Napoli che a Montecassino è probabile che Picano vi sia venuto in contatto o recepito gli influssi; alle sculture di questi la statua formiana offre interessanti riscontri, segnatamente con quelle di medesimo soggetto, entrambi del 1750, delle omonime chiese di Ceppaloni e di Pannarano in provincia di Benevento. Il simulacro formiano si può quindi con buona probabilità collocare nella sua bottega, nella quale operarono i giovani Francesco Verzella, Giuseppe Sarno e il sardo Giuseppe Antonio Lonis. In ogni modo nel quadro artistico del genere dell’arte napoletana sono da considerare altre produzioni e in particolare quella di Carmine Lantriceni, artista di grande espressività emotiva firmante un busto del Battista risalente circa al 1720 nella omonima chiesa di Massaquano frazione di Vico Equense nell’area metropolitana di Napoli, quindi anteriore seppure di poco al Picano. Bisogna poi considerare il contesto architettonico della originaria chiesa presso il Castello di Mola, dedicata ai due Santi già nel 1566 in quanto si dice prima costituita da due aule separate, ma sicuramente trasformata nel Settecento come stilisticamente manifestata dal campanile a guglia ‘fiammata’ o ‘a cipolla’. Della chiesa distrutta nel 1943, il luogo in via Abate Tosti è oggi contrassegnato da una lapide riproducente la facciata da uno schizzo di mio padre Giovanni Ciccone. Apparentemente la tradizione non concorda con l’epoca del culto a Mola e con l’indubitabile stile del simulacro, che lo si vuole trafugato dai molani dalla medievale chiesa di San Giovanni Battista sotto Castellone antica arce di Formia, anch’essa distrutta e del quale resta il nome al vico su via Rubino: il suo legno si vuole fosse quello di un tronco di ciliegio spiaggiato ad oriente di Mola e miracolosamente ritornato più volte dove era stato spostato. In effetti vi è il tratto di litorale detto Santo Janni, toponimo che trova spiegazione in una cappella di San Giovanni “del Fiume”, registrata in un documento del 1490 nell’Archivio Capitolare di Gaeta, probabilmente rifererito al fiume di Giànola presso l’omonimo promontorio; nella zona è ugualmente annoverato un San Giovanni ma ”del Trullo”, come pure nel 1516 vi si localizza la dipendenza di un orto. Dunque una sede distaccata campestre della chiesa di Castellone a devozione degli agricoltori prevalentemente di questo borgo. Lo studio si avvantaggia della tradizione integrale riferitami dall’amico Giovanni Bove, appassionato e valente studioso della cultura popolare di Formia, e che trovo registrata in un suo articolo (“Formia Turismo”, n. 3, 1991). Riferisce che il tronco arenato venne visto e portato a casa da un contadino di Castellone e che miracolosamente la terza volta si sarebbe spostato davanti la porta della chiesa di San Giovanni Battista di quel borgo; da qui la decisione di farvi scolpire la statua di quel Santo, inviando il legno ad un grande artista di Napoli e che una volta realizzata venne trasportata via mare e solennemente condotta in quella chiesetta. Tuttavia anche qui si sarebbe compiuto il miracolo allorché il simulacro per tre volte si sarebbe portato davanti alla chiesa di San Lorenzo a Mola dove era l’antica congrega intitolata al Battista, per la qual cosa i castellonesi incolparono di furto i molani. In realtà la chiesa di Castellone nella metà del Settecento venne sconsacrata e la statua con le suppellettili acquistate dalla congrega di Mola, qui a determinare l’incremento del culto e le modifiche della chiesa con doppia titolarità. Tornando alla probabile identificazione dell’autore della statua, la certezza potrà provenire solo da un attento esame della scultura, si spera, da una firma celata sulla base o dalle ricerche d’archivio. Comunque queste cognizioni nulla tolgono al fascino dell’arcana tradizione e tantomeno alla fervente devozione verso il Santo identificata nel simulacro così mirabilmente espresso: fanno invece risaltare proprio la incommensurabile entità popolare e la spiritualità più prossime all’eterno.
