mercoledì 28 agosto 2024

IL NASO SCHIACCIATO DELLEL DONNE DI MOLA DI GAETA

L’intellettuale ed astronomo francese Josep Jérôme Lalande (Bourg Bresse 1732 – Parigi 1807), nel 1765, intraprende un Grand Tour in Italia. Da questo viaggio ne trae una straordinaria esperienza che gli consente di pubblicare il suo “Voyage d’un françois en Italie”, dove descrive il resoconto delle sue impressioni sul nostro patrimonio archeologico, artistico e sui costumi degli italiani. Nel trasferimento da Roma a Napoli Lalande si ferma a Mola di Gaeta (oggi Formia), dove la città gli si presenta con uno scenario superbo, ma quello che più sorprende la sua ammirazione sono: “… le donne del paese, vestono dei ricchi costumi, sono grandi, ben fatte, colorite, ma hanno un terribile difetto: il naso schiacciato. La loro pettinatura è elegante: portano i capelli intrecciati con nastri che fanno passare dai lati dietro il capo, ove li fermano intrecciati con grazia.” Lalande fu direttore dell'Osservatorio astronomico di Parigi dal 1795 e nel 1801 e a lui si deve la compilazione del: “Histoire Céleste Française”, un catalogo astrometrico stellare. Questo catalogo comprende le posizioni e le magnitudini apparenti di 47 390 stelle, e le osservazioni di altri fenomeni astronomici. Era il più grande e completo catalogo di stelle mai pubblicato prima. Nelle immagini un raro disegno di Pasquale Mattej di una donna di Mola di Gaeta con il “naso schiacciato”, una litografia di una pettinatura con i capelli intrecciati dietro il capo ed un ritratto dell’astronomo realizzato dal pittore Jean Honoré Fragonard nel 1769.

mercoledì 3 luglio 2024

IL MOLO DI CICERONE A FORMIA - di Salvatore Ciccone
Nello studio della topografia di Formia antica, il rilevo delle strutture marine sommerse è di fondamentale importanza, ma arduo nell’esecuzione e spesso di problematica interpretazione. Infatti mentre il mare allora costituiva un elemento prevalente nella vita e nella forma della città, ingresso privilegiato nel porto e fronte scenografico rappresentativo, ne ha poi celato le costruzioni disgregate in lunghi secoli di stravolgimenti e di abbandono, cosicché oggi, oltretutto in una cambiata concezione urbanistica, di queste costruzioni è persino insospettabile l’esistenza. È questo il caso che si presenta nello specchio acqueo della spiaggia di Vindicio, da più di cento anni eletto al godimento balneare e più recentemente in parte devoluto agli sport velici, caso palesato nell’indagine che dai primi anni 1980 ho condotto sulla costa tra Formia a Sperlonga riguardo alle ville costiere oltre che sul porto urbano. Sul fondale antistante l’estremità occidentale del lido, in corrispondenza della foce del rio Pontone, si trovano strutture di minima entità, rarefatte e scompaginate, dove tuttavia diversi elementi per grandezza e posizione non possono avere provenienza torrentizia. Con questi ho pertanto individuato un primo allineamento traversale alla costa in direzione sud-est, con inizio presso una scogliera artificiale a circa m. 60 ad occidente del torrente e termine a m. 80 ad una profondità più o meno di m. 2; di qui un secondo allineamento procede quasi parallelo alla riva verso est-nord-est per circa m. 60: accostato alla scogliera si presentava un blocco cementizio (lunghezza m. 3,0, larghezza m. 1,40), disperso con parte del frangiflutto di origine antica in recenti trasformazioni balneari; altri blocchi sono sparsi e frammentati all’interno dell’area delimitata e uno si trova all’estremo del secondo allineamento. In prossimità del “gomito” ho rilevato un frammento murario con cortina in “opus reticulatum” a filari alterni di calcare e di tufo (lato elementi cm. 7,5-8,5) e un agglomerato cementizio a frammenti testacei recante un settore di ghiera d’arco composta da pezzi regolari di “tegulae”. Le caratteristiche strutturali e la dislocazione si identificano per quelle di un molo costituito da “pilae”, ossia piloni ed archi, modalità sviluppata dai Romani per facilità esecutiva e per mantenere la circolazione dei flutti contro l’insabbiamento: il raggio dell’arco valutato in 