tag:blogger.com,1999:blog-23668536196483799782024-02-22T14:09:51.451-08:00Renato MarcheseDALLA NOSTALGIA DEI PROPRI RICORDI CI SI SALVA ANCHE PARLANDONE.Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.comBlogger166125tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-14133990398405388602024-02-22T14:09:00.000-08:002024-02-22T14:09:11.450-08:00RICONOSCERE LA VIA APPIA ANTICA A FORMIA -
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEji91yNBs_ocZAKbJCy2OVCYVmXBRtU_lURVHTTtBe8WFUe1jZj3LdLIegDR1Ke4ZFA1ol74uRHyGQPBPVRLh1NJh57P8r3XDt0j_K9Mn3wCphb7_2LIdCLh5ZqZ7k9Dd7fA-kBjgktNIFsRQvqe62N-B6ta1IQX7_obzqBLAhfBvJeztFyOkZb59tTr_E/s2816/1.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="2112" data-original-width="2816" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEji91yNBs_ocZAKbJCy2OVCYVmXBRtU_lURVHTTtBe8WFUe1jZj3LdLIegDR1Ke4ZFA1ol74uRHyGQPBPVRLh1NJh57P8r3XDt0j_K9Mn3wCphb7_2LIdCLh5ZqZ7k9Dd7fA-kBjgktNIFsRQvqe62N-B6ta1IQX7_obzqBLAhfBvJeztFyOkZb59tTr_E/s400/1.jpg"/></a></div>
La via Appia antica a Formia è argomento divenuto ricorrente a causa della richiesta all’UNESCO di promuovere l’intero percorso da Roma a Brindisi come “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”.
In verità la questione sembrerebbe indiscutibile, per la notorietà di questa strada connaturata alla stessa espansione di Roma e “regina” della estesa rete viaria dell’Impero. Così dovrebbe essere, se il suo tragitto contrassegnato ora dall’antico lastricato ed altre eccelse opere viarie, ora da monumenti sepolcrali riferiti alle antiche città da essa attraversate, fossero testimonianze sistematicamente preservate e visitabili, ma soprattutto se questo “bene” fosse realmente conosciuto e assunto come parte integrante dei “paesaggi” delle singole comunità; questo fatto è invece sporadico e rende una visione frammentaria cosicché si deve perorare la richiesta.
Ora tornando Formia, in questa aspirazione di rilievo internazionale, la cittadinanza cosa conosce e di più quale valore assegna a questa strada di oltre 2300 anni e ancora indispensabile? Basti pensare che dal recupero della Tomba di Cicerone nel 1957, in occasione del bimillenario della morte a Formia del celebre oratore (7 dicembre 43 a. C.), nulla più si è fatto e il monumento tra i più caratteristici dell’intero tragitto è rimasto fino di recente incognito.
Attualmente una tabellazione indica l’antico percorso in ambito urbano, ma nel tratto orientale erroneamente identificato nella sua variante medievale; invece prevale il riferimento alla “Via Francigena”, quel percorso che dalla Francia giungeva a Roma e che dopo il Mille ha anche riguardato il tragitto verso le sponde pugliesi di imbarco verso la Terra Santa; il progetto intendeva favorire attività turistiche minori e ci può stare, però dovendo segnalare la più antica e concreta strada, invece surclassata.
Nella stessa città la via Appia è inconsapevolmente ripercorsa da quella “interna” lastricata con blocchi di basalto dai Borbone e che prima tutta si intitolava via Tullia, da Rialto a Mola, perciò riferita al nome di famiglia di Cicerone, ma che le amministrazioni comunali hanno poi dedicato ad Angelo Rubino, Ferdinando Lavanga, nonché all’Abate Tosti nel tratto di variante medievale: in ogni caso è stata soppressa l’identità dell’ Appia e in particolare nel rettilineo urbano che strutturava la città antica come “decumano massimo”.
Dal punto di vista storico-topografico poi, la via che si considera nell’ambito comunale, in realtà attraversava il ben più esteso territorio antico di Formia, dal confine con “Fundi”, Fondi, all’imbocco inferiore della gola di Sant’Andrea, ora nel comune di Itri, per concludersi al territorio di “Minturnae”, Minturno in vicinanza di Scauri, circa al confine attuale.
Così l’intero tratto formiano correva per 15 miglia (1 miglio romano = 1478,5 metri), dal miliare 79° al miliare 94° (attuali km. 127,00-149,00), tra i quali l’88° da Roma cadeva sul guado del torrente Rialto, ingresso occidentale della città: qui era il termine di 21 miglia ripavimentate da Caracalla nel 216 dopo Cristo, sovrapponendo al lastricato calcareo quello più duraturo di basalto, come attesta l’iscrizione miliaria riutilizzata nel campanile di S. Giovanni a Monte S. Biagio. Si deve infatti ricordare che la via iniziata nel 312 avanti Cristo dal censore Appio Claudio Centemmano detto Cieco poté raggiungere in soli due anni Capua contro i Sanniti perché semplicemente inghiaiata, seppure su strati di pietrame per assicurarne durevolezza; solo qualche anno dopo venne rivestita con pietra dei luoghi attraversati e dopo oltre un secolo raggiunse Taranto e Brindisi.
Ora è opportuno focalizzare le testimonianze di competenza dell’attuale territorio di Formia. Venendo da Itri la Statale devia dall’antico rettilineo per sottopassare la ferrovia Roma-Napoli, accanto la quale (km. 136,500) affiora un tratto basolato con “in situ” il miliario LXXXV di Nerva, imperatore dal 96 al 98 dopo Cristo, elevato su piedistallo risalente ai lavori viari degli anni 1930. Tale presenza è per lo più sconosciuta e del tutto ignorata, resa dal traffico di insicuro accesso, nonché in deplorevole abbandono e degrado.
Giungendo sulla pianura in vista del mare, dove incrocia la via Canzatora, antica diramazione verso il “Portus Caietae”, domina la visuale il rudere turriforme della Tomba di Cicerone (km. 139,200). Il sepolcro è compreso in un’area funeraria recintata rettangolare di oltre 5.000 metri quadrati e presenta una struttura a pianta quadrata in blocchi calcarei con lato di circa 17 metri che comprende una cella circolare e a cui si sovrappone un fusto cementizio con altezza totale di circa 19 metri. Recenti studi restituiscono al monumento di prima età augustea un rivestimento di marmo, superiormente in forma di tempio circolare con semicolonne sormontato da statua equestre di bronzo dorato, alto in tutto 100 piedi romani, metri 29,50. Inoltre si è evidenziato che il recinto sulla strada lungo oltre 85 metri ha implicato la modifica in piano di un più lungo tratto della via Appia, ciò ammissibile solo per determinazione pubblica e che avvalora la tradizione risalente almeno al X secolo che attribuisce il monumento e la zona a Cicerone. Inoltre nel recinto venne sepolta parte di una via lastricata che giungeva al litorale di Vindicio separando due ville, delle quali i resti in proprietà Lamberti sono nella stessa striscia di terreno con il sepolcro, interrotta dalla via litoranea. Ciò confronta le fonti antiche sul “Formianum” di Cicerone che lo dicono esteso per un miglio dal mare in altura, dove in effetti sono i resti di una villa rustica e dall’Appia si scorge il rudere indicato dalla tradizione Tomba di Tulliola, la figlia di Cicerone, dalla quale proviene una statua funeraria femminile ora presso il Museo Archeologico di Formia.
In prossimità dell’ingresso di Formia (km. 140,500), la via Appia si allargava con tratto basolato in curva a comprendere una fontana, composta di una lunga parete in opera quadrata modanata con aderente al centro l’abbeveratoio alimentato da due maschere forse di Acheloo, divinità fluviale: la fontana risale al rifacimento viario di Caracalla, poiché sorta sul nuovo livello della strada, mentre il più antico lastricato calcareo è stato rinvenuto negli anni 1930 a circa metri 1,20 di profondità. Molti basoli accantonati sono stati illecitamente asportati dal lastricato sotto l’attuale carreggiata durante la posa di un impianto, mostrando tutta la fragilità di questa nobile strada nelle dinamiche attuali.
La fontana è preceduta sul lato monte dai resti di sepolcri, dei quali evidente è quello a forma di torretta ottagonale a fasce sovrapposte di laterizi e blocchetti di calcare, “opus vittatum” di epoca imperiale. Poco prima, meno visibile, è di recente scavo il nucleo cementizio di un sepolcro, nel luogo di provenienza di iscrizioni di liberti della “gens Vitruvia” e di quella di età augustea di un Marco Vitruvio, dagli umanisti riferita all’autore del celebre trattato di architettura e riutilizzata nel Cinquecentesco Ponte di Rialto, 500 metri oltre la fontana. Da questo contesto sono venuti in luce sepolture con corredi funerari, mentre lo studio della struttura ha ipotizzato un sepolcro in forma di altare con fregio dorico: per paradosso i due ruderi vengono fatti ricoprire da rampicanti.
In ambito urbano la via Appia ripercorre le vie Rubino e Lavanga per circa un chilometro e costituiva il decumano massimo della città. In corrispondenza del Foro (piazze Buonomo e Mattej), incrociava l’ortogonale cardine massimo (vie Castello e Gradoni del Duomo del medievale Castellone,) tangente ad occidente i resti del teatro (vico Teatro) e connesso all’arce cinta da mura poligonali (VI-IV sec. a. C.), in piazza S. Erasmo con porta sulla via originaria.
Il tratto terminale del decumano (via Lavanga, trav. via XX Settembre) era interessato all’anfiteatro, risalente alla prima età augustea, opportunamente situato in vicinanza della insenatura portuale oggi colmata (largo D. Paone), aggirata a monte dalla via dove appunto resta il nome Caposelice cioè il capo del rettilineo selciato, aspetto che rappresenta il fatto più notevole della topografia della via Appia nell’antica Formia. Infatti fino di recente si è ritenuto che la strada ripercorresse quella del borgo di Mola, cosa inammissibile per il percorso contorto e promiscuo agli approdi. Essa invece svoltava e percorreva l’attuale via della Conca, interrotta in via Maiorino, ma che proseguiva passando vicino l’acquedotto su arcate del II-I secolo avanti Cristo il cui serbatoio terminale presenta un lato sghembo in quanto allineato alla carreggiata certamente come prospetto di una fontana pubblica. Recentemente in uno scavo condotto nei suoi pressi è affiorata la massicciata viaria disfatta, in questa zona acquitrinosa contenuta da muro poligonale; nello stesso luogo è inoltre documentato il sepolcro della gente Cesia (iscrizione presso il Museo) e affioramenti di basoli del selciato. È probabile che a fine Duecento la costruzione nel borgo del castello angioino o Torre di Mola per motivi strategici determinò la cancellazione del tratto che lo aggirava e allagato il suolo.
Oltre la piazza Risorgimento, La via Appia prosegue con tipici rettilinei ad oriente ricalcata da quella moderna. In località S. Pietro (km. 144,600) è fiancheggiata a monte dall’imponente nucleo cementizio parallelepipedo di un sepolcro detto Torricella, identificabile nel tipo ad edicola e alla prima età augustea, ma di titolare incognito, probabilmente pertinente ad una villa; è comunque l’elemento distintivo del tratto orientale fino all’antica “Minturnae” sul fiume Garigliano. Oltre il sepolcro (km. 145,350), nel 1998 venne in luce parte del lastricato, mentre nel lapidario di Villa Caposele (Rubino), una colonna miliare reca il 92° miglio ricadente presso l’incrocio di via Gianola (km. 146,900) e attesta un rifacimento della strada nell’impero di Massenzio tra il 307 e il 312.
Queste le principali evidenze del tragitto formiano della via Appia antica e le minime conoscenze per considerarne il valore, le problematiche conservative e una valorizzazione della via, intrecciate all’attuale uso che ora ne rende difficile una adeguata fruizione. Si deve quindi auspicare una maggiore consapevolezza insieme alle specifiche competenze, poiché altrimenti l’assegnazione della via Appia a Patrimonio Mondiale dell’Umanità non recherà che vani benefici alla cittadinanza.
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Bibliografia essenziale
S. Ciccone, Origine e sviluppo della viabilità nel territorio antico di Formia, in “Storia Illustrata di Formia”, Sellino Editore – Comune di Formia, vol. I, p 83 segg., Pratola Serra 2000.
Idem, Il sepolcro formiano di Marco Vitruvio, in “Formianum” VII-1999, p. 45 segg.
Idem, Osservazioni sull’architettura della Tomba di Cicerone a Formia, in “Formianum” IX-2001, p. 11 segg.
L. Quilici, Santuari, ville e mausolei sul percorso della via Appia al valico degli Aurunci, in “Atlante tematico di topografia antica, Acta 13 – 2004, p. 441 segg.
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Didascalie delle immagini
1 - Miliare di Nerva sulla via Appia presso il confine con Itri. 2 – Ricostruzione della Tomba di Cicerone (Ciccone 2001). 3 – Resti del sepolcro di Marco Vitruvio con corrispondente ricostruzione (Ciccone 1997). 4 - La Fontana Romana e i pozzi sul precedente lastricato negli anni 1930 (da Quilici). 5 – Il sepolcro detto Torricella in contrada S. Pietro. 6 – Affioramento del lastricato della Via Appia sul tratto orientale.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-43473726842161747582024-01-25T14:57:00.000-08:002024-01-25T14:57:23.580-08:00VITRUVIO IN DUE NINFEI A FORMIA -
di Salvatore Ciccone
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Nello scorso articolo ho trattato del sepolcro recentemente scoperto a Formia sulla via Appia, dal quale si è dimostrata provenire l’iscrizione di età augustea del titolare, un Marco Vitruvio, riutilizzata nel vicino ponte di Rialto risalente al 1568 e che ha indotto i classicisti a ritenerla riferita all’architetto di Cesare e che ad Augusto dedicò il suo celebre trattato sull’Architettura, pertanto facendo ritenere questa città la sua più probabile patria.
Per la restituzione grafica del sepolcro ho fatto riferimento al criterio proporzionale analogo a quello impiegato in uno dei due cosiddetti ninfei di tarda età Repubblicana nella prossima zona costiera, architetture che presentano riscontri con l’opera di Vitruvio. Si tratta di due originali sale voltate articolate da colonne in una vasta residenza romana compresa nella Villa del principe di Caposele, divenuta nel 1852 luogo di vacanza di re Ferdinando II di Borbone, oggi proprietà Rubino; entrambe hanno sul fondo un vano a nicchia con fonte sorgiva e per questo ricondotte al tipo dei ninfei.
Nella pianta le due sale si distinguono dai prevalenti ambienti uniformi di sostegno di un originario piano residenziale, elevato dall’attuale giardino di circa metri 7,50 e già ridotto in orto pensile, che ricalcano l’andamento di una rupe ai cui piedi scaturisce la sorgente; la fronte rettilinea degli ambienti si elevava di circa 2 metri da una vasta peschiera antistante, i cui resti furono interrati dai Borbone nell’ampliamento del giardino.
Il “ninfeo minore” ha una pianta su matrice quadrata che forma un ambiente principale scandito da quattro colonne doriche, approfondito in una nicchia con fontana. La parte principale è ricostruzione dei Borbone da un’unica colonna e volte perimetrali superstiti, riproponendo un soffitto centrale a padiglione sospeso su lunghe piattebande. La decorazione generale a pietre spugnose richiama una grotta cui si aggiungono effetti pittorici e illusori: nella volta a botte della nicchia con scomparti a sassolini, conchiglie e paste vitree; nelle pareti a stucco con porte inquadrate da motivo architettonico; sulla colonna in un residuo di mosaico a riquadri.
Il “ninfeo maggiore” ha pianta sviluppata su matrice rettangolare, con al centro un’ampia volta a botte scandita da lacunari o cassettoni, sostenuta su ambo i lati da quattro colonne doriche di pietra a stucco che spaziano su navate laterali; il fondo ha un vano occupato da fonte in vasca e decorato con pitture ‘egittizzanti’; all’opposto verso l’esterno si allunga una “fauce” di accesso. Nel pavimento di mosaico bianco punteggiato di marmi policromi, si trova al centro una vasca rettangolare o “impluvium” corrispondente all’apertura che esisteva al centro della volta o “compluvium”, di questa la ricostruzione borbonica annullò il risalto delle membrature nei giochi di luci ed ombre, nonché la ventilazione ascensionale.
Tra le due sale, la volta di un ambiente reca i resti di intonaco a scanalature per convogliare l’acqua di condensa di un ambito termale del quale è tramandata la presenza di dispositivi di riscaldamento delle pareti. Ciò richiama l’abbinamento usuale di “balneum” con “triclinium” o sala da pranzo, della quale nello sviluppo a colonne, Vitruvio (“De Architectura”, VI, 3, 9) la nomina “oecus” e ne classifica tre tipi tra i quali il tetrastilo e il corinzio e che, dal greco “oikos”, casa, si deduce assimilati al nucleo della casa romana e di quella greca corinzia. Pertanto si devono propriamente riferire al “ninfeo minore” un oece tetrastilo e al “ninfeo maggiore” un oece corinzio, qui complementari così come nella trattazione vitruviana, seppure aggiunti adeguatamente di una fontana.
Questa coincidenza risalta più specificatamente nel “ninfeo maggiore” che si riconosce nella descrizione dell’oece corinzio data da Vitruvio (VI, 3, 9): “I corinzi hanno le colonne che posano su di un podio o a terra, e sopra hanno epistili e cornici o in opera nella muratura o di stucco, di poi sopra le cornici, dei lacunari curvi che girano interrotti alle reni”; quest’ultima espressione allude ad volta di muratura a pieno centro, dove le reni sono le porzioni poco superiori ai piani d’imposta che non generano spinte laterali, per il resto ridotte dall’alleggerimento dei lacunari.
Maggiori evidenze sul genere delle due sale si acquisiscono nello studio delle proporzioni.
L’oece tetrastilo ha la pianta inscritta in un quadrato che comprende lo spessore del muro frontale, come pura quadrata è la nicchia, rivelando il criterio proporzionale dal teorema di Platone a quadrati concentrici tramandato da Vitruvio (IX, pref., 4-5): il quadrato principale della sala è di lato 25 piedi che nella serie concentrica trova nella sua metà di 12,5 piedi il lato della nicchia, traducibile in 25 palmi (1 palmo = m 0,074), cioè corrispondente al numero di piedi del quadrato maggiore.
Anche l’alzato riscontra le regole stabilite da Vitruvio: la colonna di ordine dorico di altezza 14 volte il raggio di base (IV, 3, 4), qui di metri 4,14 su raggio di 1 piede; l’altezza della sala quadrata pari alla somma della larghezza con la sua metà (VI, 3, 8), qui presa tra i limiti interni delle colonne dà metri 5,85 in difetto di 15 centimetri, ma rispetto alla volta ricostruita.
Nell’oece corinzio, la pianta risulta composta di tre rettangoli di diversa dimensione ma di medesima proporzione regolata da un segmento comune di 7,5 piedi ossia 30 palmi, che è il numero in piedi della lunghezza della sala colonnata: in questo segmento si deve perciò individuare il modulo che nel rettangolo maggiore scandisce la lunghezza in cinque parti e la larghezza in quattro, stabilendo una comune proporzione di 5:4. Il modulo poi decuplicato collima la lunghezza totale della sala con 75 piedi o 300 palmi, mentre la larghezza massima tra le pareti delle navate è di 37,5 piedi o 150 palmi, quindi rispettivamente di moduli 10 e 5 ribadendo il rapporto 1:2 prescritto per i triclini.
Da ciò risalta pure come lunghezza totale dell’oece tetrastilo, di 37,5 piedi o 150 palmi, è la metà di quello corinzio dimostrando l’unità progettuale delle due sale.
Anche nell’oece corinzio l’altezza confronta la proporzione prescritta da Vitruvio per i triclini, media della somma tra lunghezza e larghezza, qui in presenza delle colonne nel rapporto 1:2 della pianta la lunghezza effettiva di piedi 30 e larghezza la sua metà dà 3 moduli pari a 22,5 piedi (metri 6,65), in altezza coincidente al fondo dei lacunari di effettivo soffitto.
La ragione del modulo di 7,5 piedi nel rapporto 5:4 dei rettangoli della pianta, si ha quando la misura viene convertita nel diretto multiplo del piede che è il cubito equivalente a 1,5 piedi (metri 0,445) e che ne assomma appunto 5; al contrario il numero 4 del rapporto dato in cubiti equivale a 6 piedi. A ciò Vitruvio (III, 1, 1-9), riguardo alle proporzioni degli edifici assimilate al corpo umano, fa corrispondere l’altezza e la larghezza con le braccia distese ad un quadrato proprio di 6 piedi di lato; inoltre inscrive il corpo in un cerchio con centro nell’ombelico a toccare le estremità degli arti divaricati. Al cerchio non dà una dimensione, ma dandogli il diametro di 7,5 piedi e cioè 5 cubiti, esso è tangente la base del quadrato e tocca i due angoli opposti, nel quale si verifica la collimazione con le membra. È quindi configurato uno schema di “symmetria” dimensionato dal cubito in cui si individua il modulo della sala, verificato dal fatto che in quella combinazione geometrica si inscrive perfettamente la pianta collimandone i punti principali.
Dunque l’individuazione del criterio proporzionale dell’oece corinzio di Formia ricondurrebbe all’autentico schema geometrico dell’uomo vitruviano, che sicuramente non può corrispondere a quello celebre di Leonardo basato su numeri irrazionali, a decimali infiniti, non modulabili nell’Antichità e non confrontabili all’allora sistema di misura.
La decifrazione architettonica dei due oeci trova così con opera di Vitruvio una stringente serie di correlazioni fino a risalire allo schema basato sul corpo umano. Ciò mi ha inoltre consentito una innovativa interpretazione della perduta basilica a Fano, da egli concepita e descritta, secondo la stessa somiglianza con gli oeci corinzi.
Queste circostanze si possono ricondurre ad un medesimo autore, rafforzando di Vitruvio la presenza a Formia e che in aggiunta alle altre consistenti testimonianze ne rendono più probabile l’origine. Pertanto questi oeci, architettonicamente già riconosciuti basilari ed ora di tangibile correlazione alla sua opera, si presentano eccezionali come documenti di riferimento e risorsa culturale, ad identità ed onore della cittadinanza.
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Per un’ampia bibliografia sull’argomento: S. CICCONE, Sale con volte su colonne al tempo di Vitruvio: gli esempi originali di Formia, “Formianum” VI-1998, Marina di Minturno 2002, pp. 11-29; AA. VV., Vitruvio opera e documenti, “Formianum” VIII-2000, Marina di Minturno 2009. Una sintesi più recente dello stesso autore è nella rivista “Lazio ieri e oggi”, anno LV, n. 7-9, 2019, pp. 250-56.
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Nelle immagini: Veduta verso settentrione della Villa Caposele dal porto omonimo e planimetria dell’area archeologica: nella linea rossa la sostruzione voltata; A – “ninfeo maggiore”; B – “ninfeo minore”; il “ninfeo minore”, propriamente oece tetrastilo, nella parziale ricostruzione borbonica e nella antecedente illustrazione di Pasquale Mattej (“Poliorama pittoresco”, IX -1845); pianta dell’oece tetrastilo basata sullo schema di simmetria dal teorema di Platone, a destra (CICCONE 1998); il “ninfeo maggiore”, propriamente oece corinzio, con la volta ricostruita dai Borbone e con gli effetti di luce dall’originario compluvium, nell’incisione di LUIGI ROSSINI (Viaggio pittoresco da Roma a Napoli, Roma 1839); pianta dell’oece corinzio con a destra il diagramma dei rettangoli costituenti in cui si individua il modulo (CICCONE 1998); schema di “symmetria” vitruviano del corpo umano commisurato al piede (B) e al cubito (A), nel quale si inscrive e coincide la pianta dell’oece corinzio (CICCONE 1998-2000).
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-53354970519771621412024-01-23T16:49:00.000-08:002024-01-23T16:49:46.058-08:00I VENTICINQUE PONTI
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_In8o04nhT7mjhHxJ7CtNenlP_kaUMcbWQJsoYVUMbBrBohHiRTuNphU-X7YJ73Atcx4vUksT2CC7jaobp3UYTfBkwV3JFLqRhhBBZJ0hp2EouxHGkXbBzOq5nljx3g_SmrXk329Itw0kL3Kyh-LQ12lfy0HO90YZXM7qu9LI7cL4cr5r2SaIQ0eCPb0/s800/01.jpeg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="800" data-original-width="655" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg_In8o04nhT7mjhHxJ7CtNenlP_kaUMcbWQJsoYVUMbBrBohHiRTuNphU-X7YJ73Atcx4vUksT2CC7jaobp3UYTfBkwV3JFLqRhhBBZJ0hp2EouxHGkXbBzOq5nljx3g_SmrXk329Itw0kL3Kyh-LQ12lfy0HO90YZXM7qu9LI7cL4cr5r2SaIQ0eCPb0/s400/01.jpeg"/></a></div>
La storia del viadotto del Pontone, i cosiddetti “25 Ponti” la conosciamo legata alla ferrovia Gaeta – Formia – Sparanise, inaugurata il 4 maggio 1892, quando venne aperta all’esercizio la nuova linea ferroviaria che da Sparanise raggiungeva Gaeta, passando per Sessa Aurunca, Minturno e Formia.