Didascalie foto : 1 - La settecentesca statua di San Giovanni Battista di Formia durante l’omaggio dei pescatori. 2 - Confronto stilistico con la statua di Pannarano, scolpita da Giuseppe Picano (1750). 3 – Confronto stilistico con il busto di Massaquano, scolpito da Carmine Lantriceni (circa 1720). 4 - Il gonfalone riproducente il simulacro di San Giovanni Battista, opera dell’artista prof. Giovanni Ciccone, 1986 (Formia 1923 – Napoli 2002). 5 - La chiesa dei Santi Giovanni Battista e Lorenzo presso il Castello del borgo di Mola in via Abate Tosti, in uno schizzo a memoria di Giovanni Ciccone.

martedì 14 giugno 2022

IL TEATRO DI CASTELLONE AL CANCELLO
A non tutti è noto il perché l’area archeologica del rione Castellone, dove insiste un antico teatro, viene chiamata “gliu canciegl’ – il cancello”. Una risposta ce la fornisce Pasquale Mattej con questo suo scritto : “… E poiché di balaustre di legno fu recinta una cappelluccia qui esistita con l'immagine del Santo dipinta con grossolani colori a quel sito fu dato il nome Cancello, che tuttavia rimane nei paesani riconosciuto al portone ...” Nell’anno 303, qui si ritiene sia stato martirizzato il Santo Patrono Erasmo. A dicembre del 1977 il Centro Studi “Pasquale Mattej”, realizzò presso la Grafica D’Arco, una “Guida per il turista e lo studioso in cerca di antiche testimonianze - FORMIA ARCHEOLOGICA”, forse l’unica vera e completa guida turistica che Formia abbia mai avuto. Uno dei componenti del Centro Studi era il prof. Giovanni Ciccone che così descrive il Teatro: “Ad occidente dell'Arce "Castellone” all'inizio di via Gradoni del Duomo, salendo, a sinistra, vi sono i ruderi dell'antico teatro ora inglobati in costruzioni che risalgono al secolo XVII. Si entra nell'area della fabbrica attraverso un portone bugnato “Il Cancello" e, nella piazzetta al limite del vicolo, si può osservare come gli edifici seguono la curva di una parte della cavea. La piazzetta occupa l'area dell'orchestra, al di là vi erano il proscenio e la scena. Il rudere se venisse liberato offrirebbe ancora molto dell'antico teatro che per dimensioni e forme non doveva differire da quello oggi restaurato a Minturno. Sono da notare i muri radiali della cavea sporgenti dalle costruzioni e i locali terranei, ambienti di passaggio e di sostruzione dell'antico complesso. Esiste a Formia anche un Anfiteatro, ma anche questo edificio non è stato ancora portato alla luce. Quest'opera restaurata, darebbe da sola motivo di richiamo turistico ripristinandone la funzione per la rappresentazione di spettacoli vari. Un'epigrafe, n. 6090 del C.I.L. ci dice che a Formia furono dati dei ludi gladiatorii; questi spettacoli erano una prerogativa degli anfiteatri. Il Capaccio nella sua Historia Neapolitana p. 617 ci dice di aver visto a Formia i ruderi di un anfiteatro. Fu solo quando si eseguirono per il Comune delle fotografie aeree che il podestà F. Tonetti individuò l'anfiteatro nella zona di Conca nel rione Mola. Furono eseguiti dei sondaggi e si costatò che tutto l'edificio, di forma ellissoidale, ha come asse maggiore un'ampiezza di m. 90 circa. I ruderi di parte delle scalee si possono oggi scorgere al limite della via XX Settembre.” Nell’immagine l’edificio del secolo XVII sui resti del teatro, fotografia a corredo dello scritto del prof. Giovanni Ciccone.