6 piedi romani (m. 1,77) si rapporta alla lunghezza del pilone presso la riva, pertanto in pianta ai piloni rettangolari vi dovevano essere volte o “campate” quadrate. Rilevante, verso l’estremo dei resti, un cippo di pietra cilindrico con base prismatica sbozzata (diametro m. 0,30 e altezza totale m. 0,96 pari ad uno e tre e piedi romani), che si presenta idonea come bitta d’ormeggio. Sono anche da segnalare frequenti elementi di pietra squadrata di contenute e variabili dimensioni, riconducibili ad un lastricato congeniale al molo. Il sito è ideale, al riparo del promontorio di Gaeta e trovandosi appena ad oriente dell’incrocio la via Canzatora, collegamento antico tra la via Appia e quella litoranea ricondotta a Lucio Valerio Flacco, costituendo un importante approdo per le vicine “villae” litorali e di più per il bacino agricolo oggi facente capo ad Itri, particolarmente finalizzato alla coltivazione dell’ulivo e della vite. Delle ville, una si evidenzia rispondente al “Formianum” di Cicerone dalle indicazioni ricavabili dagli scrittori classici e in particolare a quella ritenuta romanzata di Plutarco (Cicerone, II, 47), dove si dice che quegli fuggito da Roma si imbarcò a Gaeta, ma respinto dal mare cattivo, era il 7 dicembre del 43 a.C., fu costretto a riprendere terra per recarsi nella sua villa e qui raggiunto e ucciso dai mandatari di Marco Antonio. Questo fatto evidenzia la prossimità della villa ad un approdo, così come è questo di Pontone ai resti di una residenza in proprietà Lamberti, estremità costiera della striscia di terra che sull’Appia reca il sepolcro tradizionalmente attribuito a Cicerone. L’esistenza di un vicino approdo risalta allorché Cicerone comunica all’amico Attico (I, 4) l’arrivo di statue da quello procurate per decorare la villa. Vanno poi menzionati i resti di strutture anche voltate, inglobate oggi in un parcheggio, già vigneto prima della moderna via litoranea, ma che sono affiorate nel 2009 in scavi preventivi sulla strada condotti dalla Soprintendenza, riconducibili ad una logistica portuale di molteplice funzione e provvisti anche di decorazioni: non va infatti trascurato come un approdo così strutturato potesse avere sacelli sacri a scopo propiziatorio e uffici per il magistrato addetto alla registrazione daziaria del movimento delle merci; queste strutture erano evidentemente protette dall’antica scogliera. A queste evidenze già variamente pubblicate, sebbene non considerate anche nei recenti lavori di adeguamento del lungomare, ho avuto oggi l’occasione di scoprire le tracce di un ulteriore molo sul versante di levante, consistenti in resti di almeno tre “pilae” rettangolari venute in luce per effetto di una recente erosione, poste a raso del fondale e di più ridotte dimensioni, su allineamento ortogonale al lido al confine dei circoli velici Vela Viva e Officina dei Venti, fino a circa m. 30 dalla riva. Ora si viene ad evidenziare come lo sbocco del torrente si trovasse al centro dell’infrastruttura, circa m. 60 dai rispettivi moli, quello di sopraflutto, adeguatamente coincidente a questo di levante di sottoflutto, forse più esile. Appare come il corso d’acqua e l’infrastruttura fossero reciprocamente interrelati: certamente i moli riparavano la foce riducendo l’impatto dei marosi, quindi il flusso d’acqua dolce avrebbe favorito il depositarsi dei sedimenti fuori dai moli, però nell’entità originaria di un copioso ruscello perenne e dalle piene “pulite”. Questa presenza archeologica è purtroppo compromessa nella sua lettura, da quando sullo scorcio degli anni 1970 venne in parte sepolta da fanghi rossi di una industria di Itri scaricati nel rio, quindi da varie trasformazioni del lido, primo il ripascimento degli anni 1980. Alla possibilità di una campagna subacquea di rilievo e di scavo, auspicabile nel più ampio contesto monumentale della zona, è suggestivo immaginare l’attività antica di un porto, merci e persone tra le quali le statue greche per la vicina villa di Cicerone ed egli stesso nel ripararsi dalla cieca violenza di Marco Antonio in quell’episodio nodale per la storia di Roma.