Per Gaeta, isolata dall’entroterra e non attraversata dall’Appia, si dimostrò immediatamente un importante punto di comunicazione.
I “25 Ponti” costituiscono una imponente opera, forse tra le più importanti realizzate alla fine dell’800 nel basso Lazio: in località Piroli sovrapassavano l’Appia e si presentavano maestosi al viandante del tratto Itri - Formia.
Nel giugno del 1933, alla presenza di numerose autorità, tra cui l’allora Ministro degli Interni Costanzo Ciano, prese il via la “Littorina”, nuova automotrice con motore a scoppio di 120 HP, capace di raggiungere una velocità massima di 130 km. orari, che in seguito collegherà in pochi minuti il centro di Gaeta a quello di Formia, passando sullo storico viadotto.
Diversi tratti della linea ferroviaria furono fatti saltare dai genieri tedeschi, che nel 1943 minarono i “25 Ponti”, riducendo 21 delle 25 arcate dell’imponente viadotto ferrato in un ammasso di macerie.
Soltanto nel 1948, vennero appaltati dalle Ferrovie dello Stato i lavori di ricostruzione, ultimati nel 1950.
L’Impresa Bajetti-Rocchi di Roma si aggiudicò la ricostruzione del viadotto composto da 25 luci di ml. 12 ciascuna, e ricostruito con le stesse caratteristiche tecniche e architettoniche del precedente.
Con l'inaugurazione della Stazione di Formia sulla, direttissima Roma - Napoli, avvenuta il 16 luglio 1922, iniziò un lento declino della linea ferroviaria Gaeta - Formia - Sparanise.
Da itinerario alternativo per raggiungere Napoli da Roma, nel luglio del 1957 venne chiusa e trasformata in collegamento di servizio urbano tra le città di Formia e Gaeta.
Nel 1966, senza apparenti importanti motivazioni, la littorina andò in pensione ed il traffico passeggeri, che era notevole, venne effettuato con autobus che collegavano le due stazioni ferroviarie, senza effettuare fermate intermedie, ed il tronco ferroviario venne usato esclusivamente per il trasporto merci. Infine la chiusura dell’A.V.I.R. (la vetreria di Gaeta) mandò in completo disuso l’intero tratto, lasciando i “25 Ponti” in totale abbandono.
Il traffico caotico che collega Formia e Gaeta soprattutto nel periodo estivo, imporrebbe oggi il ripristino di questo collegamento ferroviario tra le due città, senza eccessivi impegni di spesa; la breve distanza consentirebbe ancora il trasporto ferroviario, evitando gli onerosi costi di elettrificazione, consentendo alla famosa “Littorina” di ritornare a fare spola tra Formia e Gaeta.
Da qualche anno si sta lavorando per il ripristino della linea ferroviaria ma tra burocrazia amministrativa e ricorsi vari ancora non si sa quando il servizio ferroviario ritornerà ad essere operativo..
I VENTICINQUE PONTI
La storia del viadotto del Pontone, i cosiddetti “25 Ponti” la conosciamo legata alla ferrovia Gaeta – Formia – Sparanise, inaugurata il 4 maggio 1892, quando venne aperta all’esercizio la nuova linea ferroviaria che da Sparanise raggiungeva Gaeta, passando per Sessa Aurunca, Minturno e Formia.
Per Gaeta, isolata dall’entroterra e non attraversata dall’Appia, si dimostrò immediatamente un importante punto di comunicazione.
I “25 Ponti” costituiscono una imponente opera, forse tra le più importanti realizzate alla fine dell’800 nel basso Lazio: in località Piroli sovrapassavano l’Appia e si presentavano maestosi al viandante del tratto Itri - Formia.
Nel giugno del 1933, alla presenza di numerose autorità, tra cui l’allora Ministro degli Interni Costanzo Ciano, prese il via la “Littorina”, nuova automotrice con motore a scoppio di 120 HP, capace di raggiungere una velocità massima di 130 km. orari, che in seguito collegherà in pochi minuti il centro di Gaeta a quello di Formia, passando sullo storico viadotto.
Diversi tratti della linea ferroviaria furono fatti saltare dai genieri tedeschi, che nel 1943 minarono i “25 Ponti”, riducendo 21 delle 25 arcate dell’imponente viadotto ferrato in un ammasso di macerie.
Soltanto nel 1948, vennero appaltati dalle Ferrovie dello Stato i lavori di ricostruzione, ultimati nel 1950.
L’Impresa Bajetti-Rocchi di Roma si aggiudicò la ricostruzione del viadotto composto da 25 luci di ml. 12 ciascuna, e ricostruito con le stesse caratteristiche tecniche e architettoniche del precedente.
Con l'inaugurazione della Stazione di Formia sulla, direttissima Roma - Napoli, avvenuta il 16 luglio 1922, iniziò un lento declino della linea ferroviaria Gaeta - Formia - Sparanise.
Da itinerario alternativo per raggiungere Napoli da Roma, nel luglio del 1957 venne chiusa e trasformata in collegamento di servizio urbano tra le città di Formia e Gaeta.
Nel 1966, senza apparenti importanti motivazioni, la littorina andò in pensione ed il traffico passeggeri, che era notevole, venne effettuato con autobus che collegavano le due stazioni ferroviarie, senza effettuare fermate intermedie, ed il tronco ferroviario venne usato esclusivamente per il trasporto merci. Infine la chiusura dell’A.V.I.R. (la vetreria di Gaeta) mandò in completo disuso l’intero tratto, lasciando i “25 Ponti” in totale abbandono.
Il traffico caotico che collega Formia e Gaeta soprattutto nel periodo estivo, imporrebbe oggi il ripristino di questo collegamento ferroviario tra le due città, senza eccessivi impegni di spesa; la breve distanza consentirebbe ancora il trasporto ferroviario, evitando gli onerosi costi di elettrificazione, consentendo alla famosa “Littorina” di ritornare a fare spola tra Formia e Gaeta.
Da qualche anno si sta lavorando per il ripristino della linea ferroviaria ma tra burocrazia amministrativa e ricorsi vari ancora non si sa quando il servizio ferroviario ritornerà ad essere operativo..
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Nelle immagini il viadotto del Pontone nei primi anni del Novecento, mentre salta sotto le mine tedesche nel 1943, la consegna del cantiere all'impresa Bajetti - Rocchi nel 1948, lo stato dei lavori nel dicembre 1948 e maggio 1949, infine il viadotto a ricostruzione ultimata nel 1950 e la littorina ferma nella stazione di Formia alla fine degli anni '50
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-83907131749564045522024-01-17T14:17:00.000-08:002024-01-17T14:17:40.722-08:00VITRUVIO A FORMIA
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiq0ftL2nhQHk_IBDHbJEpQc2JG4KKhOs4OL1VNyu5vm-64f6h-Lp_VQlUFhriADnc8sYX3eh-4aea1oKvlvW1tNuUInPFmqSykIq7zMFuljC_UIrwuUYKqx8Ai_ZoWTM09-3o9ql2XlPQt17DBCMuxML7RJ_xKFs3pg2vKqwJD26qF5nw2dMu9mPYm8kI/s766/1.png" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="766" data-original-width="574" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiq0ftL2nhQHk_IBDHbJEpQc2JG4KKhOs4OL1VNyu5vm-64f6h-Lp_VQlUFhriADnc8sYX3eh-4aea1oKvlvW1tNuUInPFmqSykIq7zMFuljC_UIrwuUYKqx8Ai_ZoWTM09-3o9ql2XlPQt17DBCMuxML7RJ_xKFs3pg2vKqwJD26qF5nw2dMu9mPYm8kI/s400/1.png"/></a></div>
Vitruvio fu l’autore del “De Architettura libri decem” (I dieci libri dell’architettura) dedicato all’imperatore Ottaviano Augusto e redatto tra il 27 e il 23 prima di Cristo. Come egli scrive in prefazione al primo libro, era stato nell’esercito di Giulio Cesare come sovraintendente alle macchine belliche e, ormai anziano, ottenne un vitalizio da Augusto tramite la sorella di questi Ottavia; in riconoscenza all’imperatore, raccoglie le sue cognizioni di architetto nel trattato, quale sussidio ai programmi di rinnovamento edilizio da quello intrapresi. Egli dimostra le conoscenze della disciplina e gli espedienti di mestiere, concretizzati nel quinto libro nella basilica da lui progettata e diretta nei lavori a Fano, evidentemente l’apice professionale convenientemente di ambito pubblico.
Della diffusione del trattato si ha riscontro nell’opera di Frontino e nel compendio di Faventino, mentre Sidonio Apollinare nel V secolo indica Vitruvio come esponente dell’architettura. Il testo serbato nelle biblioteche monastiche ricomincerà a circolare nel Trecento; ritornerà alla ribalta con Leon Battista Alberti, affermandosi come uno dei cardini del Rinascimento, basilare nell’interpretazione dell’architettura classica, dell’arte del costruire e dello stesso mestiere dell’architetto, fino all’Ottocento.
Eppure di Vitruvio è ignota la terra natale, nonché la veridicità dell’intero nominativo, Marco Vitruvio Pollione. Varie le identificazioni delle origini: Fano per via della Basilica, Fondi per quel Marco Vitruvio Vacco a capo della rivolta contro Roma nel 330 a.C.; quindi per le iscrizioni a Roma, Verona e in Numidia su un edificio pubblico finanziato da un Marco Vitruvio Mamurra, per il quale l’architetto creduto lo stesso ricchissimo formiano Mamurra, capo del genio militare e amico di Cesare, ipotesi destituita di ogni fondamento. Tuttavia la patria più accreditata è Formia, per il numero di iscrizioni seconda solo a Roma e perché in esse sono menzionati sia personaggi gentilizi, sia i liberti e in un arco di tempo che va almeno dal I secolo avanti Cristo al terzo dopo Cristo.
Di recente lo studio di alcuni monumenti formiani rivela interessanti legami con il trattato. Nei cosiddetti Ninfei tra i resti di una residenza in Villa Caposele (oggi Rubino), si è risaliti al criterio modulare strettamente correlato ai concetti della “symmetria”, identificati nel famoso schema proporzionale dell’uomo nel cerchio e nel quadrato ripreso da Leonardo: le stringenti corrispondenze nella datazione dei “Ninfei” possono ricondurre allo stesso Vitruvio e ad avvalorare la sua origine formiana.
Tra le numerose epigrafi, particolare è quella funeraria di un Marco Vitruvio, più volte menzionata dagli studiosi del passato, il cui blocco si trova riutilizzato nelle spalle del ponte di Rialto datato 1568, all’ingresso occidentale della città.
Essa si trova inizialmente citata in una imprecisa trascrizione di Leandro Alberti nella sua “Descrittione di tutta Italia” edita a Bologna nel 1550: “[…] vicino a Mola, ove si veggono molti vestigi d’antichi hedifici et anche molti marmi spezzati, nelli quali leggonsi molti epitaphi antiqui, delli quali ancun io descrivero, come vidi passando quindi per andare a Napoli. Et prima si vede una tavola di marmo posta nelle mura di un nuovo edificio, lunga piedi sei, e larga uno e mezo in due parti spezzata, in cui sono scritte queste parole. EX TESTAMENTO. M. Vitruvii Menpiliae hoc Monumentum. Her. E. N. M. Poi in un’altra tavola di quattro piedi per lato. Q. Cisuitius. Q. L. Philomusus an. Mor. Cisuitius. Q. L. Philomusus. M. N. M. Vitruvius. M. L. De. Vitruvius e Vitruviis Chreste. M. Vitruvius. S. M. L. Fratrem.”. Della prima iscrizione Pasquale Mattej a metà Ottocento documenta sotto il ponte due distinti testi parziali, così successivamente integrati da Mommsen (CIL X, 6190): A) “M . VITRVVIVS (…)”, non riportato dall’Alberti, titolo a caratteri “capitali” di età augustea alti cm. 24; B) “EX . TESTAMENTO arbitratu / M . VITRVVI . M . L . APELLAE . ET (…) / HOC . MONVMENTVM. HEREDEM non sequitur”, quello inizialmente documentato, a lettere più piccole, oggi coperta da un gradone cementizio: il testamento concerne il sepolcro di un Marco Vitruvio eretto da un suo liberto M. Vitruvio Apella e non destinato ad eredi.
Grazie alla stessa documentazione di Mattej, presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma, ho potuto identificare il sito di provenienza delle epigrafi: in alcuni disegni ritrae un tratto della via Appia prossimo al ponte, dove ai piedi di un casolare cinquecentesco sono i resti di due monumenti funerari contigui, uno in “opus quadratum” ed uno in reticolato con cantoni a blocchetti di calcare e laterizio; di questo in un appunto si specifica l’epigrafe rimossa alla fine del Settecento dal principe di Caposele e collocata nel lapidario all’ingresso della sua villa.
Queste indicazioni trovano conferma nel 1997, allorché sul quel tratto dell’Appia (attuale via G. Paone) prossimo alla Fontana Romana e ad un sepolcro a torretta ottagonale, la creazione di un passaggio attraverso un vecchio muro di contenimento ha fatto affiorare una struttura funeraria sulla quale è intervenuta la Soprintendenza Archeologica. L’elemento resosi evidente nella sezione del dislivello, consisteva nel grosso nucleo cementizio di un monumento a pianta quadrangolare in origine rivestito di blocchi lapidei, recinto sul lato monte con un muro in “opus reticulatum” di prima età augustea, similmente replicato sul lato occidentale per altro ambito funerario. Queste aree hanno restituito diverse olle cinerarie protette dal terreno con pance d’anfora capovolte, i cui puntali fungevano da segnacolo; dall’area relativa il monumento, affiorarono anche le inumazioni sovrapposte di un uomo, di una donna e di due bambini. I contenitori delle ceneri e gli elementi di corredo, balsamari, lucerne ecc., vanno dalla fine del I secolo a.C. al II d.C., congruenti a monete, gli “oboli di Caronte”, di età giulio-claudia, flavia e di Adriano; reperti conservati ma non esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Formia.
Ciò che resta del monumento sembra non offrire appigli alla restituzione della sua forma. In realtà l’analisi costruttiva, metrologica e tipologica mi hanno consentito una ipotesi della sua architettura.
Il nucleo in “opus caementicium” di pietre calcaree è in strati alti m 0,60 (2 piedi romani; 1 piede = m 0,2957), indicando la pari altezza degli elementi del rivestimento lapideo, poiché all’interno vi si eseguivano i progressivi getti cementizi, coesi tramite lo spargimento di minute scaglie calcaree derivate dalla lavorazione dei blocchi perciò di pari materiale: queste indicazioni sono congruenti ai reperti documentati sotto il ponte, tra i quali un pezzo di fregio dorico in cui si presenta un fiore con quattro foglie dagli apici ritorti e un tortiglione centrale che richiama il bocciolo di una viola, insieme alle rose fiori specifici del culto funerario.
La struttura del sepolcro ha pianta quadrata e dalle impronte lasciate dai blocchi è riferibile al modello dell’altare a fregio dorico introdotto dalla fine del II secolo a.C., contenente una cella di contenute dimensioni. La pianta della struttura, compreso il recinto in “opus reticulatum”, è un quadrato di lato m 5,90 cioè 20 piedi e che sostanzia la proporzione del monumento con lo schema geometrico di Platone del rapporto √2 costituito da quadrati concentrici o in equivalenza alterni a cerchi, come appunto verificato in uno dei “ninfei” in Villa Caposele. In questo schema si ottengono coincidenze con le tracce sulla struttura, fornendo indicazioni anche per le altezze del monumento: il basamento o podio risultava alto di 10 piedi (m 2,97), quella complessiva di 28 piedi cioè m 8,28 di cui l’altare di 18 piedi (m 5,32).
Nel modello ricostruttivo trova pure congrua collocazione l’iscrizione del “patronus”, che prima di svincolato valore documentale, ora si identificava con il monumento riaffiorato. In base ai vari esempi, l’epigrafe “capitale” si colloca bene al centro dello zoccolo dell’altare, mentre la disposizione testamentaria è adeguata sulla fascia del podio; invece lo scomparso epigrafista Lidio Gasperini le riconduce entrambi all’altare.
Resta aperto il problema dell’identità di questo Marco Vitruvio, già ritenuto quello autore del “De Architectura” ed ora più probabile in concordanza alle informazioni scaturite dal sepolcro, fatto questo di eccezionale significato tuttavia ancora misconosciuto: così è il sepolcro, volutamente in via di occultamento con vegetazione rampicante in violazione alle norme manutentive del monumento vincolato; nondimeno è il Ponte cinquecentesco con i suoi frammenti epigrafici; quindi il principale corso cittadino intitolato a Vitruvio non reca che generiche targhe. A ciò, altre città tentano in ogni modo di attribuirsi la natalità di Vitruvio e con vane congetture; Formia invece continua ad ignorare i documenti materiali di quello che fu uno dei principali artefici della cultura occidentale.
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Bibliografia
- NICOLETTA CASSIERI, Nuove acquisizioni sul culto funerario nel Lazio meridionale: un sepolcro lungo l’Appia
a Formia e un sarcofago cristiano a Fondi, “Formianum” VI – 1998, ed. 2002, p.33 segg.
- SALVATORE CICCONE, Il sepolcro formiano di Marco Vitruvio, “Formianum” VII-1999, ed. 2007, p.47 segg.
- AA. VV., Vitruvio opera e documenti, “Formianum” VIII-2000, ed. 2009.
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Immagini:
1 – L’area funeraria di Marco Vitruvio sulla via Appia, come è oggi ricoperta da edera, e come ritratta da Mattej nel 1847 (Bibl. Vallicelliana, Roma).
2 – Blocco epigrafico alla base della spalla del Ponte di Rialto con disegno integrativo del titolo.
3 - Sepolcro di Marco Vitruvio, vista dei resti verso oriente e dalla parte superiore.
4 – Sepolcro di Marco Vitruvio, disegno restitutivo (CICCONE 1999): in basso a destra, proporzione teorica della pianta
sullo schema in rapporto √2 a sinistra determinante l’effettiva posizione regolarizzata delle parti; sopra, alzato frontale secondo il criterio modulare; a destra, sezione trasversale con vano della cella e in tratteggio il nucleo esistente.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-34312915579109272982023-12-11T17:29:00.000-08:002023-12-11T17:29:33.876-08:00I COLLAGE SICILIANI DEI COSTUMI DEL REGNO DI NAPOLI
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhC9Us1xYNr6zk6B4tpHXWIe0v_N0LHggDoeZoQWQCrmIIyYLKY6OfUyCTwYLQsTz55NYyBedd69uy-utyyaC7Gxc4HIoKDl-hYS41AtIXftvaO6TibCuOvX2ye4zvObQJdNuoQSHhoFLjXmu5Wp5XIuT-C_I7e0jxK_5HJrj-UCYbZu1_hyphenhyphenjNmD_4grzE/s777/3-a.jpeg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="777" data-original-width="639" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhC9Us1xYNr6zk6B4tpHXWIe0v_N0LHggDoeZoQWQCrmIIyYLKY6OfUyCTwYLQsTz55NYyBedd69uy-utyyaC7Gxc4HIoKDl-hYS41AtIXftvaO6TibCuOvX2ye4zvObQJdNuoQSHhoFLjXmu5Wp5XIuT-C_I7e0jxK_5HJrj-UCYbZu1_hyphenhyphenjNmD_4grzE/s400/3-a.jpeg"/></a></div>
L'arte del collage (unire e assemblare materiali eterogenei per creare opere d'arte), particolarmente popolare nel XX secolo grazie ad artisti come Pablo Picasso e Georges Braque, ha visto il contributo significativo di artisti siciliani tra il XVIII e il XIX secolo. I Collage Siciliani dei Costumi del Regno di Napoli, rappresentano chiaramente esempi precedenti di opere realizzate con la tecnica del collage. La serie "Costumi del Regno di Napoli" è stata creata nel contesto di un progetto ordinato da re Ferdinando IV per documentare gli usi e i costumi delle classi popolari.
Gouaches e acquarelli eseguiti da pittori meridionali, come Alessandro D'Anna, hanno dato vita a stampe riprodotte a partire dal 1793 per volere del Re. Queste stampe hanno influenzato la creazione di collages polimaterici, in cui materiali eterogenei come tessuti, metallo e carta vengono combinati per formare opere uniche. Artisti siciliani, tra cui Gaetano Ognibene, hanno giocato un ruolo chiave nella diffusione di questo genere.
Questi collages sono caratterizzati dall'uso di colori caldi e materiali diversi, come tessuti, laminette metalliche, fili cartacei, mica e tartaruga. Inoltre, accenni paesaggistici ridotti e la ripetizione di soggetti in varianti minime da parte degli artisti sono evidenti nei collages. Infine, questi lavori non solo documentano i costumi del Regno di Napoli, ma rappresentano vere e proprie opere d'arte autonome, tra le più originali espressioni delle arti decorative siciliane tra XVIII e XIX secolo.
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Nelle immagini due collages di costumi tradizionali: uomo e donna di Castellone e donna di Scavoli (Scauri), facenti parte della serie dei Costumi del Regno di Napoli firmati da Gaetano Ognibene e datati 1800.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-81202798728033068482023-12-05T12:46:00.000-08:002023-12-05T12:46:55.081-08:00CICERONE E UN TEMPIO AD APOLLO A FORMIA
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgGx5sLcFmuH7pGHAUTuUFYDYwWqFRiU_zRw_LsLbYxgZyDd_mjyxHRcL5_4jPA5DbCX7N-b8akqsycW5zpKtVXw3AZloL6IsT20QbX7EjYmxvaBzJyDO3ShUtrh0IqCBy5pWscRZInRcnuzKUcLSUvBR4IJCk7zoW8rBtug1nyaYSf-XsWKLU8HA1kbMc/s2070/1.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="1414" data-original-width="2070" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgGx5sLcFmuH7pGHAUTuUFYDYwWqFRiU_zRw_LsLbYxgZyDd_mjyxHRcL5_4jPA5DbCX7N-b8akqsycW5zpKtVXw3AZloL6IsT20QbX7EjYmxvaBzJyDO3ShUtrh0IqCBy5pWscRZInRcnuzKUcLSUvBR4IJCk7zoW8rBtug1nyaYSf-XsWKLU8HA1kbMc/s400/1.jpg"/></a></div>
Il 7 dicembre ricorre l’uccisione di Cicerone, storicamente avvenuta presso la sua villa di Formia in quel giorno del 43 a.C., proscritto in fuga da Roma e ad opera dei mandatari di Marco Antonio.
Il luogo dove sarebbe avvenuto l’episodio, indicato dagli scrittori classici presso “Cajeta”, sarebbe rispondente alla zona tra il lido di Vindicio e la valle di Pontone: qui si situa il grande sepolcro detto prima “Torre” e poi “Tomba di Cicerone”, attribuzione supportata da documenti e dalla tradizione risalenti all’alto Medioevo, quando quell’ambito veniva indicato “vico ciceriniano”, ossia la tenuta di Cicerone.
Il sepolcro turriforme alto oltre 20 metri, ridotto alla sua ossatura strutturale, è incluso in una vasta area funeraria quadrangolare recintata di circa 5.000 metri quadrati allineata con il lato più lungo alla via Appia. In prossimità di essa, a nord-est del recinto, si trova sepolto un viottolo largo circa m. 2,20 a lastre calcaree, parte sacrificata di un lungo percorso rettilineo ortogonale al mare rimasto in tracce, certamente di uso privato, che incrociava la via litorale identificata con quella tracciata nel 184 a. C. dal censore Lucio Valerio Flacco: vicino al litorale il viottolo separa i resti di due ville, quella occidentale consistente nell’ampio basamento con fronte a nicchie e ubicata nella stessa fascia di terreno del monumento, verosimilmente parte di un unico podere.