Bibliografia S. Ciccone, Indicazioni sul “Formianum” di Cicerone presso l’Appia, “Lunario Romano” XII -1983, pp. 527-538. Idem, Aggiornamenti sulla topografia del “Formianum” di Cicerone, “Formianum” Atti I-1993, pp.43-53. Idem, Osservazioni sull’architettura della tomba di Cicerone a Formia, “Formianum” Atti IX-2001, pp. 11-38. N. Cassieri, Contributi per una migliore conoscenza del territorio di “Caieta”, “Formianum” Atti IX-2001, p. 62.
Didascalie delle immagini 1 – Mappa del sito con in rosso il profilo delle strutture portuali desunto dai resti (Ciccone 1993-2024). 2 – Frammento sommerso di ghiera di un arco di collegamento tra i piloni del molo (Ciccone 1993). 3 – Blocco di muratura sommerso in “opus reticulatum” (stecca m. 1 e freccia a nord; Ciccone 1993). 4 – Probabile bitta d’ormeggio di pietra sul fondale (stecca m. 1 e freccia a nord; Ciccone 1993). 5 – Strutture venute in luce nel 2009 alla radice del molo di sopraflutto (da Cassieri 2009).

giovedì 20 giugno 2024

SAN GIOVANNI BATTISTA A FORMIA: LA STATUA E I LUOGHI DI CULTO - Salvatore Ciccone
Nel rione Mola, già borgo sorto nel Medioevo presso l’antico porto di Formia, la venerazione verso San Giovanni Battista ha come tramite una pregevole statua lignea (fig. 1), la cui origine intreccia storia, tradizione e due chiese del tutto scomparse. Si tramanda che un contadino di Castellone, il borgo alto di Formia, sul lido orientale recuperò un tronco spiaggiato come ceppo da ardere, ma il legno misteriosamente riportatosi tre volte nello stesso luogo nonostante l’ostinazione del villico, la quarta volta si ritrovò davanti al portone della chiesetta di San Giovanni Battista nella parte più bassa del borgo. Il prodigio venne intrepretato come una volontà del Santo e perciò il legno inviato ad un valente artista di Napoli per realizzarne una statua, la quale giunse via mare e in solenne processione condotta nella chiesa. Recentemente ho potuto individuare il probabile autore del simulacro in Giuseppe Picano, celebre scultore nato a Napoli nel 1716 ed ivi operante morto ultranovantenne; pertanto i fatti tramandati sarebbero avvenuti nel ‘700. Tuttavia nello stesso secolo viene anche fatta risalire la sconsacrazione della chiesa di Castellone, della quale gli arredi e la statua furono acquistati dalla Confraternita di San Giovanni Battista, accosta alla chiesa ben più antica di San Lorenzo a Mola: questa, adiacente il castello duecentesco con la eminente torre cilindrica, è andata distrutta nell’ultimo conflitto mentre si costruiva quella attuale. Un nesso documentato tra la chiesa di Castellone con la zona litorale orientale compare in un atto del 1490 conservato presso l’Archivio Capitolare di Gaeta, inerente la chiesa di “S. Iohannis in flumia de Castellono Gaiete”, nel retro della pergamena da altra mano annotato con “S. Iohannis de flumine”, cioé “del fiume”. Nella zona della chiesa scomparsa, che ha lasciato il nome al vico su via Rubino, non esiste e non è esistito alcun corso d’acqua di quella identità; invece un ulteriore atto del 1516 concerne di questa chiesa la pertinenza di un orto a “Santo Janni”, zona litorale ad oriente di Formia separata dal promontorio di Giànola dall’omonimo fiume. La chiesa in Castellone doveva perciò relazionarsi ad una campestre distante poco più di cinque chilometri, presso quel fiume che le aggiungeva il nome e alla quale si riferiva l’ambito litorale, campagna storicamente legata a quel borgo e all’attività agricola dei suoi abitanti: è in questo ambito forse da collocare tutta la leggendaria vicissitudine del tronco. Una determinante informazione proviene da una Bolla di papa Innocenzo II del 1143 in cui si confermano i beni dell’abbazia di S. Erasmo di Formia, adiacente Castellone, tra cui le chiese di “S. Gennaro e S. Giovanni de Trullo” da intendersi vicine: la prima in un documento del ‘500 viene collocata presso il promontorio di Giànola; della seconda l’aggiunto “Trullo” è di origine greco-bizantina, “trullos”, ad indicare una cupola o un ambiente da essa coperto. La più tardiva denominazione “in flumia” o “de flumine” conferita alla chiesa di Castellone, localizza quella sussidiaria campestre, potendola intendere “presso il fiume” come pure “verso” o “dalla parte del fiume”: da Mola e Castellone il rio Santa Croce o di Giànola era uno dei principali riferimenti e con parvenza di un fiume presso la foce. Di questo ambito litorale, emerge una immagine su “Il Mondo Illustrato – Giornale universale”, n. 11 del 1860, incisa da Raffaele Pontremoli (fig. 2), prolifico illustratore al seguito dell’esercito unitarista che a Gaeta nel 1861 costrinse i Borbone alla capitolazione. L’immagine rappresenta il lido dominato dal promontorio di Gaeta, col suo profilo ravvicinato e che in quel luogo appare con le falesie di monte Orlando, dove vi si incentra l’incontro tra un alto prelato e un vecchio eremita seduto, mentre sulla spiaggia, dove transita una donna con un asino, attende accostata una barca con ornato baldacchino e bandiere, riferimento distintivo di una visita pastorale. Ma il luogo è precisamente caratterizzato dal cantone di un edificio stretto da rigogliosa vegetazione e sul quale si rende la pittura parietale di una sacra figura di particolare interesse. La pur sommaria riproduzione dell’affresco, con abilità fatto apparire in parte degradato nella parte inferiore, come pure la forma barocca della barca ed altri particolari, rivelano la copia di un quadro anche di grandi dimensioni e di almeno un secolo prima. Di sfuggita la figura parietale, databile non prima del XV secolo, potrebbe interpretarsi una Madonna con in braccio il bimbo Gesù. Tuttavia i tratti pur essenziali rivelano la figura decadente di una anziana con specifico velo sul capo e il bimbo che indica un libro sul petto della donna, particolarità che identifica Santa Elisabetta tardiva madre di San Giovanni Battista che riferisce l’emblematica frase “Ecce Agnus Dei”. Dunque una siffatta immagine sacra sul cantone di quell’edificio rivelerebbe la sua assegnazione: la chiesa di San Giovanni che resta nel nome di quel litorale, “Santo Janni”. L’immagine del monumento formiano data dal Pontremoli è ricca di dettagli, come il tipo di muratura e una feritoia, di più, nella sfalsatura verticale della struttura, una cornice ad archetti e dentelli di evidente fattura romanica di X-XII secolo. Tra vari esempi di chiese rurali del periodo, spicca “San Bartolomeo de Palude”, così citata nel 1180, nel comune di Castellana Grotte (fig. 3), dove il restringimento dell’elemento superiore è in funzione statica ad una cupola; una forma non estranea nei collegamenti culturali di quest’area con la Puglia e di generale influenza bizantina e longobarda. La cupola così spiegherebbe la denominazione di “San Giovanni de Trullo” data alla chiesa menzionata nel 1143 tra quelle nei pressi di Giànola, pertanto riferita a questa specifica caratteristica architettonica; essa non è rappresentata nell’immagine, forse occultata o sostituita da un tetto Il diverso nome conferito alla chiesa si inserisce nella duplicità di situazioni: una legata al territorio, al fiume considerato tutt’uno con gli acquitrini litoranei specificati “Pescinola” a quella più prossimi; l’altra riferita all’elemento architettonico denotativo sulla riviera, la probabile cupola o trullo. Pertanto lungo il lido di Santo Janni esisteva una chiesa dalla quale si è originata la denominazione, ritratta con precisi riferimenti al luogo e che trova riscontri in testimonianze tramandate: una di queste riferisce del ritrovamento nel 1960 di alcune sepolture sulla duna originaria, tra gli attuali incroci litoranei di via Santojanni Pescinola e via Del Mare, fattore indicativo di un passato luogo di culto cristiano. All’estendersi massivo dell’abitato, che ha sconvolto il luogo originario, alla frequentazione balneare spesso caotica, questi scarsi documenti rivelano un diverso uso del territorio improntato alla sacralità, cui l’immagine ottocentesca ce ne trasmette tutta la sua suggestione e ne promuove una diversa considerazione.