Riguardo la localizzazione della villa formiana di Cicerone, tra gli elementi tramandati vi è quello della vicinanza di un tempio ad Apollo “affacciato sul mare” (Plutarco, Vite parallele, Cicerone, II, 47), colpito nell’anno 182 a.C. da un fulmine e collocato nel territorio di Formia presso “Cajeta” (Livio, 10. 4. 1). Secondo il racconto di Plutarco, da quel tempio si levarono dei corvi per posarsi sull’alberatura della nave del fuggitivo Cicerone, mentre costretta dal mare avverso prendeva terra e dove ancora quelli lo seguirono nella sua villa con grande schiamazzo e di funesto presagio.
Il toponimo “Vindicio”, che si legge nella forma più antica “vindici”, viene semplicisticamente fatta risalire a vindex (vindicis), il luogo della vendetta di Antonio, oppure ad un possedimento di Caio Giulio Vindice. Invece il termine oltre che “vendicatore” può significare “salvatore” tra i possibili epiteti di Apollo; pertanto vindici (dativo) “al salvatore” con valore locativo o dedicativo in riferimento al tempio, dominante su questo tratto di mare affidato alla protezione del dio.
La villa litoranea corrispondente al sepolcro si trova nel tratto iniziale dell’insenatura indicata “portus Caietae”, vantaggioso approdo naturale allora nel municipio di “Formiae”. Nella prossimità orientale della villa, dalla via Vindicio (via Flacca) sporge sul mare una platea compatibile all’ubicazione di un tempio.
I resti strutturali, già visibili in passato, sono risaltati in una progressiva azione erosiva del mare che fece affiorare nella parte frontale un’antica scogliera protettiva: tale condizione si manifesta già avuta e fissata negli anni 1920-30 in alcune cartoline.
La platea reimpiegata alla fine degli anni 1960 per uso di un adiacente stabilimento balneare è di forma rettangolare di circa m. 11 di lato dalla strada e almeno di m. 25 sul fronte mare, con una altezza intorno ai due metri dal lido. È limitata da tratti di muro in “opus reticulatum” di fine Repubblica o età augustea, su fondazione cementizia che ne testimonia la massima dimensione. Particolare è la soluzione di raccordo con la via antica, certo compresa e non molto discosta dall’attuale, consistente in una deviazione obliqua del muro a 45 gradi in suo favore quale invito all’accesso; non meno importante è sulle pareti reticolate la presenza di un rinfianco di muratura cementizia come rinforzo e virtualmente di ampliamento, forse in relazione ad un evento marino che determinò la posa della scogliera protettiva.
La platea si trova centrata rispetto ad una viuzza di antica presenza e che infatti in tracce e in mappe si rileva parallela 100 metri oltre l’altra delle ville e del sepolcro, fino all’Appia. Questa disposizione relazionata alla via pubblica e a questa traversa diretta al centro dello spiazzo è una ulteriore indicazione sulla possibile relazione ad un tempio che idealmente viene spontaneo immaginare di forma circolare.
Nel ripascimento della spiaggia, praticamente cancellata dalla poderosa mareggiata del 1987, le strutture sono state insabbiate tanto da scorgersi a malapena le parti in opera reticolata. Con i recenti lavori di ampliamento del lungomare, piuttosto che utilizzare questo storico spiazzo, sebbene implicato a concessioni private, se ne è prodotto un altro immediatamente congiunto sul lato occidentale, celando parte delle antiche testimonianze.
Durante gli stessi lavori venne inglobato il muro del lungomare a blocchetti di pietra realizzato dai Borbone intorno il 1850 e demolite le caratteristiche spallette con copertura “a bauletto” di cocciopesto: dietro il muro, nel tratto susseguente alla piattaforma, vennero in luce le strutture sostruttive cementizie della via romana e poi i resti di vasche ornate, in corrispondenza della base di villa con nicchie. Per queste vasche si è escluso che vi passasse una via, deduzione non provata per il ridotto ambito di scavo longitudinale e non trasversale alla strada attuale, oltre che inficiata dalla documentazione e dalla stessa oggettiva situazione; invece si può supporre una intenzionalità di monumentalizzare un tratto della strada connessa al “Formianum”, la villa d Cicerone, come del resto si rileva dagli studi recenti in funzione del recinto del sepolcro, per il quale un tratto di più di 80 metri della via Appia venne posto in piano, intervento non certo eseguibile per scopi privati.
Certo è che in questa terra si compì uno degli episodi storici universalmente noti e cruciali della storia di Roma e della cultura occidentale; sarebbe opportuno che le testimonianze di quel periodo nel sito potessero essere parimente riconosciute e valorizzate.
Una più estesa e documentata trattazione dell’argomento in S. Ciccone, Osservazioni sull’architettura della Tomba di Cicerone a Formia, “Formianum” Atti del Convegno IX-2001, Caramanica Editore 2021 (ISBN 978-88-7425-326-5), pp. 11-38.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiQKa7LCddeGkKuWQUNmhCa_Lvib2D6bdRwYnBuB923YJc3kYjryN9wY_U_zs_srAnNEW_9Fgnq4UgH9-yCJtflZMhdM95wFf96T33N92Pa2PV8k045gUfYeRGTlEOwX7jwsTumlliU9cJMbCYXVmKFG7kGw_ZTd_dOwUEJrB-g0uP6m09DlZsaC1O2X9I/s2122/2.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="1409" data-original-width="2122" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiQKa7LCddeGkKuWQUNmhCa_Lvib2D6bdRwYnBuB923YJc3kYjryN9wY_U_zs_srAnNEW_9Fgnq4UgH9-yCJtflZMhdM95wFf96T33N92Pa2PV8k045gUfYeRGTlEOwX7jwsTumlliU9cJMbCYXVmKFG7kGw_ZTd_dOwUEJrB-g0uP6m09DlZsaC1O2X9I/s400/2.jpg"/></a></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEie1-stH5B3OfYihya2Ezk_xvVEt7MJIyIx-GR9r0NLr-kDCNMiRwpYFpFAuJiey31la-OLeZFYA9Y0dbEYglXAktZe__pekrT14gtz0THS7DeGtsAwb-elNk86afZ0ysTE-70W3-Ev_oR2JLxrwDLy6Q3XILfrN7JZInNDj8onLVEUhIy_zpEntjU2nHk/s2119/3.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="1421" data-original-width="2119" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEie1-stH5B3OfYihya2Ezk_xvVEt7MJIyIx-GR9r0NLr-kDCNMiRwpYFpFAuJiey31la-OLeZFYA9Y0dbEYglXAktZe__pekrT14gtz0THS7DeGtsAwb-elNk86afZ0ysTE-70W3-Ev_oR2JLxrwDLy6Q3XILfrN7JZInNDj8onLVEUhIy_zpEntjU2nHk/s400/3.jpg"/></a></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg1UJ1Pp-q0tZnANcOO5yNnR2_BJOQYT8nun3RM7-sg60hAUfdYzoi1hq0TtCSKMltL0F-GTe_5bF-TsH-FioSDU_9fncO6tizz628EBYQ6z3W01diFRi99lBAB8WKhAIkZKaqJJpO22DRUm2wAvkyoqj2W2ctiPjG4CHqXspHETGAD37SdF8O_W68JkUo/s3152/4.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="2296" data-original-width="3152" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg1UJ1Pp-q0tZnANcOO5yNnR2_BJOQYT8nun3RM7-sg60hAUfdYzoi1hq0TtCSKMltL0F-GTe_5bF-TsH-FioSDU_9fncO6tizz628EBYQ6z3W01diFRi99lBAB8WKhAIkZKaqJJpO22DRUm2wAvkyoqj2W2ctiPjG4CHqXspHETGAD37SdF8O_W68JkUo/s400/4.jpg"/></a></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEim2W_fUr0YlxA4rf2t3O2SaPym64X7O38igmWHW_vGrjAfZEcafjUJ0dswd5lOg87ZkKdf2x0JszDiFXjdgPX1WHRpUMT7lkg3YQuCZV5NHuo6QUXhsXKJWGz6GAxk4HCEtXdDCUKrbPEXSQG7XQ8F9fwNxVpU6rwIVjvbr4GsEmZUYeGmmgvscG31z30/s3400/5.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="2162" data-original-width="3400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEim2W_fUr0YlxA4rf2t3O2SaPym64X7O38igmWHW_vGrjAfZEcafjUJ0dswd5lOg87ZkKdf2x0JszDiFXjdgPX1WHRpUMT7lkg3YQuCZV5NHuo6QUXhsXKJWGz6GAxk4HCEtXdDCUKrbPEXSQG7XQ8F9fwNxVpU6rwIVjvbr4GsEmZUYeGmmgvscG31z30/s400/5.jpg"/></a></div>
Didascalie delle immagini
1-3) Viste della platea (Fototeca Ciccone): con la scogliera riaffiorata sullo scorcio degli anni 1970; nel lato occidentale con l’antico raccordo alla via; in asse alla via antica a monte, con fronte in opera reticolata e parziale rinfianco.
4) Pianta sommaria della platea romana (Ciccone 1979).
5) I ruderi della platea a sinistra e la scogliera in una cartolina anni 1920-30Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-31373302998732754872023-11-23T15:28:00.000-08:002023-11-23T15:28:35.630-08:00LA RECUPERATA “COLONNA DELLA LIBERTÀ” A FORMIA
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjeRF9A46_M-j8H4X2lg5R5Vref1biLliP4epJfxCzoWt2GBb5jOezC4e8YoGXV2hMuzmbM166FL_Ss30Px0CHK3m64auahV0Yagcg-A776canXNHd3lF2EQER81Pi632h0jkUizleF40vviLxXWSNQ-sEXbPRf268evzWRN2WZxWzEslphoEii-2ynrAQ/s1100/1.jpeg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="718" data-original-width="1100" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjeRF9A46_M-j8H4X2lg5R5Vref1biLliP4epJfxCzoWt2GBb5jOezC4e8YoGXV2hMuzmbM166FL_Ss30Px0CHK3m64auahV0Yagcg-A776canXNHd3lF2EQER81Pi632h0jkUizleF40vviLxXWSNQ-sEXbPRf268evzWRN2WZxWzEslphoEii-2ynrAQ/s400/1.jpeg"/></a></div>
La “Colonna della Libertà” è un monumento formiano rimasto celato per oltre cento anni e che di recente è tornato al suo posto, in adiacenza al largo Domenico Paone, nella piazza Tommaso Testa. Secondo la tradizione essa ricordava il passaggio delle truppe napoleoniche del 1799 e la costituzione della “Comune di Formia – Mola e Castellone”, nel territorio affrancato da un millennio di subordinazione a Gaeta.
Prima del ripristino, il monumento compariva in alcune raffigurazioni e dettagliatamente in una foto del 1900 (fig. 1), costituito da una snella colonna liscia con capitello dorico, innalzata su un piedistallo prima ancora protetto da quattro cippi paracarro; esso rovinò, pare, durante un fortunale nel 1914 e i pezzi rimasti a terra, anche dopo l’esecuzione del nuovo lungomare avutosi nel 1928 per munificenza di Domenico Paone.
La piazza già “della Darsena” quando era sul limite della “Spiaggia di Mola”, tangente il tratto sostitutivo della via Appia (la via romana percorreva infatti parte della retrostante via della Conca), era delimitata ad oriente dal palazzo Mattej: da esso la Colonna si trovava a filo della facciata principale a circa a m. 12 dal cantone. Davanti al palazzo era una rotonda sporgente sulla spiaggia contestuale ad una fontana a parete di metà Settecento. Nel primo ampliamento del lungomare degli anni 1850, tolta la rotonda, la fontana venne trasferita sul fondo cieco della piazza e modificata allungando la vasca di abbeveraggio sormontata da cinque botticelle su onde, detta “Fontana delle Cinque Cannelle”: rispetto a questa la Colonna si venne a trovare centrata a poco più di 7 metri.
L’origine del monumento nota nella tradizione, si riscontra nello stile architettonico e in un documento della “Comune” che ne affidava l’opera allo scalpellino Giuseppe D’Auria.
Con la venuta dei napoleonici, nelle piazze più frequentate e scelte come luoghi di adunanza, si innalzava un “Albero della Libertà”, simbolo popolare della Rivoluzione Francese che in varie illustrazioni d’epoca è un albero oppure un palo eretto, ornato con emblemi del movimento quali il berretto frigio, coccarde tricolore e cartigli con i motti innovatori. Nella piazza della Darsena, sul passaggio obbligato, c’era maggior spazio per un raduno, inoltre si può immaginare come fosse facile reperire un palo tra gli armamenti dei navigli periodicamente tirati in secco.
L’innalzamento della Colonna celebrativa quindi deve essere avvenuta nel luogo e in sostituzione dell’effimero “albero”. In effetti nei progetti per l’area del palazzo reale di Napoli, istruiti dal reggente Gioacchino Murat, si scorge una colonna sormontata da statua. È verosimile che anche la Colonna di Formia fosse finalizzata ad una statua, verosimilmente ispirata a quelle dell’epoca della Libertà, tale rendere compiuto il significato e designare il monumento.
Questa ipotesi pare avvalorata nella prima raffigurazione conosciuta della Colonna risalente al 1816-1817 e realizzata dall’architetto inglese James Hakewill (fig. 2), dove sul capitello si percepisce una base quadrangolare, impossibile invenzione dell’artista, ma in effetti necessaria a rialzare una statua per la sua completa visione.
Dopo il ritorno del monarca spodestato Ferdinando IV di Borbone rinominatosi Ferdinando I, il quale ratificò il Comune il 25 gennaio 1820 con il nome di “Castellone e Mola di Gaeta” in alcune illustrazioni del Mattej il monumento è culminato da una croce sul Calvario (fig. 3).
Nel 2011, in occasione del cinquantenario del Lions Club Formia, che fin dalla sua costituzione nel 1961 si era proposto il ripristino del monumento, si riuscì a concretizzare il progetto, catalizzato dal 150° anniversario della ripresa dell’antico nome di Formia (1862-2012) e dal concomitante rifacimento del sito: chi scrive, architetto, venne incaricato del progetto, attendendo alla fase di indagine storica e stilistica e agli elaborati restituivi, insieme ai rapporti con gli uffici di competenza e gli operatori tecnici.
Si partiva dagli elementi residuali del monumento, consistenti nel fusto della colonna, di granito grigio, nonché della cimasa di marmo bianco del piedistallo: tutto il resto era perduto. I pezzi risultavano appartenuti a costruzioni di epoca romana: la colonna, con il diametro di base di m. 0,44 equivaleva a 1,5 piedi romani (1 piede = m. 0,2957) ossia un cubito, ma in rapporto a quello l’altezza di circa m.3,50 era in difetto, fatto comprovato dall’assenza delle modanature ai due estremi; la cimasa, alta m. 0,15 e larga agli estremi m. 0,86 corrispondeva rispettivamente a 0,5 e a 3 piedi (m. 0,89), quest’ultima pure in difetto perché riscolpita superiormente con modanatura a “toro”.
con l’elemento di misura prevalente della colonna si è potuto risalire al disegno in proporzione dell’intera composizione (fig. 4). L’altezza totale risultava di circa metri 5,30 che si poteva tradurre in 20 palmi napoletani, ciascuno pari a m. 0,265. Il riscontro all’impiego di questa misura si aveva nella cimasa, che nel piano inferiore di appoggio presentava sul perimetro la grossolana e più recente scanalatura ampia circa cm. 5 e necessaria per alloggiare le lastre di rivestimento del piedistallo: questo perciò risultava largo m. 0,66 esattamente 2,5 palmi e, compreso il gradino di base, ammontare in altezza a 5 palmi, quindi con la larghezza in rapporto 1:2; la colonna risultava di 15 palmi compresa la base di 1 palmo e il capitello di 0,75 palmi (m. 0,20); essa risultava essere stata solamente poggiata sulla cimasa e assicurata con l’ausilio di un collante, che degradando causò il crollo.
il fusto della colonna era stato abilmente reintegrato nella parte alta con una stuccatura, laddove tuttora si presenta consunto da antica erosione: è quindi probabile che sia stata recuperata sulla spiaggia antistante a occidente dove vi erano i resti di una villa romana con vasta peschiera.
Il monumento benché di ridotta entità e semplice composizione, si riscontra ben studiato nelle proporzioni in rapporto alle visuali e dell’effetto riduttivo della colonna isolata nello spazio circostante. Se poi si considera la presenza di una statua di culmine, si può ipotizzarla alta cinque piedi e quindi il tutto di 25 piedi (m. 6,63), in proporzione di 10 volte la larghezza della base.
I lavori eseguiti nel 2011 hanno prodotto una piazza sulla preesistente sede viaria, questa avanzata con pari curvatura, dove la Colonna sarebbe potuta divenire l’elemento di convergenza delle visuali di percorrenza del nuovo spazio pedonale.
La ricostruzione del monumento si è avvalso della riproduzione robotizzata degli elementi mancanti con pietra levigata della zona, con il profilo delle modanature rimasto sintetico perché non sufficientemente documentabile; inoltre tra i nuovi elementi della base si è anche prodotto un solco di distacco per sottolinearne la ricostruzione.
Nella colonna furono consolidate le microscopiche lesioni che si sarebbero tradotte in futuri sfaldamenti, lasciando però a vista le scagliature prodotte nell’ultimo conflitto, come pure le parti consunte in origine stuccate
Il posizionamento della colonna fu pertanto stabilito nell’ambito della piazza, facendola rimanere in asse con il centro della fontana, ma avanzadola verso mare di circa 7 metri in favore delle nuove visuali.
Affinché si potesse apprezzare il più completo e profondo significato del monumento e del suo recupero, sul piedistallo della colonna due iscrizioni di seguito riportate recano in sintesi la storia, una del monumento e l’altra di Formia.
Sul lato Roma:
NEL 1799/SI COSTITUIVA / «LA COMUNE DI FORMIA - MOLA E CASTELLONE» / CHE PER L’AUTONOMIA CONQUISTATA ERESSE QUESTA / «COLONNA DELLA LIBERTÀ» / ROVINÒ NEL 1914 E DIMENTICATA / LE FURONO INFERTE LE FERITE / DEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE / L’AMMINISTRAZIONE MUNICIPALE / CON IL RESTAURO CURATO E SOVVENZIONATO DAL / LIONS CLUB DI FORMIA / CELEBRANDO L’UNITÀ NAZIONALE / CONCRETIZZATA IN QUESTA TERRA NEL 1861 / NEL LUOGO ORIGINARIO / LUNGO LA VIA CHE COSTEGGIAVA LA / SPIAGGIA DI MOLA / AL CUI LATO ERA IL PALAZZO DI / PASQUALE MATTEJ / (1813-1879) / DEVOTO ALL’ARTE E ALLA STORIA / ARTEFICE DELLO STEMMA CITTADINO / IN OCCASIONE / DEL 150° ANNIVERSARIO DELLA / RIPRESA DEL NOME DELLA CITTÀ ANTICA / A FUTURA MEMORIA DEL CAMMINO CIVILE / RISTABILIRONO NELL’ANNO / 2012
Sul lato Napoli:
FORMIA / DAL GRECO HORMIAI AD INDICARE I BUONI APPRODI / POPOLATA DAGLI AURUNCI / CREDUTA L’OMERICA LESTRIGONIA / ANTICO MUNICIPIO ROMANO SPONDA AMBITA DELL’URBE / DA CICERONE AMATA FIN ALL’ESTREMO RESPIRO / DI VITRUVIO PATRIA RICONOSCIUTA / SEDE EPISCOPALE / SEPOLTURA DI SANT’ERASMO / AVVICENDATA DA CAJETA SUO PORTO NATURALE / SOPRAVVISSUTA IN DUE SOBBORGHI / MOLA E CASTELLONE / NEL 1799 / RIUNITA NELL’AUTONOMIA COMUNALE / RATIFICATA NEL 1820 / NEL 1861 CAPOSALDO / DEL NASCENTE STATO ITALIANO / NEL 1862 RISCATTATA DELL’ANTICO NOME DI FORMIA / NEL 1865 INSIGNITA DEL TITOLO DI CITTA’ / CON EMBLEMA DELLA MITICA FENICE / DISTRUTTA NEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE / MEDAGLIA D’ARGENTO / RICOSTRUITA PER TENACE VOLONTA’ DEI SUOI CITTADINI / VOLGE LO SGUARDO AL FUTURO DI PACE E FLORIDEZZA / NELLO SPIRITO DI LIBERTA’
La “Colonna della Libertà” venne inaugurata insieme alla piazza 16 giugno 2012 come ritrovata memoria della rinata Formia di allora, di nuovo presente come punto di riferimento della città attuale.
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Didascalie delle immagini
1 – La Colonna della Libertà e il susseguente palazzo Mattej in piazza Darsena, in una fotografia di primo ‘900.
2 – La Spiaggia di Mola nell’illustrazione di James Hakewill del 1816-17 con a destra la Colonna della Libertà: nel dettaglio è evidente sul capitello la base per una statua.
3 - La piazza della Darsena campeggiata dalla Colonna della Libertà sormontata da una croce in un disegno di Pasquale del 1846-47.
4 - Disegno restituivo di progetto della Colonna della Libertà (Studio Arch. S. Ciccone, 2011), confrontato con l’opera di ripristino compiuta nella nuova piazza.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-59635910938030781692023-08-13T12:31:00.001-07:002023-08-13T12:31:09.453-07:00LA SCOMPARSA DI WILLY POCINO
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjTZin8_EFB2IDqsMCuzaz3U4k-OHwjZsNJ1VpNYE37OMttJaj1jivPl1iIV98Q31q_DvrUBMcSM8QLzGrI6Zt4nMAo60NIHY5GUiI8u-bzkH_gdRdE0V2l6mJm-PdDwkbvfMzfgkOVZ5HErOO6sA9FW9D-ToEQFFGYRVkMiMgX9H03-yAX5YoHDx69E6g/s1767/1.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="1767" data-original-width="1200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjTZin8_EFB2IDqsMCuzaz3U4k-OHwjZsNJ1VpNYE37OMttJaj1jivPl1iIV98Q31q_DvrUBMcSM8QLzGrI6Zt4nMAo60NIHY5GUiI8u-bzkH_gdRdE0V2l6mJm-PdDwkbvfMzfgkOVZ5HErOO6sA9FW9D-ToEQFFGYRVkMiMgX9H03-yAX5YoHDx69E6g/s400/1.jpg"/></a></div>
Su questa pagina si è sempre entusiasti nello scoprire e divulgare la storia del nostro territorio; è invece ora con dolore ricordare chi in questo compito ha offerto ad innumerevoli cultori una più ampia e qualificante pubblicazione sul Lazio. Willy Pocino ci ha lasciati qualche giorno fa, privandoci materialmente della sua presenza, ma non certo del suo esempio di instancabile scrittore novantatreenne, pervicacemente impegnato malgrado l’incalzare delle infermità.
Era originario di Sant’Angelo d’Alife, ma aveva trascorso la sua Infanzia in Ciociaria e poi nel 1956 traferitosi a Roma, giornalista affermato inserito nella vita culturale come membro del “Centro Romanesco Trilussa”, della “Accademia Tiberina” e dell’agguerrito “Gruppo dei Romanisti”.
Nel 1965 fonda la rivista mensile «Lazio ieri e oggi», giunta al presente con oltre 600 numeri e recentemente rinnovata graficamente con il contributo di Pino De Filippis, nostro conterraneo. Qui egli ha dato accesso a tanti autori nelle più svariate tematiche culturali e su tanti centri del Lazio, molte delle quali riguardanti la nostra zona: negli ultimi numeri sulle architetture romane di Formia e sulla città di Cassino (Salvatore Ciccone) e in corso di pubblicazione sulle stampe del Grand Tour nell’area del Golfo di Gaeta (Renato Marchese).
La Rivista, stampata da Edilazio e recentemente diffusa tramite abbonamento, rappresenta l’ultima espressione di libera cultura in questa Regione già rara e che rispecchiava il carattere del suo fondatore, schietto, aperto, amichevole come rigoroso; essa quindi rappresenta tutto il suo portato culturale, di stimolo alla conoscenza nella correttezza dell’informazione di pari con l’amore trasfuso a Roma e alla sua Regione.
Ci uniamo al dolore della consorte Franca, della figlia Mariarita e del genero Marco Onofrio, questi ultimi uniti nelle imprese editoriali di Willy, della Rivista e di tanti saggi che rappresentano una incessante volontà di conoscenza e salvaguardia di identità del Lazio.
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Didascalie delle immagini :
1 – Una recente immagine di Willy Pocino nel suo studio (foto di Pino De Filippis).
2 – L’amore di Willy Pocino alla “nostra” Roma (foto di Pino De Filippis).