Didascalie delle immagini 1 – La settecentesca statua di S. Giovanni in una processione presso il porto. 2 – Immagine a incisione di Pontremoli in “Il Mondo Illustrato” del 1860, con struttura riferibile alla chiesa di San Giovanni dalle figure sacre dipinte sulla parete a sinistra. 3 – Chiesa di San Bartolomeo a Castellana Grotte, confrontabile con quella formiana ritratta da Pontremoli. 4 – Il tratto litoraneo interessato alla chiesa di Santo Janni: sopra negli anni 1960 con la duna; sotto, oggi presso l’incrocio di via S. Janni Piscinola. Bibliografia S. Ciccone, La scomparsa chiesa di Santo Janni a Formia, in AA. VV., “Giànola tra ricordi e tradizioni”, vol. 3, 2023, ISBN 9791222476223, pp. 2-17.

mercoledì 29 maggio 2024

DUE MARTIRI COETANEI DAL MARE DI FORMIA: SANT’ERASMO E SANT’EFISIO - di Salvatore Ciccone
La ricorrenza della morte di Sant’Erasmo a Formia, il 2 giugno del 303 dopo Cristo, risalta con quella di un altro santo che dal lido di Formia si portò in Sardegna per soccombere al supplizio, il 15 gennaio del medesimo anno 303: Sant’Efisio, tra i più rappresentativi dell’Isola e co-protettore di Cagliari. Il calendario dei due episodi è naturalmente fissato negli specifici martirologi che però sono di oscura origine e sostanzialmente scritti in epoca medievale, elaborando su modelli e laddove non si avevano notizie assimilando la vita di altri Santi; per questo non è qui il caso di fare una analisi dei testi persino ardua agli specialisti. La “Passio” di Sant’Erasmo è stata scritta da Giovanni di Gaeta, monaco benedettino in Montecassino, eletto papa col nome di Gelasio II dal 1118 al 1119, il quale nel prologo dichiara di aver elaborato il testo attingendo da varie fonti e con cognizione dei luoghi in Oriente avute da alcuni confratelli. In sintesi, Erasmo, giovane di rara bellezza, divenne vescovo di Antiochia capoluogo della Siria e per questo, in base all’editto emanato da Diocleziano, tenuto ad officiare la divinità dell’imperatore, cosa che in base alla sua fede si rifiutò di fare e perciò sottoposto a tremende torture dalle quali scampava miracolosamente. Di sostegno gli fu l’Arcangelo Michele, il quale da ultimo lo condusse a Formia. Qui predicò per sette giorni fino alla morte per i patimenti subiti, il 2 giugno dell’anno 303, e il suo corpo sepolto nella parte occidentale della città presso l’anfiteatro. Il suo corpo venne poi trasferito a Gaeta al sicuro delle incursioni degli Agareni (i Saraceni), dove venne riscoperto con intitolazione della cattedrale. La tradizione locale vuole che Erasmo fosse martirizzato proprio a Formia e per eviscerazione, in uno degli ambienti del teatro romano presso il rione Castellone, detto “il Cancello” da una palizzata protettiva del luogo di culto. A Gaeta divenne patrono della nuova “civitas” marinara e quindi protettore dei naviganti, del quale la presenza durante le tempeste si credeva fosse nelle luminescenze elettrostatiche tra le alberature delle navi, i fuochi di S. Ermo o Elmo già dai Romani attribuiti ai Dioscuri. Nell’ex cattedrale di Formia dedicata al Santo, presso il Castellone medievale sorto l’antica acropoli, nel decennio 1970 sono venute in luce importanti testimonianze tardoantiche ed altomedievali del luogo di culto, sostanzialmente originate da un’area sepolcrale pagana, in cui sorse un “martyrium”, un sacello con un altare su un precedente sepolcro successivamente privato delle spoglie, evidentemente quelle del Santo trasferite a Gaeta. A questo piccolo edificio di culto si unirono numerose sepolture cristiane “ad corpus”, quindi in breve tempo integrato ad una basilica a navata unica, costruzioni certamente realizzate dopo l’editto di Costantino del 313 con il quale si liberalizzava il cristianesimo. In fasi successive il complesso si arricchì di elementi funzionali, tra i quali intorno al VI secolo una cripta semianulare sotto l’altare maggiore della basilica per accogliere le spoglie del Santo; quindi un ricco apparato decorativo di stile carolingio avutosi tra VIII e IX secolo, prima che intervenisse la devastazione saracena che si vuole avvenuta nell’846. Con la presa di possesso dei monaci benedettini nel X secolo e poi dal 1491 di quelli Olivetani, si è avuta la trasformazione in abbazia e la chiesa evoluta in tre navate, con l’altare privilegiato posto in corrispondenza della tomba originaria, ma da secoli occultata. Riguardo Sant’Efisio le varie fonti non sempre concordi comunque attestano la veridicità del personaggio in Sardegna oltre che la situazione nel quale esso si è mosso proprio dalla sponda campano-laziale verso l’Isola; anche qui la sintesi è d’obbligo. Efisio era di famiglia eminente di “Aelia Capitolina” (Gerusalemme rinominata dall’imperatore Adriano) figlio di Cristoforo, cristiano, e della pagana Alessandra. La madre riuscì ad avere udienza da Diocleziano occasionalmente ad Antiochia, supplicandolo di prendere il figlio come suo militare. L’imperatore, ammirato dalla bellezza del giovane, gli affidò la repressione dei cristiani, ma come Saulo (Paolo) sulla via di Damasco fu oggetto di un prodigio: vide apparire in cielo una croce sfolgorante insieme alla voce di rimprovero di Gesù, croce che rimase impressa sulla palma della mano destra, ciò che convertì il giovane. Recatosi quindi a Gaeta si fece realizzare una croce d’argento che miracolosamente venne iscritta in ebraico con i nomi degli arcangeli. Qui evidentemente la “Passio” scritta nel XII secolo considera la città che aveva preso il posto dell’originaria malsicura Formia, invece fiorente all’epoca di Diocleziano e della quale il naturale “portus Caietae” ne era parte integrante. Inoltre in questa permanenza si portò a combattere con il suo esercito gli invasori Agareni, uccidendone 12.000; altro chiaro sfasamento storico nell’età del documento, in riferimento alla vittoriosa battaglia del Garigliano del 915. Sbarca quindi a Tharros in Sardegna, per risolvere una aggressione di barbari, cioè dei “Barbaricini”. In questa terra egli manifesta la sua fede, addirittura scrivendo all’imperatore di convertirsi, il quale naturalmente lo fece arrestare e sottoporre a torture, dalle quali rimase miracolosamente indenne finché non venne decapitato a Nora, fiorente città romanizzata presso l’odierna Pula dove è una chiesetta romanica eretta sul luogo del martirio. Sant’Efisio ha avuto grande impulso nel 1656 allorché supplicato liberò Cagliari dalla peste e da allora oggetto di grandi festeggiamenti dal 1° al 4 maggio: una caratteristica processione con largo seguito di fedeli provenienti da tutta l’Isola, il simulacro in un pregiato carro dall’omonima chiesa di Cagliari per quaranta chilometri raggiunge Pula, luogo del martirio. Dunque Sant’Erasmo e Sant’Efisio, due giovani ardenti nella nuova fede di salvezza, da Antiochia giunsero a Formia, chissà se in qualche modo connessi, attestandone l’importante nodo di traffici tra la via Appia e le rotte marittime dall’Oriente verso Roma e l’occidente dell’Impero, come pure di culture, di nuovi culti di cui vincente fu il Cristianesimo e nella cui diffusione emersero queste figure emblematiche della Chiesa.