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-50573261475158128882023-06-21T14:55:00.001-07:002023-06-21T14:55:08.838-07:00
NUOVE SCOPERTE SUL CULTO DI SAN GIOVANNI BATTISTA A FORMIA -
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUcPB5VsBLmp1u3c90Se0YqjqQGRzS3T9pgegOcX0c3phns1GbePSrX6Fq4oR5-bFaJtkvT40MlUcENn9Ew-LK8G3sn0OlIRnCkM_0xls11thg3ftp0ae0E72isbuPZ9FdIuG9D8-_HrT43bJWh-Wcot8ebEvKodJ0POsaSfU0eSu-BIJLwEUcC4SaUwQ/s1856/1.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="1856" data-original-width="1205" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhUcPB5VsBLmp1u3c90Se0YqjqQGRzS3T9pgegOcX0c3phns1GbePSrX6Fq4oR5-bFaJtkvT40MlUcENn9Ew-LK8G3sn0OlIRnCkM_0xls11thg3ftp0ae0E72isbuPZ9FdIuG9D8-_HrT43bJWh-Wcot8ebEvKodJ0POsaSfU0eSu-BIJLwEUcC4SaUwQ/s400/1.jpg"/></a></div>
La ricorrenza di San Giovanni Battista di Formia, con Sant’Erasmo compatrono della città, si rinnova nella vivacità della festa e induce ad indagare oltre la tradizione su alcuni elementi connessi al culto.
Ho qui a più riprese trattato della statua lignea che si venera nella chiesa Parrocchiale del rione Mola intitolata ai Santi Giovanni Battista e Lorenzo, questa sostitutiva l’antica vicina al duecentesco Castello costiero, riadattata nel XVIII secolo ma insufficiente: il nuovo edificio, iniziato dall’architetto Gustavo Giovannoni a cavallo del secondo conflitto mondiale, in cui venne bombardato quello originario, fu compiuto dall’architetto Giuseppe Zander.
Il simulacro si confronta con le opere Giuseppe Picano, nato a Napoli il 14 maggio 1716 da Francescantonio originario di Sant’Elia Fiumerapido e Dorotea de Mari; fu sacerdote scultore di figure sacre formatosi nella bottega paterna d’arte presepiale, caposcuola di grande fama e lunga vita artistica morto ultranovantenne. Tale ipotetica attribuzione (la sua firma sulla statua non è ancora stata verificata) richiama la tradizione locale sull’origine della scultura, che la vuole fatta da un tronco spiaggiato fuori il Ponte di Mola e perciò sul lido di levante: un contadino di Castellone, il borgo alto di Formia, lo aveva recuperato con il suo asino come ceppo da ardere, ma misteriosamente riportatosi tre volte sullo stesso lido nonostante l’ostinazione del villico, la quarta volta si ritrovò davanti al portone della chiesetta di San Giovanni Battista posta ai piedi di Castellone; oggi è scomparsa e il nome resta al vico su via Rubino. Il prodigio venne intrepretato come una volontà del Santo e perciò il legno inviato ad un valente scultore di Napoli per realizzarne una statua, la quale giunse via mare e in solenne processione condotta nella chiesa; questa sconsacrata nel medesimo secolo, gli arredi con la statua furono acquistati dalla Congregazione di San Giovanni della chiesa di San Lorenzo di Mola.
Quella chiesa di Castellone compare in un atto del 1490 (Gaeta, Archivio Capitolare f. III-B, n. 133) col nome di San Giovanni “in flumia” cioè “presso il fiume” ed è evidente che in quel luogo del borgo, in congrua distanza non esiste e non è esistito alcun corso d’acqua; invece in un ulteriore atto del 1516 a questa chiesa era pertinente un orto a Santo Janni, la zona litorale ad oriente di Formia, separata dal promontorio di Giànola dall’omonimo rio o fiume.
Dunque compare un legame tra il luogo del rinvenimento del prodigioso tronco alla stessa chiesa in Castellone, evidentemente relazionata ad una campestre presso quel fiume che le dava il nome come al territorio litorale, storicamente legato a Castellone poiché gli abitanti agricoltori e allevatori.
Individuare il sito di questa chiesa rurale non è semplice e probabilmente infruttuoso, vista la trasformazione urbanistica dei luoghi, tuttavia si può tentare qualche ipotesi sperando di trovare riscontri.
Un documento del 1143 (Rubrica delle carte del Monastero di S. Erasmo, 1993) cita presso Giànola due chiese, S. Gennaro e S. Giovanni “de Trullo”; della seconda l’aggiunto si può riferirsi ad una “cupola” o comunque ad un cumulo che farebbe pensare alle rovine del cosiddetto “Tempio di
Giano” in sommità alla villa romana sul promontorio; tuttavia ciò è in contrasto con l’orto citato e con le specifiche denominazioni di vie campestri poste sul piano costiero e riferite a Santo Janni, perciò il “trullo” da ricondurre a diverso contesto.
La denominazione “in flumia” della Chiesa di Castellone dà più ampio spazio alla localizzazione della dipendenza campestre, poiché la sua traduzione dal latino è “presso il fiume” come pure “verso” o “dalla parte del fiume” e ciò assume importanza rispetto agli abitati di Mola e Castellone dai quali il territorio circostante era indicato in approssimazione a principali punti di riferimento, in questo caso il versante verso il fiume di Giànola e certamente da esso compreso; quindi era effettivamente interessata un’ampia porzione di campagna e più la parte litoranea desinente alla foce.
Una possibile indicazione è fornita da testimonianze che segnalano la presenza di ruderi sulla costa tra via Santo Janni – Pescinola e via del Mare già Pescinola, in corrispondenza all’estrema parte rilevata del suolo seguita dalla depressione verso oriente alla foce e appunto denominata “pescinola” perché acquitrinosa: in particolare si ricorda che nel 1965 si rinvennero “due vecchie tombe piene di ossa” in vicinanza di strutture riferibili ad una chiesa. Le antiche mappe catastali riportano nel luogo un edificio quadrangolare allungato alla costa con spiazzo, quest’ultimo attualmente rimasto vicino l’incrocio della Santo Janni - Pescinola.
In questa situazione risalta una stampa di Pontremoli su “Il Mondo Illustrato” circa del 1860, ma copiata da una più antica, che rappresenta rimpetto al lido in questione, dal quale è caratteristico il profilo di Gaeta, il cantone verosimilmente di una chiesa con l’effigie parietale di una Madonna col Bimbo: vi si fissa l’incontro tra un alto prelato e, pare, un vecchio eremita seduto su un antico fregio; sulla spiaggia attende una barca con ornato tendalino e bandiere, mentre transita una donna con un asino. Di certo questi luoghi era più facile raggiungerli via mare, come fece e narrò Pasquale Mattej nell’illustrare le vestigia di Giànola sul Poliorama Pittoresco” nel 1845; nel caso dell’immagine si poteva trattare di una visita pastorale compiuta da un vescovo. Però c’è però da considerare che da qui verso Formia insisteva il toponimo “Sant’Anna”, zona presso l’attuale Parco De Curtis dove sono più documentati resti di una villa romana e alla quale poteva riferirsi l’immagine pur se meno verosimilmente.
In conclusione bisogna pazientare e umilmente cercare, sperando di far luce su quanto di storico riguarda il culto di San Giovanni Battista a Formia, mentre su tutto vale la fede verso il Santo precursore di Cristo.
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Didascalia delle immagini
1 - La settecentesca statua di San Giovanni Battista nella chiesa titolare di Formia.
2 - Una statua scolpita da Giuseppe Picano: San Giovanni Battista a Pannarano (1750).
3 – Probabile scorcio di chiesa presso Santo Janni, incisione replicata da Pontremoli intorno al 1860.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-32909166038539275142023-06-06T14:25:00.001-07:002023-06-06T14:25:52.256-07:00Un'antica stazione marittima a "Scàuri" -
di Salvatore Ciccone
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Gli attuali accadimenti nell’Area Naturale Protetta di Giànola e Monte Scàuri, inclusa nel Parco Regionale Riviera di Ulisse, impongono una consapevolezza del valore unitario di quella che non può essere distinta nei confini dei territori dei due Comuni contermini, Formia e Minturno. In particolare recenti lavori hanno alterato l’area archeologica della villa romana di Mamurra a Giànola, dalla parte di Formia, e problematica è la condizione di quella dalla parte di Minturno attribuita alla villa di Scauro; intanto il nuovo Piano di Assetto del Parco considera queste testimonianze di ambito economico, in pratica enucleate dal contesto in cui si sono originate; ad evidenziarne i valori, riporto una mia nota con parte dei miei disegni sulle vestigia di Scàuri, in appendice al volume di Antonio Lepone, “Marco Emilio Scauro Princeps Senatus”, Caramanica Editore, 2005.
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<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjr1a5VbKr-oPcKP5A8sgIk_9oD0OuLxlYW9wz2r6GUDz_kIMLpHtW7NvFxi-7x9Gt3JHEWS-25iIgc0ywYHB8ToXsdYBVrA_L_cYQlz9v5coGCwuyYfpN--c644qV82B8WWj_9O2iqLy6gNMnHNM5IkcMU0IV3gyd3mHZacAy54D2EMu1FtOmuMWUU/s1276/Scauri%202.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="1276" data-original-width="1044" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjr1a5VbKr-oPcKP5A8sgIk_9oD0OuLxlYW9wz2r6GUDz_kIMLpHtW7NvFxi-7x9Gt3JHEWS-25iIgc0ywYHB8ToXsdYBVrA_L_cYQlz9v5coGCwuyYfpN--c644qV82B8WWj_9O2iqLy6gNMnHNM5IkcMU0IV3gyd3mHZacAy54D2EMu1FtOmuMWUU/s400/Scauri%202.jpg"/></a></div>
Il sito archeologico di Scauri è rimasto immeritatamente estraneo all'interesse degli studiosi perché posto al margine di due antichi centri, Formia e Minturno, presso l'isolato rilievo dei Monti Aurunci che si inoltra nel Tirreno.
Il complesso monumentale manifesta l'uso ripetitivo delle opportunità offerte dalla natura: un'insenatura per un comodo approdo e un ruscello di acqua sorgiva lungo la direttrice di vari collegamenti, alla via Appia e con l'entroterra. La sua componente coesiva consiste in un muro in opera poligonale o megalitico lungo circa 120 metri, al quale si relazionano strutture di epoca romana per formare una vasta terrazza su un'ansa marina volgente ad est. Agli eruditi è sembrato perciò appropriato attribuire questi ruderi alla villa del console Marco Emilio Scàuro dal toponimo di Scàuri, dall'anno 830 legato alla presenza di mulini ad acqua e di un borgo e per la difesa dei quali eccelle la torre quadrata trecentesca. Le mura megalitiche poi, sono dagli studiosi dei primi decenni del Novecento fatte risalire al secolo VIII a.C. e al popolo Aurunco, identificate con “l'oppidum Pirae” citato da Plinio il Vecchio come centro decaduto tra Formiae e Minturnae. In questa attribuzione l'elemento di spicco è lungo l'andito che saliva sulla terrazza: una porta con profilo ad ogiva tronca, larga metri 2,30 ed alta 4,70 circa, formata da blocchi di pietra progressivamente aggettanti contrapposti in sommità ad un architrave. Di recente essa è datata alla fine del IV secolo a.C. perché una simile struttura si trova sottoposta alla via Appia presso Itri, induzione priva di attendibilità passando quel tragitto in un punto obbligato anche in precedenza. Parimenti appare superata la classificazione dell'opera poligonale fatta dal Lugli, dove la "IV maniera", quella con blocchi a bugna sulla faccia a vista, presente in entrambi i luoghi, risale al massimo al III secolo a.C. Dunque, se lo stesso Lugli attribuisce genericamente la copertura a pseudo arco al secolo VII a. C. e diffusa nell'Etruria marittima, la sua combinazione con quella "maniera" non può essere repubblicana e difatti egli non data le mura di "Pirae". In effetti la tecnica di copertura è molto antica, ma dai Micenei fu introdotta presso i Fenici che poi la trasmisero agli alleati Etruschi, ossia Tirreni, proprio durante la massima espansione per mare di questi ultimi che influenzò i popoli vicini. Di questa alleanza, in Etruria, sono prova i culti nel porto di “Caere”, “Pyrgi”. A rendere più interessante l'argomento è la considerazione che si ebbe della porta di Scàuri in epoca romana. Mentre in età repubblicana l'andito era usato e coperto con volta a botte per conferire continuità al piano superiore, nel primo Impero il vano di accesso venne occupato da una vasca ornamentale ovale in “opus reticulatum”, evidenziando l'inagibilità del percorso quasi certamente per infiltrazioni d'acqua. Appare quindi chiara la presenza sostitutiva di un corridoio voltato a rampa e scale, affiancato alla porta e posto su un livello superiore. L'intento di "musealizzare" con la vasca l'antico camminamento caratterizzato dall'arcaica copertura, farebbe supporre come i Romani fossero coscienti dell'antichità di questa architettura. L'esigenza utilitaria aveva già risparmiato gran parte delle mura in poligonale, sostituite o integrate laddove esse erano cadute o in procinto di crollo, fatto sotteso nell'altra notevole struttura appartenente alla stessa fase repubblicana. È una sostruzione a sette fornici con muri in “opus incertum” e volte a botte, lunga una trentina di metri, posta in continuazione del tratto sud del muro bugnato dove era una torre quadrangolare: la scarsa e variabile profondità dei fornici sembra dovuta alla retrostante presenza in curva delle antiche mura e allo scopo di sostenerle, tanto che due di essi, in parte chiusi anteriormente, formano delle casse ripiene di pietrame per assicurare il maggiore contenimento della spinta. A rendere caratteristica la costruzione sono gli archivolti costituiti da conci lapidei perfettamente sagomati e cementati nelle volte, "girate" con ben più rozzi elementi, apparecchiatura ancora legata alla pratica di una esecuzione strutturale a secco e che si colloca tra II-I secolo a.C.: i fornici, perlopiù larghi oltre tre metri e alti poco più di cinque, possono aver sostenuto un corpo di fabbrica ed essere stati impiegati solo per scopi utilitari, non essendo presente in essi alcuna impostazione decorativa.
Da questa sostruzione, un muro alto circa tre metri del medesimo “opus incertum” si protende zigzagando per oltre 60 metri verso il promontorio, interrotto dalla strada che vi sale. È da ritenere che l'insediamento fosse radicato alle falesie della zona "Olmo - Monte d'Oro", dove gli scritti tramandano l'esistenza di un molo dotato di anelli di pietra per l'ormeggio, di una peschiera trapezoidale e di un ninfeo in grotta, testimonianze in gran parte coperte da interventi di urbanizzazione. La peschiera ed il ninfeo, forse un triclinio estivo, rappresentano una trasformazione lussuosa della villa tra tarda Repubblica e primo Impero nell'ambito di un porto privato. L'occasione di un approdo appare qui fondamentale: quando il territorio circostante era caratterizzato da un sistema di colonizzazione sparso di tipo familiare, poneva la necessità di una sua tutela che non poteva differire dalla costituzione di un insediamento di tipo urbano; poi al maggior sviluppo di finitimi centri portuali si deve la decadenza ed il passaggio a privati commerci. Dunque, in presenza di un'antica stazione marittima, è considerevole che un'altra Scàuri si trovi nell'Isola di Pantelleria, sulla rotta con le coste del Nord Africa dove coltivava interessi il ramo della gente Emilia. Per tutto ciò, l'identificazione ipotetica con “Pirae” e poi con la villa di Scàuro risalta nella sua possibilità e rimane a tutt'oggi valida in assenza di contrarie evidenze archeologiche.
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Didascalia delle immagini
1 – Visione complessiva del sito monumentale di Scàuri verso il promontorio.
2 – Porta a pseudo arco ogivale architravato nella cinta poligonale.
3 – I due accessi contigui alla terrazza: a destra della cinta poligonale; a sinistra di epoca romana.
4 – I fornici di età repubblicana di contrafforte ad un tratto della cinta poligonale.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-60531281582449641422023-05-31T15:05:00.001-07:002023-05-31T15:05:23.591-07:00SANT’ERASMO E SANT’EFISIO MARTIRI TRA FORMIA E SARDEGNA
di Salvatore Ciccone
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In prossimità della ricorrenza di Sant’Erasmo, mi è venuta in risalto la data della morte di questo martire a Formia, il 2 giugno del 303 dopo Cristo, con quella di un altro santo che dal lido di Formia si portò in Sardegna per soccombere al supplizio, il 15 gennaio del medesimo anno 303: Sant’Efisio, tra quelli rappresentativi dell’Isola e co-protettore di Cagliari.
Il calendario dei due episodi è naturalmente fissato negli specifici martirologi che però sono di oscura origine e sostanzialmente scritti in epoca medievale elaborando su modelli e laddove non si avevano notizie assimilando la vita di altri Santi; per questo non è qui il caso di fare una analisi dei testi persino ardua agli specialisti.
La “Passio” di Sant’Erasmo è stata scritta da Giovanni di Gaeta, monaco benedettino in Montecassino, eletto papa col nome di Gelasio II dal 1118 al 1119, il quale nel prologo dichiara di aver elaborato il testo attingendo da varie fonti e con cognizione dei luoghi in Oriente avute da alcuni confratelli.
In sintesi, Erasmo, giovane di rara bellezza, divenne vescovo di Antiochia capoluogo della Siria e per questo, in base all’editto emanato da Diocleziano, tenuto ad officiare la divinità dell’imperatore, cosa che in base alla sua fede si rifiutò di fare e perciò sottoposto a tremende torture dalle quali scampava miracolosamente. Di sostegno gli fu l’Arcangelo Michele, il quale da ultimo lo condusse a Formia. Qui predicò per sette giorni fino alla morte per i patimenti subiti, il 2 giugno dell’anno 303, e il suo corpo sepolto nella parte occidentale della città presso l’anfiteatro: invece localmente si vuole martirizzato per eviscerazione, in uno degli ambienti del teatro romano presso il rione Castellone, detto “il Cancello” da una palizzata protettiva del luogo di culto. Il suo corpo venne trasferito a Gaeta al sicuro delle incursioni degli Agareni, ossia i Saraceni, dove venne riscoperto ed intitolato la cattedrale della nuova “civitas” marinara. È così che si trova protettore dei naviganti, del quale la presenza durante le tempeste si credeva fosse nelle luminescenze elettrostatiche tra le alberature delle navi, i fuochi di S. Ermo o Elmo, già ricondotte ai Dioscuri dai Romani.
Dagli scavi eseguiti dal 1970 nella chiesa parrocchiale, ex cattedrale di Formia dedicata al Santo, sono venute in luce importanti testimonianze tardoantiche ed altomedievali del luogo di culto, sostanzialmente originate da un’area sepolcrale pagana, in cui sorse un “martyrium”, un sacello ad includere con un altare un precedente sepolcro ormai privo di spoglie, evidentemente quelle del Santo poi trasferite a Gaeta. A questo piccolo edificio di culto si unirono numerose sepolture cristiane “ad corpus”, quindi, come ho identificato, in breve tempo integrato da una basilica a navata unica, costruzioni certamente realizzate dopo l’editto di Costantino del 313 con il quale si liberalizzava il cristianesimo. In fasi successive il complesso si arricchì di elementi funzionali, tra i quali intorno al VI secolo una cripta semianulare sotto l’altare maggiore della basilica per accogliere le spoglie del Santo; quindi un ricco apparato decorativo di stile carolingio avutosi tra VIII e IX secolo, prima che intervenisse la devastazione saracena che si vuole avvenuta nell’846. Con la presa di possesso dei monaci benedettini nel X secolo e poi dal 1491 di quelli Olivetani, si è avuta la trasformazione in abbazia e la chiesa evoluta in tre navate, con l’altare privilegiato posto in corrispondenza della tomba originaria, ma da secoli occultata.
Riguardo a Sant’Efisio le varie fonti non sempre concordi comunque attestano la veridicità del personaggio in Sardegna oltre che la situazione nel quale esso si è mosso proprio dalla sponda campano-laziale verso l’Isola, dove si documentano traffici commerciali e eventi accorsi nello stesso Medioevo; anche qui la sintesi è d’obbligo.
Efisio era di famiglia eminente di “Aelia Capitolina”, come era Gerusalemme rinominata dai Romani, figlio di Cristoforo, cristiano, e della pagana Alessandra. La madre, profittando della venuta di Diocleziano ad Antiochia riuscì ad avere udienza, supplicandolo di prendere il figlio come suo militare. L’imperatore, ammirato dalla bellezza del giovane, gli affidò la repressione dei cristiani e qui, come Saulo (Paolo) sulla via di Damasco fu oggetto di un prodigio, vedendo apparire in cielo una croce sfolgorante con la voce di rimprovero di Gesù, croce che rimase impressa sulla palma della mano destra, ciò che convertì il giovane. Si portò quindi a Gaeta, dove evidentemente la “Passio” scritta nel XII secolo considera la città che aveva preso il posto dell’originaria malsicura Formia, questa all’epoca di Diocleziano fiorente e della quale il naturale “portus Caietae” era parte integrante. Qui egli si sarebbe fatto realizzare una croce d’argento che miracolosamente venne iscritta in ebraico con i nomi degli arcangeli. Inoltre in questa permanenza si portò a combattere con il suo esercito gli invasori Agareni, uccidendone 12.000; altro chiaro sfasamento storico nell’età del documento, ma che in riferimento alla vittoriosa Battaglia del Garigliano del 915, pare che Efisio possa essere stato invocato dalle truppe Bizantine.
Sbarca quindi a Tharros in Sardinia, per risolvere una aggressione di barbari, cioè dei Barbaricini. In questa terra egli manifesta la sua fede, addirittura scrivendo all’imperatore di convertirsi, il quale naturalmente lo fece arrestare e sottoporre a torture, dalle quali rimase miracolosamente indenne finché non venne decapitato a Nora, altra fiorente città romanizzata, oggi presso Pula dove è una chiesetta romanica eretta sul luogo del martirio.
Sant’Efisio ha avuto grande impulso quando nel 1656 fu invocato con grandi promesse per liberare Cagliari dalla peste, come fu e da allora il Martire è oggetto di grandi festeggiamenti dal 1° al 4 maggio con una caratteristica processione che dall’omonima chiesa di Cagliari vede il simulacro sfilare in un pregiato carro per quaranta chilometri fino a Pula, luogo del martirio, con largo seguito di fedeli provenienti da tutta l’Isola.
Dunque Sant’Erasmo e Sant’Efisio, due giovani ardenti nella nuova fede di salvezza, da Antiochia giunsero a Formia, chissà se in qualche modo connessi, attestandone l’importante nodo di traffici tra la via Appia e le rotte marittime dall’Oriente verso Roma e l’occidente dell’Impero, come pure di culture, di nuovi culti di cui vincente fu il Cristianesimo.
Bibliografia essenziale
- S. Ciccone, La Cattedrale dell’antica Formia, “Lunario Romano” 1987 - Cattedrali del Lazio, Roma 1988, p. 325 segg.
- R. Zucca, Il Portus Caietae in una fonte agiografica: la Passio Sancti Ephyfii, “Formianum” VII-1999, Marina di Minturno 2007, p. 97 segg.
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Didascalie immagini
1 – La statua di Sant’Erasmo conservata nella chiesa titolare ex cattedrale di Formia in prossimità del rione Castellone (foto di Fausto Forcina).
2 – La statua di Sant’Efisio, presso l’omonima chiesa barocca nel rione Stampace di Cagliari.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-53316539689686828482023-05-08T13:42:00.001-07:002023-05-08T13:42:59.509-07:00LA VILLA ROMANA DI GIÀNOLA: NUOVE AZIONI PER LA SALVAGUARDIA -
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7S3DWrBGrDeaBM4QGeBhDWsWyWEs11ZqvQPykNhXsb42VBQcrgAzZfQ1SVnqnUnDjSxJ9TRcVl0nCvzoVfsPaS2txQCdCoDJcC_mohRmO4CTFnNYOtyeVpEM1bY7vcymW6P4Lb3YJMGqba7CnlN4i-4GsPj6A9FK6DhY1koUjY6uxVRUwQRHIGema/s4870/A.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="4866" data-original-width="4870" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj7S3DWrBGrDeaBM4QGeBhDWsWyWEs11ZqvQPykNhXsb42VBQcrgAzZfQ1SVnqnUnDjSxJ9TRcVl0nCvzoVfsPaS2txQCdCoDJcC_mohRmO4CTFnNYOtyeVpEM1bY7vcymW6P4Lb3YJMGqba7CnlN4i-4GsPj6A9FK6DhY1koUjY6uxVRUwQRHIGema/s400/A.jpg"/></a></div>
Presso il Centro Pastorale Parrocchiale di Giànola, il venerdì 28 aprile, si è tenuto l’incontro pubblico sul tema “La villa romana di Giànola risorsa da conoscere e difendere”, promosso dalle associazioni Gianolamare e Janus e dai comitati civici Acqualonga e Santa Croce, condiviso nei contenuti istruttivi dal parroco don Carlo e introdotto dal prof. Pasquale Scipione. Il convegno si proponeva di divulgare i valori dell’area archeologica sul promontorio di Giànola compreso nell’Area Naturale Protetta del Parco regionale naturale Riviera di Ulisse, potenziale risorsa per il miglioramento sociale e di una rigenerazione urbana del quartiere e della zona limitrofa.
In questa finalità ho illustrato i resti della villa estesa su 90.000 metri quadrati e risalente alla metà del I secolo a. C., della quale il primo più dettagliato studio è quello della mia tesi di laurea in architettura pubblicato nel 1990 in “Palladio”, periodico del settore edito dall’Istituto Poligrafico dello Stato. Tra i miei ricorrenti contributi, quello da poco stampato è inserito nella rivista di studi storici “Latium”, annuale raccolta di più di 400 pagine dell’Istituto di Storia e Arte del Lazio Meridionale (ISALM) in Anagni e collegato al Ministero dei Beni Culturali.
Questo lavoro è una sintesi delle conoscenze con le nuove acquisizioni provenienti dal primo intervento di recupero dell’edificio ottagonale, finanziato con fondi europei di 1milione di euro e che ho progettato e poi diretto con l’ingegnere Orlando Giovannone dal 2014 al 2016, ragguaglio dove sono chiariti aspetti problematici di precipua competenza dell’architettura, ma che nel frattempo hanno dato adito ad avulse, fuorvianti interpretazioni.
Uno di quelli riguarda la sala centrale di quell’edificio, la cui forma ottagonale è ribadita dal pilastro centrale di sostegno di una volta di segmenti a botte, sala che pertanto rendeva intelligibile il tutto e certamente serbante il suo significato: ciò malgrado è stata interpretata come cisterna in seguito usata come sala funeraria. Altro aspetto è la struttura di collegamento tra l’edificio e l’impianto residenziale verso il mare, dichiarato come triplice serie di scale affiancate, in realtà caratterizzato da due gradinate coperte di sostegno e da altre due rampe a cielo aperto, poste ai lati di una corte denotata da rocce affioranti di complessivo scopo scenografico.
In sostanza si sono restituiti il più attendibile aspetto e il significato dell’edificio, il quale rappresentava tipologicamente un “musaeum” ossia una grotta artificiale resa nell’anfrattuosità come nell’aspetto delle volte, nella cui sala ottagona buia è irrefutabilmente provata la captazione di una fonte e che tramite le cisterne animava tutta la villa; architettura che rappresentava una allegoria del mondo nelle credenze mitico-religiose e nelle concezioni filosofiche, scontatamente riferito a un corredo scultoreo, luogo temperato e d’uso per il colto “otium” dei Romani.
Ma l’ulteriore novità sta nel chiarimento della copertura, ora delineabile in una terrazza panoramica attorno ad un anello di terreno, tale da apparire come tumulo verdeggiante che includeva una corte con al centro un pilone sepolcrale culminato da statua: dunque la parte superiore devoluta ad estrema dimora del proprietario. L’edificio che derivava dai “musaea” ellenistici, risultava quindi non di univoca funzione, e per questo oggi poco comprensibile, sicuramente anche devoluto al culto privato di una divinità tutelare della fonte, forse quello di Diana, l’arcaica “Jana” da cui deriverebbe il nome del luogo.
Nel convegno ho quindi espresso la problematica dei pur necessari interventi di conservazione delle strutture e di quelli adeguati alla pubblica fruizione, ciò nel rispetto del contesto naturale in cui i monumenti si sono integrati nei secoli e che rappresentano la precipua caratteristica distintiva dell’intera Area Protetta, la cui tutela è prescritta nella Legge Regionale n. 15/1987 istitutiva del Parco Suburbano di Giànola e del Monte di Scàuri.
Questa tematica si è resa indifferibile a fronte dei successivi lavori nell’area archeologica, condotti nel 2020-2021 totalmente dalla “Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Frosinone, Latina e Rieti” con finanziamento del Ministero per i Beni Culturali di 800mila euro. È infatti in questa occasione che i percorsi, realizzati nel precedente intervento in terra battuta, sono stati materializzati in calcestruzzo armato, larghi due metri e per una lunghezza di circa 200 metri. Di più si sono create terrazze panoramiche con transenne di acciaio sulle coperture della scala voltata “Grotta della Janara” e su quella della cisterna “Trentasei Colonne”, qui sbancando i soprastanti strati di terreno tecnicamente contestuali alla struttura. Risulta da ciò scompaginata un’area di circa 10.000 metri quadrati, deturpato il paesaggio e distolta la relazione tra le parti della villa, inoltre interrotta nella continuità dalla recinzione dell’area stessa. L’acme dell’intervento si raggiunge presso la parte scavata dell’edificio ottagonale dove la copertura provvisoria è stata sostituita da una definitiva prepotentemente ancorata ai resti, distolti nella visuale dalle linee aliene di un bagno per una sola persona.
Questi allestimenti si rendono inammissibili sia nel comune buon senso e pertanto da chiunque contestabili di diritto, sia nel sapere dello specifico settore e difatti vietati dalla legge istitutiva del Parco, dove anche l’intervento dell’organo superiore dello Stato come la Soprintendenza deve essere congruente ai fini della conservazione dell’Area Protetta, come pure non può tacitare un così grave accadimento. Non occorrono infatti particolari perizie per accertare gli effetti lesivi di queste opere che invalidano gli stessi scopi istituzionali del Parco nella conservazione dell’ambiente e nella sensibilizzazione culturale della comunità, verso le quali occorre intervenire per un ripristino dello stato originario dei luoghi, non importa quanto costerà e chi ne dovrà rispondere, contestualmente ad un più attento recupero alla comprensibilità che la villa romana assolutamente originale reclama.
Si porterà avanti l’informazione a far proprie presso la cittadinanza queste esigenze indifferibili e fin quando non verranno soddisfatte per il miglioramento sociale ed economico di Formia.
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Didascalie delle Immagini
A - Spaccato restitutivo dell’edificio ottagonale (S. Ciccone da “Latium” 2022): 1-Strato acquifero e 2-sigillatura con 3-vasca di captazione; 4-peribolo, 5-sale perimetrale e con 6- abside; 7-pilone sepolcrale con 8-tumulo ad anello e 9-terrazza panoramica.
B – Ricostruzione dell’edificio con il collegamento verso la villa (S. Ciccone da “Latium” 2022).
C- Viste di parte degli allestimenti più recentemente realizzati per la pubblica fruizione.
D – L’area oggetto degli interventi dal satellite: a sinistra nel 2016; a destra nel 2021 segnata dalle superfici di calcestruzzo
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-27607018279640002542023-05-01T15:11:00.002-07:002023-05-01T15:11:38.300-07:00SEGRETI DELLA VIA APPIA.
I SEPOLCRI DI CICERONE E DI TULLIOLA
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgri8s7gUUYYWhLwinK7N7LoDaD2-uxmzKA19DDzn14vzhmIKts1y8U_MeZGmUDve1HYJk4Pd75IO1vNQVIdmBuyf8Lu96WWWyZUaXDEK_aBXvkaXIU8GOqVext5JdXsimU6VCUqAk3w04UsqcgI27HQyelw9HjIYSWSU-U1-J_-jCSM4lfl9gpRdc4/s3466/1.tif" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="2448" data-original-width="3466" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgri8s7gUUYYWhLwinK7N7LoDaD2-uxmzKA19DDzn14vzhmIKts1y8U_MeZGmUDve1HYJk4Pd75IO1vNQVIdmBuyf8Lu96WWWyZUaXDEK_aBXvkaXIU8GOqVext5JdXsimU6VCUqAk3w04UsqcgI27HQyelw9HjIYSWSU-U1-J_-jCSM4lfl9gpRdc4/s400/1.tif"/></a></div>
Con la recente candidatura della via Appia a patrimonio mondiale dell’umanità UNESCO, Formia sembra aver riscoperto l’interesse verso questa strada che dalla sua costruzione nel 312 avanti Cristo ne ha determinato le sorti in prosperità e sciagure.
La “regina viarum”, come venne definita dal poeta romano Stazio, già da decenni avrebbe dovuto determinare una valorizzazione di livello internazionale, sul tratto formiano con monumenti distintivi del suo antico percorso e principalmente l’eminente “Tomba di Cicerone” connessa all’uccisione dell’Oratore presso la sua amata villa il 7 dicembre del 43 a. C. dai mandatari del triunviro Marco Antonio.
Il sepolcro, attribuito da antica tradizione fino dall’alto Medioevo, venne restaurato dal Ministero della Pubblica Istruzione in occasione del bimillenario della morte di Cicerone: fu un intervento sommario tipico di quel periodo, privo di indagine e di qualsivoglia pubblicazione scientifica. Eppure il monumento è tra i più ragguardevoli del genere, di cui il solo recinto quadrangolare con alto muro reticolato include un’area funeraria di oltre 5.000 metri quadrati con un fronte su strada di circa 80 metri; in posizione centrale il sepolcro appare come una torre su basamento quadrato di 17 metri in blocchi calcarei squadrati con sopra un fusto cementizio, il tutto prossimo all’altezza di 20 metri.
Nello studio che ho recentemente pubblicato negli Atti riferiti al Convegno “Formianum” IX-2000, si restituisce un sepolcro interamente rivestito di marmo che elevava una “tholos”, ossia un tempio onorario circolare scandito da semicolonne probabilmente culminato sulla copertura da una statua equestre di bronzo dorato; un edificio di forte valore commemorativo che insieme alla vasta area funeraria si colloca in età augustea, quando appunto venne riabilitata la figura di Cicerone e il figlio nominato da Augusto suo collega al consolato nel 30 a. C.. Ma ancora più determinante per l’attribuzione è la via Appia, la quale risulta modificata e portata perfettamente orizzontale in funzione a tutto il fronte del recinto, fatto che non può giustificarsi con un monumento privato, a meno di un coinvolgimento della cosa pubblica in onore di quel celebre personaggio.
La tradizione si incrementa nell’ulteriore “Tomba di Tullia” o di “Tulliola”, la figlia di Cicerone prematuramente morta di parto, situata in prossimità del sepolcro paterno sulla retrostante collina “Acervara”, nome riferito ai passati ruderi cuspidati situati a mezzacosta. Il luogo ha restituito in effetti una statua muliebre esposta nel locale Museo, e ricade nell’ambito del supposto “Formianum” di Cicerone, esteso in altura a mille passi (m. 1478) dal mare. Le tracce di questa attribuzione presente già nel ‘700, risalgono a Celio Rodigino che nel 1516 (Antiquae Lectiones) riferisce del ritrovamento fatto ai tempi di papa Sisto IV (1471-1484) davanti alla Tomba di Cicerone, della mummia di sua figlia Tullia, dichiarata da una iscrizione, la quale si dissolse tre giorni dopo.
Come ho già esposto qui in un precedente articolo (link https://www.facebook.com/ComeEriBellaFormia/posts/pfbid0h7Y8pXXLbMMS7QvZR9cEegHwMh3Lb6pqSj72tYer43bMf1UETXBceY63CXZjAS7Xl ) , l’episodio si sovrappone a quello certamente veritiero e documentato della mummia di giovane donna perfettamente conservato trovato nell’aprile 1485 presso al sesto miglio della via Appia a Roma e che trasportato in Campidoglio fu veduta da larga parte della popolazione, finché non si decise di tumularla in un luogo segreto.
L’umanista Bartolomeo Fonte annota la mancanza di qualsivoglia epigrafe che attestasse l’identità della fanciulla e che con il successivo seppellimento non collimano con il ritrovamento riferito da Rodigino e collocato al tempo di Sisto IV, morto nel 1484, cioè un anno prima dell’altra scoperta. È possibile una confusione tra due distinti episodi di cui certa è la mummia di Roma e possibile il rinvenimento di epigrafi sul sepolcro rupestre formiano, avutisi in tempi ravvicinati in un periodo in cui l’interesse per le antichità trovava approssimata diffusione tra gli umanisti di allora.
Ostacolo a questa ipotesi sarebbe la presunta singolarità della mummia romana, quando invece nella stessa Roma altre due rinvenimenti del genere ci confortano della loro consistenza materiale.
Il primo avvenne nel 1889 nello sbancamento per la costruzione del Palazzo di Giustizia, allorché venne in luce il sarcofago sigillato contenente una fanciulla dall’iscrizione identificata come Crepereia Tryphaena, risalente al 150-160 d. C., nel cui corredo era una bambola di avorio dagli arti snodati; episodio che ebbe sul pubblico partecipazione emotiva simile a quello quattrocentesco: la mummia e corredi sono ora esposti nel Museo della Centrale Montemartini.
Il secondo riguarda la cosiddetta Mummia di Grottarossa, la località sulla via Cassia dove nel 1964 venne reperito un magnifico sarcofago istoriato contenente la mummia di una fanciulla di otto anni con intatto corredo di monili ed anche qui un’analoga bambola di avorio, risalenti pure al II secolo d. C. Sconcertante e indegno fu il fatto che i reperti vennero reperiti in una discarica di terreno e fortunatamente recuperati: sono ora accuratamente esposti presso il Museo di Palazzo Massimo.
Per entrambi, notizie e immagini si traggono sul web
Come si vede questa modalità di conservazione era consueta a Roma, evidentemente ispirata all’usanza egizia e diffusasi nelle classi più agiate nella media età imperiale. Nella più ampia possibilità di rinvenimenti del genere, è quindi realistico che nel Rinascimento si siano unificati due distinti episodi.
Con la mostra avutasi presso l’ufficio turistico ai piedi del Palazzo Municipale, sulle antiche stampe illustranti il territorio di Formia, altre iniziative sono in corso per valorizzare il tracciato della via Appia antica, tutte meritevoli di considerazione purché diano un apporto concreto alla conoscenza, alla conservazione delle testimonianze e ad una divulgazione di livello adeguato all’importanza che merita la più importante arteria di Roma antica, prima ancora che dichiarato patrimonio dell’umanità.
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Didascalie immagini
1 - La via Appia, in basso il sepolcro di Cicerone e in alto la Tomba di Tulliola, nell’incisione di G. Vasi nell’opera del 1754 di E. Gesualdo, Osservazioni critiche sopra la Storia della via Appia di Don F. Maria Pratilli.
2 – La Tomba di Tulliola in un disegno di Pasquale Mattej nel suo articolo del 1837 sul “Poliorama Pittoresco”.
3 – Tomba di Tulliola, la statua di personaggio muliebre all’atto del rinvenimento negli anni 1970 ed esposta presso il Museo Archeologico Nazionale di Formia: sul fondo la Tomba di Cicerone.
4 – Pianta e ricostruzione sintetiche del complesso funerario “di Tulliola” (Ciccone, 1982).
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-41870894445005960662023-04-26T12:14:00.001-07:002023-04-26T12:14:43.926-07:00LA VILLA ROMANA DI GIÀNOLA
RISORSA DA CONOSCERE E DIFENDERE
Annuncio della conferenza
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjOKMxOx_B3xv67ly2Un-oc5kt4zdpZok9KjuA5Ma1nqT6Ka2JNlCCwNOxwLpZca85QipMGsGKbEQNn3AvZaoSA1fTllcpdp9ERO3EUG66Sbdxf_QLmeo0_vIpYbknJOiPst8I8mtjGmTSe7HS7WsyEDLxQNx4Rtq5Gx8FaZTWbymC5Ed0NQ5BVkpeG/s3928/1.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="2374" data-original-width="3928" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjOKMxOx_B3xv67ly2Un-oc5kt4zdpZok9KjuA5Ma1nqT6Ka2JNlCCwNOxwLpZca85QipMGsGKbEQNn3AvZaoSA1fTllcpdp9ERO3EUG66Sbdxf_QLmeo0_vIpYbknJOiPst8I8mtjGmTSe7HS7WsyEDLxQNx4Rtq5Gx8FaZTWbymC5Ed0NQ5BVkpeG/s400/1.jpg"/></a></div>
La villa romana di Giànola, preminente nell’Area Naturale Protetta del Parco regionale Riviera di Ulisse, sarà oggetto della mia conferenza in un pubblico incontro coordinato dal Preside Pasquale Scipione e che si terrà a Formia presso Centro Pastorale Parrocchiale di Giànola, via delle Vigne 17, Venerdì 28 aprile 2023 alle ore 19,00.
La villa risale alla metà del I secolo avanti Cristo e attribuibile a Mamurra, il cavaliere nativo di Formia intimo amico di Giulio Cesare e suo prefetto del Genio dell’esercito in Gallia nella cui circostanza ricavò enormi ricchezze. Il complesso residenziale di unitaria costruzione occupava almeno 90.000 metri quadrati della propaggine isolata del promontorio di Giànola propriamente detto, nel territorio del comune di Formia; con la sua estensione doveva proporzionarsi ed essere a capo di una vasta tenuta produttiva, comprendente parte della piana retrostante, documentato possedimento dei Mamurra. Il sito archeologico è parte del Parco regionale suburbano, area naturale protetta istituita con legge regionale n. 15 del 13 febbraio 1987, oggi inclusa nel Parco regionale “Riviera di Ulisse”, ed estesa su tutto il promontorio comprendente in circa 290 ettari il monte di Scàuri e il piano retrostante.
Il parco, nella sua contenuta superficie, interrompe l’urbanizzazione della costa tra i comuni di Formia e Minturno, rappresentando un completo ambiente costiero costituito da rocce conglomerate che caratterizzano anfrattuose ed ispide scogliere e la macchia mediterranea prevalsa da querce sughere. Dalla sua posizione viene risaltato il paesaggio marino nella potente esedra dei monti Aurunci in contrasto alla curva del golfo fino a Gaeta, ciò che ha determinato l’insediamento della scenografica villa, antesignana del genere aperto a terrazze e a portici. I resti monumentali da secoli integrati alla natura rappresentano pertanto il fattore originale e distintivo del Parco, fino alla stessa origine e costituzione della villa che fece proprie le caratteristiche paesaggistiche, oltre che uno specifico luogo di culto alla dea Diana, l’arcaica “Jana” da cui il nome del luogo.
Il titolo dell’intervento pone il tema del sito come risorsa da conoscere, in quanto patrimonio naturale, storico, scientifico ed educativo su cui impostare il miglioramento sociale, culturale ed economico nello specifico e appropriato uso turistico; di questo patrimonio è della comunità, essa nella tutela e conservazione dei suoi valori è parte attiva in una costante azione di difesa.
Con la costituzione del Parco si sono concretizzate le azioni amministrative per assicurare l’integrità dell’area nei suoi valori distintivi anche con il recupero e l’incentivazione delle attività prevalentemente agricole e di quelle volte alla fruizione nei vari livelli di interesse e di godimento. Nell’area archeologica si è quindi proceduto al consolidamento di strutture di maggiore evidenza e urgenza di intervento, cercando di salvaguardare la caratteristica integrazione con la natura e cioè evitando di sovvertire l’ambiente naturale nel concetto specifico dell’area protetta.
Furono così recuperati parti architettoniche consistenti, quali la scala voltata “Grotta della Janara”, la cisterna “Trentasei Colonne” e la cisterna “maggiore” come punto di accesso e coordinamento dell’afflusso dei visitatori. Nel 2016 sono terminati i lavori di primo recupero del “Tempio di Giano”, l’edificio ottagonale sulla sommità, “ninfeo” a fulcro della villa, i cui ruderi di articolate sale voltate furono abbattuti durante il secondo conflitto mondiale, esponendo le strutture diroccate ad un accelerato disfacimento dagli agenti meteorici e dalla vegetazione.
L’intervento necessariamente invasivo dell’area naturale, fu perciò pensato come cantiere in evoluzione e visitabile, sì da consentire nella fase finale una fruibilità del monumento e una reintegrazione nella natura come prima della distruzione.
Nel 2020, con l’esecuzione di nuovi lavori per la “fruizione e messa in sicurezza” dell’area archeologica, si è recintata definitivamente la parte centrale della villa includente il Tempio di Giano, la Trentasei Colonne e la Grotta della Janara, interrompendo di fatto la continuità dell’ambiente naturale. Inoltre sono stati realizzati circa 200 metri lineari di viali di calcestruzzo oltre a piazzole sul suolo archeologico e sbancamenti che nel loro complesso prevaricano la stessa parte monumentale, sovvertendone la relazione tra le parti, alterando l’equilibrio idrogeologico e inquinando visualmente il paesaggio storico-naturale.
L’esposizione porrà quindi la problematica degli interventi di scavo, di restauro e degli allestimenti per la fruizione dei visitatori da coniugare alle caratteristiche di luoghi poste a tutela e perciò i modi di afflusso del pubblico con la conservazione dell’ambiente, puntualizzando le criticità degli interventi realizzati e i possibili correttivi esigibili nella necessità di un ripristino dell’area nei valori fondanti del Parco.
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Didascalie delle immagini
1. Veduta del tratto del promontorio di Giànola interessato dalla villa romana con lo sfondo dei monti Aurunci.
2. La scala voltata “Grotta della Janara” (foto G. De Filippis).
3. Pianta, veduta esterna e interno di parte del “Tempio di Giano”, disegni di metà Ottocento di Pasquale Mattej.
4. Un tratto dei percorsi in calcestruzzo realizzati in prossimità del “Tempio di Giano”.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-45549355910949604122023-04-22T14:34:00.001-07:002023-04-22T14:34:59.211-07:00LA VIA APPIA A FORMIA -
Una mostra nelle visioni del Grand Tour -
di Salvatore Ciccone
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Giovedì 20 aprile, nel contesto dell’inaugurazione dell’ufficio Informazioni Assistenza Turistica (IAT – tel. 0771.778386), situato al piano terra del Palazzo Municipale su piazza della Vittoria, è stata aperta una mostra di antiche stampe dalla collezione di Renato Marchese, concernente luoghi attraenti di Formia, esposizione che rimarrà aperta fino al 26 aprile.
Il territorio di Formia antica fu beneficiato da innumerevoli rappresentazioni e descrizioni di artisti e letterati sul cammino del Grand Tour, l’itinerario di istruzione che dal 1700 le classi più agiate compivano in Europa con immancabile meta l’Italia.
Quei “turisti” venivano affascinati dal paesaggio costellato dai resti della città antica e vivificato da caratteristici costumi popolari, non di meno da quella stessa via romana che per eccellenza il poeta Publio Papinio Stazio nel I secolo designò “regina viarum”, la regina delle vie; così quelli nel percorrerla idealmente ritrovavano il fondamento della cultura umanistica nelle glorie di Roma antica.
Le prolifiche visioni si devono alla via Appia, fino a tutto l’Ottocento l’unica strada che attraversava in lunghezza l’abitato e il territorio costiero. Perciò in questa strettoia fu conveniente una porta daziaria nel borgo di Mola che imponeva una sosta correlata al riposo dei cavalli, favorendo il luogo ad una più prolungata e piacevole permanenza.
La via Appia è quindi ben più estesa nello spazio e nel tempo, non una antichità obsoleta, ma con una dimensione utilitaria ancora oggi attuale per lo più fedele all’antico percorso per più di 2.300 anni.
La via fu il primo tracciato pianificato realizzato dai Romani nella loro espansione verso il Meridione, iniziata dal censore Appio Claudio Centemmano detto il Cieco nel 312 avanti Cristo, il medesimo che costruì il primo acquedotto dell’Urbe.
La via da Roma in due anni, passando per Latium adiectum con le città di Terracina, Fondi, Formia, Minturno e Sinuessa, raggiunse Capua nel 314, in 132 miglia; nelle conquiste successive di oltre un secolo arrivò a Taranto e poi si concluse in 370 miglia a Brindisi, il porto sulle rotte per la Grecia e l’Oriente.
L’Appia di allora non era quella dell’immaginario attuale, cioè rivestita di blocchi di grigio basalto e affiancata da pini a ombrello, come appare nel contesto della Fontana Romana ad occidente di Formia in località San Remigio, bensì una più modesta strada inghiaiata che però era sapientemente strutturata su strati di pietrame immessi in una trincea per assicurarne il drenaggio e la solidità.
Solo nel 295 a.C. venne lastricato il primo miglio e poi nel 292 fino a 11 miglia in blocchi poligonali di pietra lavica, quindi in tratti consecutivi rivestita con il prevalente calcare: nel tratto formiano vi si sovrappose il basalto vulcanico con l’imperatore Caracalla nel 216 d.C., da Fondi per 21 miglia fino all’88°, alla porta occidentale di Formia.
Le dimensioni della via si determinarono secondo il corpo umano in uso allora in ogni costruzione, come Vitruvio spiega e geometrizza con l’uomo nel quadrato e nel cerchio, interpretato nel celebre disegno di Leonardo riportato anche sulla moneta da 1 euro. Perciò era precisamente misurata in miglia e scandita da colonne miliari: un miglio corrispondeva a mille passi, il passo era quello doppio compiuto in avanti che conteneva cinque piedi ciascuno di 29,6 centimetri e cioè 1,478 metri, quindi mille passi pari a 1478 metri, poco meno di 1,5 chilometri.
La carreggiata minima era stabilita in 14 piedi, circa 4,14 metri, dovuta all’incrocio di due carri ciascuno largo quanto due buoi affiancati e normato con 1 passo più gli spazi utili. La larghezza tra le ruote si trova nelle “ormaie”, i solchi prodotti sul lastricato dal ripetuto passaggio ed è quello che ancora determina lo scartamento dei binari ferroviari europei di circa 143 centimetri.
Nel centro urbano di Formia la via oggi si distingue per il lastricato di moderni blocchi squadrati di basalto vulcanico e si identifica con i nomi di Via Rubino e via Lavanga, dalla parte superiore occidentale di Rialto a quella inferiore orientale di Caposelice-largo Paone.
Questo tratto si sovrappone alla via romana, reperita in scavi contingenti, e che costituiva il principale asse viario su cui si strutturava l’impianto della città romana: il “decumanus maximus” che la percorreva da est a ovest tangente il porto, importante nodo di scambio militare e commerciale.
Inizialmente la via doveva passare a monte della potente cinta muraria poligonale e solo dopo il 188 a. C., con l’acquisizione della piena cittadinanza romana, fatta attraversare nello “oppidum” nella necessità di un rito di rifondazione in “urbs” incentrata sul Foro; da ciò si ebbe l’impulso di opere pubbliche e la elezione di centro privilegiato di villeggiatura.
La via Appia si rappresentava anche nel rituale funerario, in processioni mortuarie, aree per l’incinerazione o “ustrina”, sepolture, monumenti sepolcrali dei personaggi eminenti presso le ville e più accalcati in vicinanza delle città, tale così da renderne mesto il transito.
Il tratto formiano della via Appia è emblematico con la Tomba di Cicerone, attribuibile al celebre personaggio qui ucciso presso la sua villa il 7 dicembre del 43 a. C. Presso l’altro elemento significativo della Fontana Romana, è un sepolcro di recente scavo riconducibile ad un Marco Vitruvio, forse l’autore del trattato di architettura dedicato ad Augusto e che si ritiene più probabilmente originario di Formia.
Nel tratto orientale della città, la via Appia proseguiva a monte dell’attuale borgo di Mola, ripercorsa da via della Conca, ma interrotta nel prosieguo: è rintracciabile al termine dell’acquedotto romano, dove recentemente è affiorato un tratto della massicciata, quindi con altre tracce fino all’attuale piazza Risorgimento.
La via interna al Borgo risale al Medioevo quando il tratto romano sul pianoro superiore venne impantanato e deviato per scopi strategici sul castello angioino di fine Duecento dominato dalla grande torre circolare.
La via Appia nel Regno di Napoli venne restaurata durante il dominio spagnolo dal 1568 e chiamata “Strada Regia”, opere contrassegnate da monumenti commemorativi: uno è quello in rudere presso il coevo Ponte di Rialto. In quell’occasione accanto al Castello di Mola sorse la porta daziaria detta “degli Spagnoli”, quella che determinò la sosta obbligata dei viaggiatori in un generale rifiorire di attività.
La più recente costrizione del traffico determinò la parallela costiera di via Vitruvio realizzata in due fasi sullo scorcio dell’800 e nel primo 900 anche nel prolungamento orientale di via Emanuele Filiberto, presso la zona industriale di Mola.
Come la via Appia è stata portatrice di sviluppo, così è stata di rovina. Dopo le distruzioni del secondo conflitto, i progressivi condizionamenti veicolari hanno trovato soluzione sommaria negli anni 1950 con il passaggio della variante Appia litoranea, declassando definitivamente l’antica Appia oltre che nel nome e sottomettendo al traffico il paesaggio costiero che distingueva la città, che tanto aveva ispirato e che tanto poteva promuovere.
L’esposizione di antiche stampe e disegni vuole reclamare un recupero di identità di Formia verso una nuova visione e prospettive future della città. Il prossimo inserimento della via Appia nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO, influenzerà una parte consistente del territorio di Formia, rappresentando un impegno irrinunciabile nelle sue potenzialità.
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Nelle immagini: un momento dell’inaugurazione della mostra a quattro incisioni all’acquaforte opere dell’architetto Luigi Rossini datate 1835.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-78791021051055827722023-03-02T15:49:00.002-08:002023-03-02T15:49:37.016-08:00<b>UNO SCRITTORE FORMIANO: PIERLUIGI LAROTONDA. IL SUO SAGGIO INCHIESTA “IL DELITTO AMMATURO” PRESENTATO IN SALA STAMPA CAMERA DEI DEPUTATI.-
di Renato Marchese </b>
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi89pIpmFut6Vga2VsqOOQzP9WrakuNMlLn3VdQA5eYcV2dnBjpBme5zUSiz1JFOr-0E_oeBK1F2YDtD4Xr-wKx7ppvvBzOmir-Wzw74C73th0dDAuPKMbF0ZwnCL_2ARhwNLIvbE-yo7IyIfQ3dGNJ9qtx7lgndgXyCtCn4MtlKt3Qpya7V9YnzFfx/s1229/1Pierluigi%20Larotonda.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="1229" data-original-width="900" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi89pIpmFut6Vga2VsqOOQzP9WrakuNMlLn3VdQA5eYcV2dnBjpBme5zUSiz1JFOr-0E_oeBK1F2YDtD4Xr-wKx7ppvvBzOmir-Wzw74C73th0dDAuPKMbF0ZwnCL_2ARhwNLIvbE-yo7IyIfQ3dGNJ9qtx7lgndgXyCtCn4MtlKt3Qpya7V9YnzFfx/s400/1Pierluigi%20Larotonda.jpg"/></a></div>
<b>Conosco Giuseppe Larotonda, padre di una delle tante eccellenze della nostra città ma che ha stabilito altrove la propria residenza portando con sé il proprio bagaglio culturale. Ho incontrato recentemente Giuseppe e chiedendogli del figlio mi sono sentito rispondere che si è trasferito in Toscana. Pierluigi Larotonda è uno scrittore nato a Formia nel 1973 che oggi vive a Prato, dove scrive sul settimanale Bisenziosette e conduce un programma culturale su radiocanale7. Intervistare uno scrittore è sempre un'ottima opportunità per conoscere meglio il suo lavoro e le sue ispirazioni, per questo l’ho raggiunto telefonicamente per farmi raccontare dei sui libri e di come conduce la sua rubrica radiofonica.</b>
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgMucwZqii9phJJLV48XDhUDR-QFGTQjuqveBs3eVbBGXOcq8nB6cCVlP8T9rs2-dG124K65r-nB0UGAYyyiSbevx32uHV6aOgHAtbsZn0n-irI4dkq-oAwt32kD2VpqMQQLOMaBYDR_bbVeKsn-mQMs44M79oVMZaDJdXk1_YeJdjKs1uqNV9lAsxj/s1331/2in%20radio.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="897" data-original-width="1331" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgMucwZqii9phJJLV48XDhUDR-QFGTQjuqveBs3eVbBGXOcq8nB6cCVlP8T9rs2-dG124K65r-nB0UGAYyyiSbevx32uHV6aOgHAtbsZn0n-irI4dkq-oAwt32kD2VpqMQQLOMaBYDR_bbVeKsn-mQMs44M79oVMZaDJdXk1_YeJdjKs1uqNV9lAsxj/s400/2in%20radio.jpg"/></a></div>
<b>Quando hai lasciato Formia e perché?</b>
<i>"Verso la fine degli anni Novanta. Ho vissuto prima ad Alessandria, prestando servizio civile nella locale sezione dell'Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Un'esperienza per me bella e importante, in quanto, attraverso il trasporto di persone diversamente abili, ho potuto conoscere varie zone del Piemonte. Nel 2001 il trasferimento a Prato, città industriale, soprattutto tessile, ma anche ricchissima di cultura e movimenti artistici contemporanei. Oltre alla questione dell'occupazione, la spinta a lasciare Formia penso fu anche la voglia di intraprendere nuove esperienze di vita in luoghi diversi da quelli vissuti fino alla laurea in Economia."</i>
<b>In quale Università ti sei laureato?</b>
<i>"All’Università degli Studi di Cassino."</i>
<b>Cosa ti porti dentro della nostra città tirrenica?</b>
<i>"Tante cose ma una su tutte il mare. Amo il mare e le storie di mare. Il 2022 è stato il cinquecentesimo anniversario della prima circumnavigazione attorno al globo, compiuta da Magellano e raccontata nel diario di navigazione dall'italiano Antonio Pigafetta. Così, partendo dalla documentazione storica del XVI secolo, ho scritto un libro per bambini e ragazzi dal titolo Antonio Pigafetta sulle navi di Magellano. Un volume illustrato da un'artista russa e pubblicato da Freccia d'Oro edizioni. L'ho presentato anche a Bologna, in una piccola biblioteca. Sono molto legato, ritornando a Formia, alla Torre di Mola, pilastro simbolico della città. Su di essa, in fondo, sono trascritte centinaia di racconti, molti ancora da scoprire."
<b>Un altro libro che hai scritto è stato di recente presentato presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati. Un traguardo importante. Parlamene.</b>
"Si tratta di un saggio d'inchiesta pubblicato da Giazira scritture e nel quale affronto l'omicidio del capo della mobile di Napoli, vicequestore Antonio Ammaturo. Il 15 luglio del 1982, primo pomeriggio, veniva assassinato in Piazza Nicola Amore questo integerrimo funzionario di polizia da parte di un commando di brigatisti rossi. Uccisero il capo della mobile e la guardia scelta Pasquale Paola. In quel periodo le Brigate rosse, a Napoli, erano ormai allo sbando eppure decisero di eliminare il vicequestore malgrado questi si fosse sempre occupato di criminalità organizzata, soprattutto camorra, e mai di terrorismo. L'anno prima i terroristi rossi sequestrarono il potente assessore ai lavori pubblici della Campania, Ciro Cirillo, e nel luglio dello stesso anno liberato grazie al pagamento di una cospicua somma di denaro. Per anni, sottovoce, si è parlato di una responsabilità della camorra cutoliana mentre io ho lavorato sulla pista della Nuova Famiglia, i nemici di Raffaele Cutolo. I brigatisti rossi che uccisero Antonio Ammaturo furono protetti da Renato Cinquegranella, killer della Nuova Famiglia e, del resto, anche il Procuratore Nazionale Antimafia Giovanni Melillo il 15 luglio 2022 si esprimeva su una possibile riapertura del caso, ponendo come condizione necessaria proprio l'arresto del latitante Cinquegranella."</i>
<b>Dedicherai un giorno un libro alla tua Formia?</b>
<i>"Non penso. Forse perché, amandola troppo, rischierei di non aver quel giusto distacco necessario alla stesura di un romanzo o di un saggio."</i>
<b>Raccontami un po' della tua attività come speaker radiofonico?</b>
<i>"Conduco una rubrica culturale conosciuta come Racconti Urbani. Ogni settimana abbiamo un ospite, in genere uno scrittore o pittore, con il quale discutiamo non solo delle sue opere ma anche dei collegamenti con le varie tendenze artistiche nazionali e internazionali. Importante è l'elemento metropolitano. le storie urbane. La radio con la quale collaboro, Radiocanale7, è una web radio professionale, con due studi di registrazione tutti rigorosamente forniti di pannelli fonoassorbenti. Sembra di entrare in una radio dal sapore tradizionale ma proiettata nel futuro. Collegamenti nazionali e non solo. Addirittura abbiamo un programma seguito dalla comunità rumena e da tanti della stessa Romania, ovviamente condotto nella loro lingua. Programmi sul cinema, sulla musica napoletana, sul calcio."</i>
<b>Allora potresti dedicare qualche puntata per parlare di Formia.</b>
<i>"Direi di sì. In fondo Formia fa parte di un'area metropolitana complessa, laziale ma con sfumature di cultura e sapori campani. Poi il mare, elemento vitale che racconta, che narra. Un argomento da trattare sarebbe anche quello del dissesto idrogeologico, non grave ma comunque già preoccupante, che ha portato, causa piogge intense, a frane e tragedie sfiorate. Basti pensare agli allagamenti di settembre e novembre dello scorso anno, che hanno evidenziato la fragilità di un territorio e testimoniato che per anni si è costruito senza tener presente dei problemi geologici."
</i>
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgz2rs4VO8OJKPLyeYzKQ5HLc518nfdjTPKmAWZKad63wMe3I9hxj5xd14kKmno8-5eeXZIT6BouDy3vpN3OTGvIn3bklHM-0dmJjKj-ok4qJFoLFP07IIWyJLonuexMqZb8q3xn5t6her0k1GJtUpEcE5-09toFf28__wJ7ziOOsnwDS8cdLoaHY0R/s2048/3sala%20stampa%20camera%20dei%20deputati.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="1536" data-original-width="2048" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgz2rs4VO8OJKPLyeYzKQ5HLc518nfdjTPKmAWZKad63wMe3I9hxj5xd14kKmno8-5eeXZIT6BouDy3vpN3OTGvIn3bklHM-0dmJjKj-ok4qJFoLFP07IIWyJLonuexMqZb8q3xn5t6her0k1GJtUpEcE5-09toFf28__wJ7ziOOsnwDS8cdLoaHY0R/s400/3sala%20stampa%20camera%20dei%20deputati.jpg"/></a></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjAcBZwuOzR66sUQrNLh9aWIlfbqAGugiaCc_uvy59MxswSYwsauX2Q97ptcr6tEekBfwkTO4qTmWfeZ1uDGacxW7u4IyiH1G6n59RaU9S1esFz8Dg4hlXxCOdxhQ3J819unegT2rOYP7s7FZstzO3nANAQsETibKgBPeTHNNB5WWbtWac2XS7SpEzK/s785/4il%20delitto%20ammaturo%20foto%20libro.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="785" data-original-width="536" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjAcBZwuOzR66sUQrNLh9aWIlfbqAGugiaCc_uvy59MxswSYwsauX2Q97ptcr6tEekBfwkTO4qTmWfeZ1uDGacxW7u4IyiH1G6n59RaU9S1esFz8Dg4hlXxCOdxhQ3J819unegT2rOYP7s7FZstzO3nANAQsETibKgBPeTHNNB5WWbtWac2XS7SpEzK/s400/4il%20delitto%20ammaturo%20foto%20libro.jpg"/></a></div>
Nelle fotografie: Pierluigi Larotonda, in radio, nella sala stampa della Camera dei Deputati e la copertina del suo Saggio Inchiesta.Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-36214639978241225142023-02-22T09:32:00.002-08:002023-02-22T09:32:45.557-08:00PISCINE NELL’ANTICO PAESAGGIO DA SPERLONGA-GROTTA DI TIBERIO A FORMIA
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3TkQw9Gb9e5Rt-byxZs11QF-UFi14w1msKa1ikG-j9kuI0wmGMeCtkd1D4Eq7RLgWaK1NPxyVCek9YMrWlUL-Fc74OpnlR7rfmK5rrYoYnfe9g4RZ0HrPgAxCce0dUySWEgi2BGNVypLrQFYC59siEgzqrhy8OIj6y3qsBWM-OmB-HG2V2lMl6YFQ/s405/1.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="252" data-original-width="405" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3TkQw9Gb9e5Rt-byxZs11QF-UFi14w1msKa1ikG-j9kuI0wmGMeCtkd1D4Eq7RLgWaK1NPxyVCek9YMrWlUL-Fc74OpnlR7rfmK5rrYoYnfe9g4RZ0HrPgAxCce0dUySWEgi2BGNVypLrQFYC59siEgzqrhy8OIj6y3qsBWM-OmB-HG2V2lMl6YFQ/s400/1.jpg"/></a></div>
Nel precedente articolo ho esposto come la via costiera fatta costruire dal censore Lucio Valerio Flacco nel 184 a.C. e che si vuole da Terracina a Formia, in realtà partisse da Fondi e la sua opera effettiva fosse il superamento delle falesie tra Sperlonga e Gaeta per raccordare due distinti percorsi preesistenti. Livio scrive che la via fu condotta “verso la roccia alle acque di Nettuno e per i monti formiani”, improbabile cenno alla roccia del “Pisco Montano” di Terracina molto distante dai monti di Formia; quella è invece da di indentificare con la rupe di “Bazzano” sul lido retrostante la Grotta di Tiberio a Sperlonga e in cui ricadeva l’antico confine del municipio formiano. Le acque di Nettuno potevano riferirsi alle copiose sorgenti presenti nella zona, dove ho rilevato l’esistenza di un originario lago costiero in cui realmente si ambientava la villa imperiale di Tiberio “Speluncae”, con l’ampio antro naturale in cui, nell’ambito di un’ampia piscina circolare, sono stati rinvenuti gruppi statuari sulle gesta di Ulisse.
La via salda idealmente sulla costa gli antichi territori delle città di Fondi e Formia, nonché l’esemplare residenza imperiale alla catena di “villae maritimae” sull’antico litorale formiano e alle connesse “piscinae”, di cui una da me rilevata per estensione è raffrontabile con quella nella Grotta di Tiberio.
La piscina è antistante la punta del monte Conca, lungo la stessa “via Flacca”, e rimarca il contorno della villa a forma di trapezio isoscele raccordata all’estremo cantone dell’argine con una vasca circolare: il suo diametro di 29,57 metri è 100 piedi romani (1 piede = m. 0,2957) e si rapporta alla lunghezza della piscina di 300 piedi e alla larghezza di 50. Dunque qui è dominante la geometria dell’impianto, associato alla contenuta area della villa per aumentarne la consistenza e con il cerchio a ribadire nel paesaggio la preminente curva del golfo. Si evidenzia perciò come alla specifica funzione di allevamento ittico in rapporto alla natura vi si connotavano qualità estetiche su precisi criteri proporzionali di valenza architettonica.
Nella “Spelunca” la piscina circolare è condizionata con un minore diametro di 21,35 metri, ma invadendo l’antro, minimizzando il passaggio tra l’acqua e le rocce, appare più vasta e risalta verso l’apertura intersecando una vasca esterna rettangolare. In questa è collocato un isolotto con annessi scomparti e sul quale era allestito il triclinio rivolto verso l’interno della cavità. Nelle pareti della stessa vasca sono inglobate parti di anfore di consueto predisposte come tane per i pesci, ma che fanno risaltare una anomalia nell’alimentazione idrica dell’impianto.
Attualmente queste tane si trovano a circa un metro sopra il livello medio del mare, sicché non avrebbe potuto sommergerle: impossibile un bradisismo che ha elevato la costa, perché se fosse stata più in basso tutta la parte litoranea della villa sarebbe stata invasa; nemmeno è credibile che si allevassero pesci d’acqua dolce utilizzando le fonti dell’antro, qualità poco gradite a fronte di quelle marine, lì davanti. La spiegazione è fornita da due canali appaiati e comunicanti con la vasca quadrangolare: uno largo e certamente di spurgo, l’altro proveniente dalle pendici fuori la grotta e connesso ai resti appena visibili di un serbatoio. Dunque l’alimentazione periodica della piscina doveva avvenire tramite l’innalzamento di acqua marina con le macchine idrauliche allora disponibili: una ‘noria’ a catena di vasi oppure una pompa aspirante a leva “di Ctesibio”.
Comunque tutto ciò non basta ad ammettere la sequenza per circa 400 metri di costruzioni esposte ai marosi senza alcuna protezione e difatti oggi squassate. Ho lungamente esaminato le strutture e queste risultano essere state fondate in acqua con getti di malta idraulica, capaci cioè di indurire in cassoni di legno immersi nel mare.
Ma era il mare? No, in assenza di consistenti opere protettive quali delle scogliere. Facendo riferimento anche a dati geologici ho così concluso che doveva esserci un lago costiero sia pur limitato, talché la villa sarebbe stata ambientata in una doppia entità acquea, marina e lacustre, di massima esaltazione paesaggistica. La piscina si trova in un specchio d’acqua arginato nel lago per evitare ristagni, alzarne il livello per farlo fluire lungo la parte propriamente abitativa della residenza e sfociare presso una bocca e un approdo. Di questa situazione si trova persino traccia nell’epigrafe in versi esametri trovata nell’antro, dove si menzionano emotivamente le scene eroiche di Ulisse come l’ambiente tra cui “vivi laghi”, vale a dire naturali.
Riguardo ai motivi ispirativi, al solare paesaggio marino della piscina di Conca, la “Spelunca” quale ventre della terra evocava significati occulti, gli inferi e il tema della morte, insiti nell’allestimento scultoreo. Tuttavia nell’ambito della piscina circolare le raffigurazioni si presentavano accozzate e visivamente interferenti così da sminuire di ognuna lo specifico momento espressivo: al centro Scilla che vorticosa assalta la nave di Ulisse, ma anteposta all’accecamento di Polifemo ed entrambe anticipate dai gruppi di Ulisse e Diomede nel ratto del Palladio e di Ulisse con il cadavere di Achille, sui due ritagli con la vasca quadrangolare. Anche considerando un diverso gusto improntato alla spettacolarità d’insieme, la disposizione sembra suggerire una sottesa componente ordinativa. Ho perciò ravvisato come la piscina circolare significasse il circuito celeste in cui le sbalordenti sculture si trovano rapportate in analogia a miti fissati nelle costellazioni e ricordanti il generale accalcamento degli astri: Scilla che avvolge i marinai come le spire del Dragone alle Orse, Polifemo ubriacato e accecato come il gigante Orione dai satiri; quindi i due gruppi minori, alle costellazioni dei Gemelli e al cosiddetto “Inginocchiato”, rispettivamente Ulisse e Diomede e Ulisse genuflesso a sostenere Achille. La medesima analogia è rimarcata sull’apertura arcuata dell’antro, al colmo l’Aquila di Giove nel rapire Ganimede, alle estremità Andromeda legata alle rocce e la prua della “Navis Argo”: elementi non attinenti all’Odissea, ma si riferiscono ad altrettante costellazioni, come di consueto rappresentate su alcuni archi in similitudine al cielo.
Alla generica forma circolare, certamente adatta alla cavità e al più accomunata al mare, all’apparenza stupefacente pur incline all’orrido, si nasconde un più dotto significato nel rapporto tra terra, mare e cielo, tra le gesta di Ulisse e i personaggi elevati a costellazioni tutte relazionate agli Argonauti, tra i quali c’era anche Laerte, padre di Ulisse. Si deve poi considerare che gli astri secondo Esiodo sarebbero stati sprigionati dalla terra, in Omero dalle acque, due componenti fondamentali espressi nell’antro.
Questa acquisizione, che sviluppa ulteriori riscontri interpretativi della “Spelunca”, mi induce a ritenere che questo allestimento fosse stato prodotto non per l’imperatore Tiberio, ma per gli imperatori Flavi cui senza dubbio risalgono i rifacimenti e le sculture sull’apertura dell’antro, del quale l’ostentata sfarzosità e il gusto riconducibili a Flavio Domiziano sul finire del I secolo d.C.
Probabilmente fu di ispirazione il nuovo poema epico “Argonautica” di Gaio Valerio Flacco, di Sezze, ultimo componente noto della famiglia di quello dell’omonima via, scritte su modello virgiliano per celebrare l’imperatore Flavio Vespasiano per aver aperto nuove rotte e sviluppato i commerci via mare, considerato persino tra gli astri a guida dei naviganti.
Le piscine circolari esaminate dimostrano come queste realizzazioni fossero determinate nella sintesi dell’architettura che Vitruvio dice madre di tutte le arti; i reperti e gli studi archeologici devono pertanto nelle singole interpretazioni trovare finalità in una pari elaborazione d’insieme, per far sì di recepire da queste testimonianze gli aspetti del passato, una identità propositiva nel presente, un senso alla stessa ricerca.
Le più estese trattazioni sono state da me pubblicate negli Atti del Convegno “Formianum” IX-2001, Caramanica Editore 2021, ISBN 978-88-7425-326-5; in generale sull’argomento delle “piscinae” in “Formianum” IV-1996, idem ed. 1998, ISBN 88-86261-63-2.
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DIDASCALIE DELLE IMMAGINI:
1 – Il tratto litoraneo presso Sperlonga distinto dalla roccia “Bazzano”, antico confine di Formia.
2 – La Grotta di Tiberio e il tratto di costa percorso dalla via di Lucio Valerio Flacco: Il moto ondoso indica il basso fondale che rivela l’originaria laguna con la villa espresse nella ricostruzione (S. Ciccone, 1995).
3 – La “piscina” in località Conca lungo la via Flacca, vista attuale da monte e nella ricostruzione ideale della “villa maritima” (S. Ciccone, 1996).
4 – Villa di Tiberio. Sopra, le strutture dei portici interrotte dal mare e che manifestano il diverso ambiente originario. Sotto, sintesi di rilievo: 1 - bacino lacustre con peschiera prolungata nella Grotta e - 2 - padiglione residenziale; 3 - parte terminale del bacino verso lo sfioratore con - 4 - scogliera protettiva verso la bocca del lago; 5 - banchina trapezia di ormeggio (Ciccone, 1995).
5 – Villa di Tiberio, la piscina circolare invasiva dell’antro: al centro base del Gruppo di Scilla e sulla banchina il fondale del gruppo di Polifemo.Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-70672349202669266482023-02-17T18:41:00.001-08:002023-02-17T18:41:37.530-08:00VEDUTA E COSTUMI DI FORMIA NELLE PORCELLANA DELLA REAL FABBRICA FERDINANDEA - di Renato Marchese
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgMua3Gou_cZKNzS7kaHiG8PNIt6hajWkzW6uAJe6v9uLF0-dAQ62_Z2o5WVzPZU3cBVzOefzBfsVsBBzDXWHi5bzYkm1oXYcQQcmtbLpZkcpv8OGjsyt00_j9qiDS1unH4wE22LNGh0I87P_oxM-yny7sEwCdvRTHzlTv8xR2zm8jlFJ828PLtXFdh/s962/001.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="680" data-original-width="962" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgMua3Gou_cZKNzS7kaHiG8PNIt6hajWkzW6uAJe6v9uLF0-dAQ62_Z2o5WVzPZU3cBVzOefzBfsVsBBzDXWHi5bzYkm1oXYcQQcmtbLpZkcpv8OGjsyt00_j9qiDS1unH4wE22LNGh0I87P_oxM-yny7sEwCdvRTHzlTv8xR2zm8jlFJ828PLtXFdh/s400/001.jpg"/></a></div>
Tra i servizi da tavola in porcellana realizzati, certamente quello della Real Fabbrica Ferdinandea delle Porcellane di Napoli, è uno dei più rari e belli. Voluto da Ferdinando IV di Borbone, venne modellato e creato alla fine del XVIII secolo, composto da numerosi pezzi. Il servizio, chiamato dell'Oca per via del pomello dei coperchi che raffigurano un puttino che abbraccia un'oca, è decorato con le vedute dei siti più famosi e pittoreschi del Regno di Napoli, tratte da opere di Hackert, Cardon, Hamilton e dell'Abate di Saint-Non. In una grande zuppiera è stata dipinta una veduta di Mola, tratta dal famoso dipinto di Hackert del 1793. Di questo splendido servizio di porcellane, se ne conservano ben 347 pezzi, nel museo di Capodimonte in Napoli.
Una serie di piatti di porcella dal diametro di cm 26, e raffiguranti le vestiture del Regno, facenti a parte del servizio vennero messi in lavorazione nella Real Fabbrica Ferdinandea, a seguito di un decreto emesso da Ferdinando IV di Borbone nel 1784. L'anno precedente, nel 1783, per ordine del re i pittori Alessandro D'Anna e Antonio Berotti partirono per quel viaggio che per più di un secolo avrebbe condizionato le arti decorative del Regno di Napoli, e in particolare la produzione delle porcellane, tanto care al re. L'obiettivo degli artisti era quello di riprendere dal vero i costumi popolari delle varie province del Regno.
Tra i tanti : un piatto raffigura un uomo e donna del borgo di Mola, un secondo una donna di Mola ed un terzo una donna di Castellonorato. I piatti vennero dipinti prendendo a modello le composizioni bucoliche che i pittori itineranti, Alessandro D'Anna e Antonio Berotti, avevano raffigurato nei loro viaggi. Il servizio, chiamato "delle Vestiture del Regno di Napoli", costituì un vasto repertorio iconografico che fu ampiamente sfruttato nella decorazione della porcellana. Sul retro del piatto una scritta di colore rosso descrive il costume.
Il lavoro svolto da Alessandro D'Anna fu molto apprezzato da Ferdinando IV, tanto che volle far riprodurre alcuni costumi in piccole statuette di porcellana. Consegnati gli acquerelli al direttore della Real Fabbrica della Porcellana, Domenico Venuti, vennero modellate le piccole sculture.
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Nelle fotografie La zuppiera, i tre piatti coronati in porcellana dura e ricoperta di vernice stannifera, e una statuetta in porcellana della donna di Castellonorato con il costume disegnato da Alessandro D'Anna, altezza della figura cm 28.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-61965538259668428022023-02-07T14:03:00.002-08:002023-02-08T06:21:18.440-08:00DA SPERLONGA-GROTTA DI TIBERIO A FORMIA UNA VIA DALL’ATTUALITÀ ALLA STORIA
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEigTTtRjsGEAfDUkp_uduKxDfu092qyuqahzoHlzTcJApaUB7W0fFapaF6cs6QIPPrPxWbYXSN4jHrjd9JOzvq0NJi4ohCXZMBbpOAhlGDb6la2j2hoM96uaMRfKrp1wjMaapNAEXdc5fRZgIXirvh6OoE4ODORlPrCjUQrpyuvXD5byFCN95XYXV52/s396/1.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="240" data-original-width="396" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEigTTtRjsGEAfDUkp_uduKxDfu092qyuqahzoHlzTcJApaUB7W0fFapaF6cs6QIPPrPxWbYXSN4jHrjd9JOzvq0NJi4ohCXZMBbpOAhlGDb6la2j2hoM96uaMRfKrp1wjMaapNAEXdc5fRZgIXirvh6OoE4ODORlPrCjUQrpyuvXD5byFCN95XYXV52/s400/1.jpg"/></a></div>
La realizzazione della via litoranea “Flacca” negli anni 1950, da Sperlonga a Formia provocò l’alterazione di uno dei tratti più belli d’Italia. Quest’opera magnificata certo per le capacità tecniche e realizzative nella pur comprensibile enfasi del progresso post-bellico, ha avuto ed ha effetti diversi a seconda della morfologia e delle diverse situazioni sociali e politiche dei luoghi attraversati. Senza dubbio a tranciare Formia con il nastro di asfalto e cemento fu una precisa e documentata scelta politica degli amministratori. Questi, partecipi di una diffusa disinformazione sulle opportunità economiche, rifiutarono l’alternativa di una via pedemontana ritenuta dirottante i benefici indotti dal passaggio veicolare; in realtà fu una occasione per invalidare i vincoli archeologici e paesaggistici che gravavano sul comparto costiero che impedivano su di esso l’espansione edilizia e ciò fu fatto proponendo alla Soprintendenza il progetto della via come asse di un parco archeologico: assurdo benché approvato, produsse danni diretti sui monumenti; poi via via dissolto il parco è restata la strada che ha ipotecato il futuro della Città.
Non fu così a Gaeta, dove la “Flacca” passò a monte dell’abitato; così ugualmente a Sperlonga, che prima capolinea da Fondi si trovò improvvisamente collegata tra Roma e Napoli, aprendo impensabili alternative alla sua prevalente economia agricola e di piccola pesca. Questa nuova opportunità aprì gli occhi agli Sperlongani, allorché nel 1957 si ebbe la scoperta delle spettacolari sculture nella Grotta di Tiberio, negli iniziali scavi su licenza della Soprintendenza condotti dall’ingegnere Erno Bellante impegnato alla realizzazione della via. I cittadini, intere famiglie, impedirono con presidi il trasporto dei reperti a Roma, finché non si decise di conservarli sul posto, associando all’area di scavo della villa imperiale un museo e del quale proprio quest’anno ricorre il sessantesimo anno dall’inaugurazione (1963). Quale fu l’impulso per Sperlonga tutti possono constatarlo insieme alle negatività provocate, a Formia uniche e ineluttabili.
Da queste considerazioni è opportuno allargare la visione alla storia della precedente via romana, dalla quale l’odierna ha preso anche impropriamente il nome. Essa è identificata con quella che lo storico Tito Livio (“A. U. c.”, XXXIX, 44) dice realizzata dal censore Lucio Valerio Flacco nel corrispettivo anno 184 a.C.: “E Flacco separatamente [dal collega Catone il Vecchio] alla roccia delle Acque di Nettuno, affinché vi fosse un passaggio per la gente, [fece] la via per i monti Formiani” (Et separatim Flaccus molem ad Neptunias Aquas, ut iter populo esset, et viam per Formianum montem).
Finora si è riconosciuto il luogo della “roccia delle Acque di Nettuno” con quello citato dall’architetto Vitruvio (“De Architectura”, VIII, 3): “Così si narra essere stata in Terracina una fonte che si chiamava Nettuno, del quale moriva chi inconsideratamente beveva, e che perciò gli antichi l’avessero ostruita” (Uti fuisse dicitur Terracinae fons, qui vocabatur Neptunius; ex quo qui biberant imprudentes vita privabantus: quapropter antiqui eum obstruxisse dicuntur).
Il fatto che a Terracina anche il monte è indicato “Neptunius” e che lì vi sono sorgenti sulfuree, oltre alla caratteristica roccia del “Pisco Montano”, ha fatto sì che l’inizio di quella strada venisse identificato in quel luogo, anticipando di tre secoli la variante traianea della via Appia. In realtà Vitruvio riferisce, nella seconda metà del I secolo a. C., un fatto tradizionalmente accaduto certamente prima dei tempi di Flacco; pertanto Livio, oltretutto più giovane di Vitruvio, non poteva prendere come riferimento topografico una fonte non più esistente, se non leggendaria. Inoltre la via, realizzata per i monti Formiani, non poteva partire da Terracina, con un maggior tratto sul litorale di Fondi rispetto a quello per i monti di Formia; Livio avrebbe poi specificato Terracina come altrove ha fatto (“A. U. c.” XL, 51, 2): “Lepidus molem ad Terracinam ingratum opus...”. Non rimane che pensare le Acque di Nettuno in un altro sito prossimo al territorio di Formiae.
Sul versante opposto del monte Ciannito e alla Grotta di Tiberio, si presenta un terrazzamento sostenuto da un muro megalitico, incluso in una successiva villa romana di età repubblicana; uguale situazione si ha nella villa detta “Grotte Salse”, all’estremità occidentale della piana di S. Agostino. Essendo queste mura risalenti all’età preromana e perciò antecedenti la via di Flacco, è probabile che i due insediamenti originari fossero al termine di due distinti percorsi, uno dalla parte di “Caieta” per la valle di S. Agostino e di Longato, l’altro dalla parte di “Fundi”. Da questi due capi le insuperabili falesie che sbarravano il transito costiero potevano essere solo superate aggirandole superiormente: dalla villa oltre il monte Ciannito salendo con una via ancora distinguibile; dal capo delle “Grotte Salse” per il “canale Pecorane”, testimonianza del transito delle greggi verso il mare.
Riguardo alle “Acque di Nettuno”, vi sono ricchissime sorgenti ai piedi del promontorio sperlongano come nell’area della Grotta di Tiberio; queste in origine confluivano in un lago costiero, dove realmente si inserivano la villa imperiale e quella prossima, acque che dovevano ispirare una specifica divinità. Se la villa imperiale era certamente ubicata nell’antico territorio di Fondi, è anche vero che il confine con quello formiano era prossimo e ripercorso nel Medioevo da quello di Gaeta; infatti ricadeva al termine del lido ad oriente del monte Ciannito, dove si erge imponente la roccia “Bazzano”, conformazione d’erosione simile al Pisco Montano di Terracina.
È quindi lecito pensare che Livio si riferisse a queste fonti e a questa roccia come probabile confine tra “Fundi” e “Formiae” per indicare l’inizio di questa via e appunto condotta per “Formianum montem”, per congiungere due percorsi ciechi e di disagevole raggiungimento dalla via Appia.
Dunque Lucio Valerio Flacco avrebbe realizzato non una strada da Terracina a Formia, a coprire una distanza di oltre 40 chilometri (27 miglia romane; 1 miglio = m. 1478,5), ma un ben più breve tratto di circa 3 chilometri lungo le falesie (2-2,5 miglia), temerariamente condotto a strapiombo sul mare con arditi muri a secco e perfino con un tratto in galleria, utilizzando una caverna nella Punta Capovento. Ad ulteriore conforto di questa tesi si deve rilevare la mancanza di tracce viarie nel più lungo tratto, per natura pantanosa e necessario di notevoli opere di sostegno, nonché di colonne miliari. Quanto alla parte nel tratto formiano antico, doveva già esistere il percorso diramato da quello a servizio del porto naturale di Caieta, di cui l’incrocio è presso la chiesa di S. Maria di Conca, probabilmente adeguato alla nuova comunicazione col versante fondano.
Questa interpretazione fornisce inoltre nel territorio della villa imperiale una più completa visione dell’antica topografia dei luoghi, dove l’abbondanza delle sorgenti che si univano al mare, mediate dai laghi costieri, giustificherebbero il nome di “acque” di Nettuno, poi prevaricato da quello della “Spelunca”, quando questa venne elevata a spettacolare ninfeo della villa di Tiberio, dove avvenne il catastrofico crollo che per poco non uccise lo stesso imperatore (Tacito, “Annales” IV, 59) riadattato ulteriormente arricchito con nuovo significato probabilmente dall’imperatore Domiziano.
Queste acquisizioni sull’antico, conferiscono legami ideali tra la villa di Tiberio e la catena di ville litoranee di cui eccelleva il territorio formiano, non di meno per le “piscinae” che nella “Spelunca”, oltre alle particolarità tecniche, la figura circolare rappresentava il circuito celeste dove le sbalordenti sculture sulle gesta di Ulisse si rapportavano in analogia a miti fissati nelle costellazioni.
Quanto all’attualità non resta constatare come a Formia agli irreparabili danni arrecati dalla via moderna, nulla è stato compiuto per recuperare l’enorme patrimonio da essa attraversato per risarcire il paesaggio almeno sul piano morale e culturale.
Le mie argomentazioni sull’antica via Flacca, sul paesaggio costiero originario e sull’interpretazione della Grotta di Tiberio, sono state pubblicate negli Atti del Convegno “Formianum” IX-2001, Caramanica Editore 2021, ISBN 978-88-7425-326-5 e presentate insieme al volume nel 2022, a Formia per l’Associazione Koiné presso l’Archivio Storico - Castello di Mola il 17 marzo, il 14 maggio per il Museo Civico – Castello Caetani di Fondi.
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DIDASCALIE DELLE IMMAGINI
1 – La Grotta di Tiberio e il tratto di costa attraversato dalla via realizzata dal Lucio Valerio Flacco.
2 – Il tratto litoraneo presso Sperlonga distinto dalla roccia “Bazzano”, antico confine di Formia.
3 – Un tratto dell’antica Flacca sostenuto con muro a secco sotto la falesia di monte “Vannelamare”.
4 – L’antica strada per il porto di “Caieta” presso S. Maria di Conca: oltre a destra la diramazione della “via Flacca”.
5 – Via Olivella sulla spiaggia di Vindicio, tratto terminale della antica “via Flacca”: a sinistra nel muro sono riutilizzati gli antichi basoli scuri della pavimentazione.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-22434261634542892892023-02-03T17:21:00.002-08:002023-02-03T17:30:50.465-08:00UNA VERTENZA CAVALLERESCA A FORMIA NEL 1910, OVVERO UN DUELLO MANCATO
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgZiVgrfmMo05Dwy61aKrP36fx2Ujvo_MJUgp92c2tzE26QIbJkWkdHWXySTIClbuVJ0slKfgIF41cGfOmXrEzJLlmfVYt6hWR524_Kt38F1WI-I_38qgsFkLIAjtytFEYRQlklmpeu4fkmKwMkpR9QBqxvVITcLW7NitM-yelu_8D4Tu_qQNey4Bjp/s800/10259780_700040743392848_6906101192110318570_n.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="514" data-original-width="800" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgZiVgrfmMo05Dwy61aKrP36fx2Ujvo_MJUgp92c2tzE26QIbJkWkdHWXySTIClbuVJ0slKfgIF41cGfOmXrEzJLlmfVYt6hWR524_Kt38F1WI-I_38qgsFkLIAjtytFEYRQlklmpeu4fkmKwMkpR9QBqxvVITcLW7NitM-yelu_8D4Tu_qQNey4Bjp/s400/10259780_700040743392848_6906101192110318570_n.jpg"/></a></div>
Nel 1908 una Banca di Formia, posta in liquidazione, aveva la necessità di acquisire il denaro contante derivante da crediti in essere. Il defunto signor Raffaele Forcina, aveva contratto un debito con la Banca di 18.000 lire, ipotecando una sua proprietà. Il signor Erasmo Scarpati, a conoscenza del debito, si offrì di pagarlo e di acquistare la proprietà. Quando la trattativa tra la Banca e lo Scarpati era già a buon punto, intervenne il signor Giovanni Lavanga, intimo amico dello Scarpati e zio degli eredi Forcina, debitori verso la Banca, convincendo lo Scarpati a desistere dall'acquisto. Erasmo Scarpati, galantuomo, confermando al Lavanga stima ed amicizia, ruppe ogni trattativa con la Banca.
Trascorsi due anni, la Banca era ancora in attività ed il debito Forcina ancora in essere. Segretamente il signor Giovanni Lavanga, intraprese una trattativa con la Banca per l'acquisto del credito ipotecario che due anni prima aveva fatto recedere al suo amico Erasmo Scarpati. Lo Scarpati venne informato del fatto e immediatamente si presentò in Banca offrendo senza trattare la somma necessaria per estinguere il credito ipotecario, ed acquistò l'intera proprietà. Giovanni Lavanga non digerì la perdita della proprietà Forcina, e dimentico della cortesia fattagli dallo Scarpati due anni prima, incontrandolo in un circolo dell'Unione, alla presenza di molte persone, lo ingiuriò con parole irriguardose e villane. Il 30 aprile del 1910, nello stesso Circolo il Lavanga rivolto all'ex amico Scarpati, in presenza di altre persone gli disse:
"Ti ho offeso, con l'intenzione di offenderti e, se vuoi, sarò domani a casa mia, in via XX Settembre, a tua disposizione".
La sfida era lanciata. Il 1° maggio, alle ore 18, Erasmo Scarpati invia i sigg. Carlo Paone e Alfredo Sciarretta, in qualità di portatori di sfida, a casa del Lavanga. Ricevuti i padrini di Scarpati, il Lavanga con voce spavalda esclamò :
"Accetto la sfida, e miei padrini verranno degli Ufficiali!"
L'art. 129 del Codice cavalleresco Gelli cita testualmente :
"I portatori di sfida devono evitare qualsiasi discussione con lo sfidato, onde eliminare qualsiasi motivo di provocazione o malinteso. Comunicata la sfida si ritireranno, lasciando allo sfidato col cartello il loro indirizzo e l'ora in cui riceveranno i rappresentanti dello sfidato".
Fu così che i padrini dello sfidante, senza aggiungere altro, tornarono dallo Scarpati per comunicare l'esito dell'incontro.
Il 2 maggio, giorno fissato per il duello i sigg. Paone e Sciarretta attesero inutilmente gli ufficiali che avrebbero dovuto impersonare i padrini del Lavanga, che non si presentarono all'appuntamento. Si attese inutilmente le ulteriori 24 ore come previsto dal Codice Cavalleresco Gelli, ma anche queste altre 24 ore trascorsero senza che i padrini del Lavanga si presentassero a quelli dello Scarpati. Alle ore 18 del giorno 3 maggio i sigg. Paone e Sciarretta, mandarono la seguente lettera a Erasmo Scarpati:
"Formia, 3 maggio (ore 19,00) Egregio Sig. Erasmo Scarpati - Città - In seguito al vostro deferente mandato ci recammo il giorno 1 maggio alle ore 18 dal sig. Giovanni Lavanga che incontrammo proprio sul crocicchio innanzi al suo villino, e potemmo comunicargli quanto ci avevate comunicato di fare... (...)... Infine ci dichiarò formalmente che accettava la sfida riserbandoci di metterci in comunicazione con i suoi rappresentanti, onde all'uopo noi gli indicammo il luogo del nostro ritrovo. Però, con non poca meraviglia, abbiamo atteso invano le rituali ventiquattro ore; ciò non ostante per nostra longanimità , attendemmo ancora altrettanto tempo inutilmente.. (...)... noi sottoscritti sentiamo il dovere di rassegnarvi il mandato, dichiarando che la condotta del Lavanga deve considerarsi un vero e proprio rifiuto alla sfida. Carlo Paone e Alfredo Sciarretta"
Fu così che Giovanni Lavanga, accreditato come famoso cavaliere venne meno alle disposizioni cavalleresche dell'epoca. In uno scritto, probabilmente fatto pubblicare da Erasmo Scarpati si legge:
"Ed è così che voi siete, o Lavanga, il continuatore delle gesta del vostro maestro don Chisciotte? Non sapete voi il termine stabilito in cavalleria perché alla sfida portata dai padrini dell'offeso si risponda con presentazione dei padrini dell'altra parte nelle 24 ore? Vergogna, vergogna! Ma vergogna maggiormente perché col vostro metodo cavalleresco avete fatto poco onore al vostro maestro! Vi fate dietro e venite meno alle regole cavalleresche, rifiutando di battervi! Avete rifiutato la partita d'onore, ma sarebbero stati più a proposito quattro sonori schiaffi! Almeno del nuovo don Chisciotte avremmo visto rosse le gote e la cavalleria sarebbe stato meglio che fosse giunta... a piedi!"
Così termina una "Vertenza Cavalleresca", con mancato duello, realmente accaduta in Formia nel 1910.
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Nelle immagini una veduta della contrada spiaggia con ingrandito il particolare dove era Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-64685731157023333702023-02-01T14:26:00.001-08:002023-02-01T14:26:07.902-08:00LA SACRALITÀ DEL MONTE ALTINO:
LE STATUE DEL REDENTORE E DELL’ARCANGELO MICHELE -
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjoA3bt1ELENA2RlgRSpKKTasEin9JMuRdhSYuBhXYrmN_1KHAujQsAI1CZlvTwyfmwkql34872e6aMgLOXgaUp6RBTRNguxNPQLfKCbqD20ynTJVgR9eKVigalnryfwRFX7ECBeE7vPUgj4VGcQzDvH6R4r31zELlzik-9Cm2ksJeFnxG4sxrDh4v0/s353/1.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="256" data-original-width="353" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjoA3bt1ELENA2RlgRSpKKTasEin9JMuRdhSYuBhXYrmN_1KHAujQsAI1CZlvTwyfmwkql34872e6aMgLOXgaUp6RBTRNguxNPQLfKCbqD20ynTJVgR9eKVigalnryfwRFX7ECBeE7vPUgj4VGcQzDvH6R4r31zELlzik-9Cm2ksJeFnxG4sxrDh4v0/s400/1.jpg"/></a></div>
Sabato 28 gennaio a Marànola, nella chiesa della SS. Annunziata, ho partecipato come relatore alla presentazione del libro “L’autore della statua” curato dall’amico da Gerardo De Meo, il quale da molti anni conduce studi sul patrimonio del suo paese con la competenza e la tenacia di stimato artista. Egli ha così tratteggiato le vicende del monumento sulla vetta del monte Altino, della cui imponente statua di ghisa di Gesù Redentore ha identificato lo scultore rimasto occultato per oltre cento anni: era Vincenzo Morricone (1855 – 1922), cittadino di Arpino, che lavorava per conto della ditta Rosa, Zanazio e C. di Roma, finora unica riconosciuta realizzatrice della scultura.
Il convegno è parte del calendario dell’anno giubilare in onore di San Michele compatrono di Marànola, la cui statua di pietra alta meno di un metro, comunque gravosa, dal paese viene condotta con la tradizionale “Scalata” a permanere d’estate nel suo santuario sul monte Altino a 1100 metri d’altitudine. Logico è stato quindi contemplare anche un approfondimento su questa statua ben più antica e leggendaria, accomunata all’altra nell’essere stati ignoti gli autori e per identificarsi nel ristretto ambito della significativa cima del monte Altino; ho qui già scritto due post sull’argomento (giugno e settembre 2021) che qui focalizzo su ulteriori acquisizioni.
La considerazione sacrale di questo monte risale certamente alla remota Antichità, poiché i suoi profili salienti a più mille metri incentrati all’inconfondibile vetta a forma di capo e in antitesi alla cavità costiera impongono una apparenza emblematica: insieme alla penisola di Gaeta furono certamente distintivi all’identificazione degli approdi.
Il nome “Altino” risale alle pergamene altomedievali relative un oratorio di San Michele presente nell’anno 830 e che nel 978 si specifica cenobio “in cilio montis qui vocatur de altino” e cioè “sul ciglio del monte che chiamano di altino”, dove Altino appare determinato come appellativo di una divinità.
È attendibile che in epoca romana quel monte possente fosse così indicato come sede del massimo dio Giove: una iscrizione formiana menziona consacrato ad egli un “lucus”, ossia un particolare bosco da individuare in quella zona in passato estesamente alberata.
Altino si ritrova come paese in provincia di Chieti, a circa 350 di quota e dove è anche un sito di Sant’Angelo, mentre la città di Quarto di Altino si riferisce ad “Altinum”, una città portuale al limite della piana veneta a circa due metri sul livello del mare, nome dunque che non si rapporta all’altitudine dei luoghi.
La “Altinum” romana rimanda la denominazione alla sua omonima e massima divinità con un santuario e un “lucus”: era “Altno” di origine venetica e di non chiara identità, ma per suprema importanza usata come “epiclesi” di Giove. Ciò appare estraneo per distanza dei territori e culture, senonché il popolo degli Aurunci, chiamati Ausoni dai Greci, sono ritenuti appartenenti a quelle popolazioni indoeuropee del gruppo dei Latini-Falisci e proprio dei Latini-Veneti migrate nella Penisola nel primo millennio a. C.; dunque da “Altno” ad “Altinum” romana, risalirebbe l’indicazione di queste vette del territorio degli Aurunci.
Sul monte Altino il cenobio di San Michele si trovava nell’ampio speco grondante perennemente acqua e sicuramente già protetta da una divinità pagana, ciò che certamente ha motivato l’imposizione dell’Arcangelo per purificare il luogo e sempre presente laddove caverne e burroni potessero richiamare gli inferi e la manifestazione del demonio. Dell’originaria costruzione nulla è rimasto; essa con pochi muri doveva chiudere le parti più basse dell’anfratto, per l’oratorio e per il rifugio dei monaci.
l’edificio di culto giunto nella sua ultima forma settecentesca, proteso con cupola però assai degradato, sullo scorcio del 1800 venne avviato a rifondazione dall’intraprendente monsignor Ruggiero arciprete di Marànola: fu ispirato al Santuario di San Michele del Gargano, chiudendo parte dell’anfratto con una piccola facciata neogotica di pietra intagliata ed inaugurato nel 1895.
Contestualmente si provvide al restauro della statua di San Michele di cui il Ruggiero identificò la pietra col peperino dei colli Albani. Venne portata a Roma alle cure dello scultore Giuseppe Blasetti (1826 – 1908) il quale, accreditando la remota tradizione locale, la stimò risalente all’età romana tarda o all’alto Medioevo e adattata alla figura dell’Angelo.
Evidente è l’abbaglio, poiché l’impostazione della scultura è palesemente risalente all’età “moderna” e cioè dalla fine del 1400 ad almeno il 1600 e pertanto concepita dall’inizio come immagine di San Michele, confrontabile con la più pregevole statua venerata sul Gargano, di simili dimensioni e realizzata in marmo dall’insigne Andrea Sansovino nel 1507.
In questa evidenza sulla base, oltre ad uno stemma e alla traccia dell’epiteto “Angelus / Victor”, è indicativa la sigla “P F” riconducibile a Pompeo Ferrucci, nato a Fiesole nel 1565, artista presente a Roma dal 1605 con una caratterizzata produzione nella ingente decorazione agli inizi del Barocco, iscritto all’Accademia di San Luca nel 1607 e morto nel luglio 1637. Si confronta così il San Michele con varie sue opere, anche ugualmente siglate, di cui la Madonna col Bimbo in marmo di circa il 1630 sull’ingresso del convento delle Maestre Pie in via delle Botteghe Oscure, appare con medesime modeste dimensioni, arti tozzi e segnatamente nella postura con la gamba sinistra rialzata su una pietra.
Il peperino dei Colli Albani di cui è fatto il San Michele fa risaltare la sicura presenza del Ferrucci a Frascati con l’altorilievo marmoreo “La consegna delle chiavi”, firmato e datato 1611 e destinato alla Basilica Vaticana, ma poi adattato alla cattedrale suburbicaria di San Pietro tra aprile e maggio del 1612; nella stessa Frascati sono a lui ricondotti anche dei busti classicheggianti di peperino all’esterno di alcune ville gentilizie.
La data del 1612 si compara a quanto riferisce il Ruggiero dei lavori per il nuovo santuario, dove sulla parete esterna all’attuale altare di Maria Ausiliatrice comparve sull’intonaco la scritta impressa a fresco “fatta nel 1612”. Questa collimazione di date induce a ritenere lavori di rifacimento nella chiesa rupestre contestuali la nuova statua, di cui il peperino sebbene non pregiato si prestava per resistenza all’umidità e al gelo.
Questa circostanza evidenzia la figura Pedro de Onã, vescovo di Gaeta dal 1605 al 1626. Nato a Burgos nel 1560 e voluto a Gaeta da Filippo III di Spagna, era già stato collaboratore e Assistente al Soglio di Papa Paolo V, il committente dell’altorilievo poi adattato a Frascati, potendo perciò aver conosciuto il Ferrucci.
A Gaeta egli si distinse come costruttore, zelante verso i competenti uffici vaticani e in attrito con i magistrati civici: eresse la chiesa di San Carlo Borromeo, consacrato quella di San Giacomo nel Borgo e atteso a lavori nella cattedrale in parte a sue spese, tra cui il succorpo. In questa attività di incentivazione degli edifici ecclesiastici è altamente probabile il suo diretto intervento in una azione di recupero della chiesa sul monte Altino e della collocazione del relativo nuovo simulacro di peperino, probabilmente nel 1612.
Riguardo al trasporto della statua, si devono considerare gli scambi commerciali tra Gaeta e Roma via mare e poi sul fiume, tra i quali è documentata la destinazione al Porto di Ripetta delle olive in salamoia e dell’olio.
La statua dell’Arcangelo Michele, dimostrata opera di Pompeo Ferrucci, si svela come vera e propria testimone del paesaggio, cioè della complessa stratificazione culturale relazionata agli aspetti naturali di questo territorio; da essa si è risalito a remote epoche evidenziando nel segno di religioni diverse la considerazione dell’uomo verso il divino, alla fede, che ora accompagnano tradizioni e identità.
Come ha sottolineato il parroco Don Giuseppe Sparagna, queste acquisizioni non infrangono la memoria popolare, al contrario ne aumentano il valore nel vissuto di generazioni di credenti che attraverso quella statua hanno elevato preghiere e ricevuto grazie. La stessa conferenza, nella sobria chiesa trecentesca, con il folto e attento pubblico di fedeli, al cospetto del celebrato simulacro dell’Arcangelo e in riguardo al monumento del Redentore, si è avvertita come partecipato tributo di devozione.
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DIDASCALIE DELLE IMMAGINI
1 – La prevalente sagoma del Monte Altino, risaltato nella cavità del golfo chiuso dalla penisola di Gaeta.
2 – La facciata del Santuario inaugurato nel 1895, in sostituzione di una cappella esterna con cupola.
3 – L’uniformità dei canoni compositivi tra la statua di San Michele dell’Altino e quella del Gargano, scolpita da Andrea Sansovino nel 1507.
4 – Rilievo dei contrassegni alla base della statua di San Michele, dove la sigla “P F” riconduce allo scultore Pompeo Ferrucci (1565-1637).
5 – Le simili proporzioni e la particolare postura delle gambe delle statue di San Michele e della Madonna con il Bimbo di Ferrucci (1630) in Roma.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-23227537700632156252023-01-23T13:03:00.003-08:002023-01-23T13:03:58.130-08:00IL VASO DI SALPIONE RINVENUTO A FORMIA
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgf0JMz_Lryz0tWfVQbII0sK1pMhi9govCaFD3Fh8-dY00IHj7E5aPLBQvLZe1dvU9N2lRbrM-vS0cxdehLoD7vC-ZxdsYczpYWz13wZTR1bM-ZipkyMIVA9Wupnajnx8vWI0UWISWM6p9_TqF0Ecuh28J2wHzqfGeku6Y2MoA-JhMH95cBzoV1hbv8/s800/644369_798492920214296_3000397113158252164_n.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="578" data-original-width="800" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgf0JMz_Lryz0tWfVQbII0sK1pMhi9govCaFD3Fh8-dY00IHj7E5aPLBQvLZe1dvU9N2lRbrM-vS0cxdehLoD7vC-ZxdsYczpYWz13wZTR1bM-ZipkyMIVA9Wupnajnx8vWI0UWISWM6p9_TqF0Ecuh28J2wHzqfGeku6Y2MoA-JhMH95cBzoV1hbv8/s400/644369_798492920214296_3000397113158252164_n.jpg"/></a></div>
Tra i più importanti reperti archeologici rinvenuti a Formia c’è sicuramente un enorme vaso risalente al primo secolo a. C., opera di Salpione l’Ateniese, di scuola neoattica, corrente artistica sviluppatasi ad Atene nel tardo periodo ellenistico, sec. II-I a. C.; oltre a Salpione vi aderirono altri scultori come Callimaco, Cleomene, Apollonio. L’enorme vaso in tutta la sua superficie scolpito in rilievo, rappresenta l’educazione di Dioniso-Bacco, descrivendo Leucotea che da sopra una rupe, riceve Dioniso-Bacco infante dal dio Ermes-Mercurio. Nella scena compaiono Satiri e Baccanti che danzano al suono di timpani, flauti e altri strumenti. In alto si nota una epigrafe in lingua greca dove si legge che l’opera fu eseguita dallo scultore greco Salpione: “Salpione Ateniese fece”, nella sua traduzione letterale. Il vaso fu rinvenuto su una spiaggia di Formia da alcuni pescatori. Non fu apprezzato per il suo valore storico e venne usato come ancoraggio per le barche, usurandone l’aspetto e in parte danneggiandolo, al di sotto del mento e delle figure scolpite, come si evince dalle orme e dagli incavi, prodotti in varie parti dall’attrito delle gomene. É molto probabile che questo vaso appartenesse ad un tempio dedicato a Dioniso-Bacco, esistente, verosimilmente a “Formiae” e che fosse utilizzato forse per la conservazione delle acque lustrali, usate nei riti di purificazione in uso presso gli antichi Romani. Le feste lustrali erano cerimonie purificatrici, celebrate a Roma ogni cinque anni, durante le quali si sacrificava agli dei e si purificava il popolo aspergendolo con la stessa acqua lustrale che era destinata alla vittima del sacrificio.
Il vescovo spagnolo Pietro VII de Oña, sulla cattedra gaetana dal 1605 al 1626, profondo conoscitore ed appassionato di archeologia, notò il vaso e lo fece trasportare nella cattedrale di Gaeta, per utilizzarlo come fonte battesimale. Adagiato sopra un gruppo marmoreo formato da quattro leoni disposti sulle diagonali di un quadrato risalente al XIII secolo, per quasi due secoli quest’opera pagana fu usata dalla chiesa cattolica. É singolare ritrovare un medesimo uso di un manufatto (la conservazione dell’acqua sacrale) in diverse situazioni religiose. Nel culto cattolico l’acqua benedetta viene utilizzata per l’aspersione dei fedeli nel corso delle celebrazioni liturgiche e richiama direttamente la dignità battesimale di ogni credente, che rinasce a nuova vita e viene innestato nella vita di Cristo e della Chiesa. Nel 1805 il Vicario apostolico di Gaeta Giuseppe Iannitti fece trasferire nel Real Museo Borbonico l’opera di Salpione e fece sostituire il fonte battesimale con una vasca neoclassica. Nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, si può oggi ancora ammirare in tutto il suo splendore questo bel monumento dell’arte greca.
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Nelle immagini: due incisioni del vaso con lo sfondo della torre di Mola e della veduta di Gaeta, eseguite su lastra di rame all’acquaforte, disegnate dal vero ed acquerellate a mano da Francesco L’Aquila, sono tratte dal volume: “Raccolta di vasi di diversi formati da illustri artefici antichi”, pubblicato a Roma nel 1713 da Lorenzo e Domenico de Rossi. il vaso adagiato sopra il gruppo marmoreo dei quattro leoni ed infine come venne rappresentato nel volume catalogo, di Domenico Monaco, del Museo di Napoli edito a Napoli nel 1895.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-50012515164152073932023-01-07T18:14:00.003-08:002023-01-07T18:14:53.513-08:00LA SPIAGGIA DI SARINOLA E LA PESCA DELLE PINNE NOBILIS
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjhXMe34qwS7HkXVmVTFdR8AnrXZ0VSOl-YAPCkRIk3ldl6D7CBegeCofJLQoKJtDn8WZMdjQ8MNBaqIqX7-Bbr0W5IYOA4VGlB-bvzxHP9mQUJLM22eXdMBRoZ-8YY6FzdkeHC89Lizo7feT1qqUmFNVaj79R72sARbXHAafmfUe-_sGOf-P3hoGp1/s1200/001.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="543" data-original-width="1200" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjhXMe34qwS7HkXVmVTFdR8AnrXZ0VSOl-YAPCkRIk3ldl6D7CBegeCofJLQoKJtDn8WZMdjQ8MNBaqIqX7-Bbr0W5IYOA4VGlB-bvzxHP9mQUJLM22eXdMBRoZ-8YY6FzdkeHC89Lizo7feT1qqUmFNVaj79R72sARbXHAafmfUe-_sGOf-P3hoGp1/s400/001.jpg"/></a></div>
La spiaggia di Sarinola, prima che l'imbonimento realizzato per il passaggio della Litoranea la facesse scomparire, era una piccola darsena che veniva utilizzata da poche barche e giovani bagnanti nella bella stagione.
Il mio pensiero si ferma ad un ricordo di quando ero un ragazzino e mi recavo a Sarinola con altri compagni. Il mare allora era limpido e balneabile e noi oltre a fare il bagno pescavamo le pinne nobilis, le più grande conchiglie bivalve del Mediterraneo, che chiamavamo “ventagl” e che abbondavano nelle acque basse e pulite del porto. Aperta la conchiglia, che poteva arrivare a misurare anche 60 – 80 cm, veniva svuotate del frutto, che non era commestibile, e venduta ai pittori locali che la utilizzavano decorandola con la loro pittura.
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Nelle immagini una rara fotografia della piccola darsena risalente all'inizio degli anni Cinquanta e due fotografie della pinna nobilis, fuori e immerse nel fondo marino.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-54618634628551107852022-12-28T18:30:00.000-08:002022-12-28T18:30:12.136-08:00https://www.youtube.com/watch?v=2Rk-P_9xlfc<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><iframe class="BLOG_video_class" allowfullscreen="" youtube-src-id="2Rk-P_9xlfc" width="400" height="322" src="https://www.youtube.com/embed/2Rk-P_9xlfc"></iframe></div>Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-2366853619648379978.post-46951285634290979702022-12-10T14:42:00.001-08:002022-12-10T14:42:25.000-08:00IN MERITO AD ALCUNI COMMENTI SULLA “TOMBA DI TULLIOLA” -
di Salvatore Ciccone
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIYQCP75U9FSchkI6y4pOBJMSk0wIYTSDIImwIEH_U0Nk5bvqca3CdictIqjsG8QpuyBk81qX88_aKpa1iy9GFbfWP6dscrBQWioPICEPD19oaUbxSEaxCZDvUCnM7Jh69fy2VB_pGYo5hnAG5m5U-QCaAind4K599YIaX9VakNw0CZ5vHJQEYyUOO/s640/1.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="640" data-original-width="480" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiIYQCP75U9FSchkI6y4pOBJMSk0wIYTSDIImwIEH_U0Nk5bvqca3CdictIqjsG8QpuyBk81qX88_aKpa1iy9GFbfWP6dscrBQWioPICEPD19oaUbxSEaxCZDvUCnM7Jh69fy2VB_pGYo5hnAG5m5U-QCaAind4K599YIaX9VakNw0CZ5vHJQEYyUOO/s400/1.jpg"/></a></div>
Dopo la pubblicazione dell’articolo “Indagini sulla “Tomba di Tulliola” si sono avuti dai lettori due soli “commenti” espressi in immagini. Mentre ringrazio tutti coloro che seguono le mie argomentazioni, lo sono di più a questi stessi che hanno così voluto essere partecipi, poiché mi permette di sottolineare e meglio definire due diversi aspetti della questione.
La prima immagine (da Emilio Sparagna) riguarda la forma architettonica del monumento, consistente in una ricostruzione in altezza d’uomo, realizzata in giardino con materiali lapidei e in cotto di una delle “torri” ottagonali con il relativo podio. L’esecuzione è accurata ed anche corretta nella semplificazione schematica delle modanature, nonché nel restituire l’effetto bicromo della cortina della torre con fasce alternate di “opus reticulatum” a fasce di “opus testaceum”, ossia di cotto.
In realtà si tratta di una singola parte di un complesso funerario più articolato di epoca tardo repubblicana, che già vedeva due torri abbinate a comprendere un’area riservata dove sul muro di fondale e di generale contenimento contro pendio doveva essere posta la statua muliebre ora esposta nel Museo di Formia.
Di poi la torre è stata riproposta con limitata altezza, credo per motivi di opportunità, risultando equiparata al podio e coperta da basso tetto. A ciò devo far notare come nel monumento si volesse richiamare propriamente delle torri a protezione di quell’area compresa, quasi quelle poste ai lati di una porta urbica. A conferma di ciò basta confrontare l’esempio singolo della “Torretta” sulla via Appia in località S. Remigio, di epoca imperiale, dove si può constatare la preponderante altezza scandita da “opus vittatum”, ossia da fasce di blocchetti calcare e cotto. Quanto al tetto si deve immaginare come le tegole di bordo avessero “antefisse” cioè rialzi figurati che visti dal basso coprivano il tetto e che verosimilmente dovevano richiamare il coronamento di una torre.
La seconda immagine (da Mario Mirco Mendico) ritaglia una pagina di un antico libro con testo in latino senza specifica bibliografica. Si tratta dell’opera di Raffaele Volaterrano, il “Commentariorum Urbanorum ecc.” edito a Basilea nel 1530, dove alla pagina 233 del libro XX, nel riportare notizie della vita di Cicerone accenna alla figlia “Tulliola” e alla sua prematura morte, quindi del ritrovamento del suo sepolcro attestato da epigrafi presso la sesta pietra miliare della via Appia in prossimità di Roma. Purtroppo ciò non cambia nulla rispetto a quanto detto nella lettera di Bartolomeo Fonte pubblicata nel mio articolo. Tale documento si presenta il più attendibile e dove si specifica con rammarico l’assenza di qualsivoglia epigrafe per identificare la mummia di giovane donna trovata in una cripta sul medesimo sesto miliare.
Ritengo comunque che il deciso cenno al ritrovamento di epigrafi riferite a Tulliola sia la prova di due diversi avvenimenti circa coevi, confusi nelle trascrizioni della seconda metà del 1400 e poi cristallizzati nelle prime opere a stampa.
Resta quindi in sospeso il problema di una duplicità dove si deve anche annoverare quanto riferito da Celio Rodigino in “Antiquae lectiones”, pubblicate nella stessa Basilea ma nel 1516, che tale ritrovamento venne fatto sulla via Appia davanti la Tomba di Cicerone, mai esistita nei pressi di Roma, bensì saldamente attestata nel nostro territorio come del resto quella ritenuta di Tulliola.
Devo quindi essere grato a questi contributi dei lettori che evidenziano l’amore verso il nostro paesaggio, risorsa delle future generazioni cui però si deve far gara nella difesa con l’imposizione di diverse e illegittime finalità, non ultime e attuali di personali immeritevoli affermazioni nella scalata del potere.
<div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBRewxY6gR4zfvg7BJhjsferP7aPREiFWnQtqY3Agr7_jkOWWrz4Eq6IwX1x_f9vlqWCItzIYVUCov4fXDK1bApn7CEsr2_DjjKZpo7pLMUOFvibfYkrpQRA-_17qTkqm2AyKn3hEi7uii0G764v60MEm2d1TJBArsu3tYonOobT31OwRF51q3szBv/s885/2.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="675" data-original-width="885" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBRewxY6gR4zfvg7BJhjsferP7aPREiFWnQtqY3Agr7_jkOWWrz4Eq6IwX1x_f9vlqWCItzIYVUCov4fXDK1bApn7CEsr2_DjjKZpo7pLMUOFvibfYkrpQRA-_17qTkqm2AyKn3hEi7uii0G764v60MEm2d1TJBArsu3tYonOobT31OwRF51q3szBv/s400/2.jpg"/></a></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiGmlnaRcKHW3s4C4ig_ZdIO5DS1umbqOJ5qMKi-4qQHkw0NPRnnvcD9JodKX6VYDDsg4dIeT1O1AMq25mLqzVLQSLohOOYnMI8839wc6nutXQIO5jLPqcEvJ9hL3cj2XyUxAhsB1ykK3z-kMQ501-MVp_tb23b_WaIHW-gL7AMsT8GZu72tIiyPPG2/s497/3.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" width="400" data-original-height="421" data-original-width="497" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiGmlnaRcKHW3s4C4ig_ZdIO5DS1umbqOJ5qMKi-4qQHkw0NPRnnvcD9JodKX6VYDDsg4dIeT1O1AMq25mLqzVLQSLohOOYnMI8839wc6nutXQIO5jLPqcEvJ9hL3cj2XyUxAhsB1ykK3z-kMQ501-MVp_tb23b_WaIHW-gL7AMsT8GZu72tIiyPPG2/s400/3.jpg"/></a></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXWPXXpXT-xIzU9ObEVWpeaTgkPARjmWSeGe-S_UCisXFtIkqzZZMU-kjVMskb9FR4p0p3UAxgmoPEtv4vjgBHR1UjUL25THEbGkAqwFkGp-QsV9o8b32302xJegii28lpfVD2elwI4kRmj2S7oQ26MtgwHcMX1kHrYyqODugIPlID8-epXVVI8FeH/s736/4.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="736" data-original-width="538" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXWPXXpXT-xIzU9ObEVWpeaTgkPARjmWSeGe-S_UCisXFtIkqzZZMU-kjVMskb9FR4p0p3UAxgmoPEtv4vjgBHR1UjUL25THEbGkAqwFkGp-QsV9o8b32302xJegii28lpfVD2elwI4kRmj2S7oQ26MtgwHcMX1kHrYyqODugIPlID8-epXVVI8FeH/s400/4.jpg"/></a></div><div class="separator" style="clear: both;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg0VYtW9vh8QQBGaWh3U4U5ew-Mg4GNCFPuIE_vaseWBbidNgTcpAbzkFXhH75hlrcWIoJSo_f2A_eWT1tWi04-oQALfGj1eUI-RmAYsR1CSTNlxy9ZGaQxO87P6q-f_nnNYVcIT-gfz6jS6JtW2j4MY6XAz8yKUqnMgWWqvn3RvsdKLMjXHrJmADDK/s713/5.jpg" style="display: block; padding: 1em 0; text-align: center; "><img alt="" border="0" height="400" data-original-height="713" data-original-width="548" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg0VYtW9vh8QQBGaWh3U4U5ew-Mg4GNCFPuIE_vaseWBbidNgTcpAbzkFXhH75hlrcWIoJSo_f2A_eWT1tWi04-oQALfGj1eUI-RmAYsR1CSTNlxy9ZGaQxO87P6q-f_nnNYVcIT-gfz6jS6JtW2j4MY6XAz8yKUqnMgWWqvn3RvsdKLMjXHrJmADDK/s400/5.jpg"/></a></div>
Didascalie delle immagini
1 – La ricostruzione in dimensioni ridotte di una delle torri della Tomba di Tulliola (Emilio Sparagna).
2 – La “Torretta” sulla via Appia presso S. Remigio, particolare da un disegno di Carlo Labruzzi del 1789 (Bibl. Ap. Vaticana).
3 – La medesima “Torretta” oggi impropriamente fatta ricoprire da piante decorative senza intervento delle autorità.
4, 4 bis– La pagina del testo e frontespizio dell’opera di Volaterrano, riferita al ritrovamento del sepolcro di Tulliola vicino Roma.
Renatohttp://www.blogger.com/profile/10977467081151286361noreply@blogger.com0