Bibliografia essenziale - S. Ciccone, La Cattedrale dell’antica Formia, “Lunario Romano” 1987 - Cattedrali del Lazio, Roma 1988, p. 325 segg. - R. Zucca, Il Portus Caietae in una fonte agiografica: la Passio Sancti Ephyfii, “Formianum” VII-1999, Marina di Minturno 2007, p. 97 segg.
Didascalie immagini 1 –Particolari delle statue dei Martiri: a sinistra, di Sant’Erasmo nella chiesa titolare presso il rione Castellone di Formia; a destra, di Sant’Efisio, presso l’omonima chiesa barocca nel rione Stampace di Cagliari. 2 – Le Grotte di Sant’Erasmo presso il poto di Formia, dove la tradizione vuole sia deceduto il Martire. 3 – La chiesa di Sant’Erasmo di Formia, come si presentava ritratta da Pasquale Mattej a metà Ottocento.

martedì 14 maggio 2024

LA VIA APPIA A FORMIA: IL PONTE E L’EPITAFFIO DI RIALTO - di Salvatore Ciccone
In memoria della cara Franca Forte, per l’impegno donato alla sua amata Formia, con imparzialità e spirito di amicizia, vera costruttrice di cittadinanza. Nel Rinascimento, con il consolidarsi degli assetti politici e il rifiorire dell'economia e dell'arte, la via Appia tornò nuovamente ad essere considerata indispensabile e rapido collegamento del Meridione con Roma centro della cristianità, quindi con l'Europa. Documenti dei restauri viari sono i cosiddetti Epitaffi, monumenti commemorativi dei lavori compiuti sotto il dominio spagnolo di Filippo II il Cattolico. Uno di questi monumenti riguarda la costruzione del ponte sul torrente Rialto, il “rivum altum” così denominato per le alte e ripide sponde, vera difesa naturale ad occidente dell'antica Città e in prossimità del trecentesco Castellone; Il ponte e l’Epitaffio in seguito all’ultima guerra ancora restano in rovina e benché il luogo commemorato per le numerose vittime civili, versa in un generale stato di incuria. Il ponte era costituito da un grande arco in conci di tufo alternati a mattoni, solido e leggero ad un tempo, impostato su spalle inferiormente rivestite da alte cortine di pietra squadrata, elementi di spoglio di antichi monumenti come l’iscrizione del sepolcro di Marco Vitruvio, recentemente ritrovato e scavato presso la vicina Fontana Romana. Dell'Epitaffio rimangono parte del nucleo cementizio e del rivestimento lapideo del basamento: questo a forma di podio è lungo m. 5,30, largo 1,70 e alto 1,90 compresa la cornice composta di un grosso rotondo ‘toro’ con sottostante ‘guscio’. L’architettura del monumento può solo osservarsi in alcune foto d'epoca, dove sul podio si erigeva una parete risaltata sui cantoni da coppie di lesene, concluse da modiglioni e coronata da un frontone ‘ad arco spezzato’; nella parete centrale campeggiavano tre stemmi e una lapide commemorativa; l'altezza complessiva doveva essere prossima ad 8 metri. Il testo dell'iscrizione compare nel manoscritto di Pasquale Mattej “L'Ausonia” (1866-69) conservato nella Biblioteca Vallicelliana in Roma:
PHIL • II • CHAT REGNANTE PERAF • ALCALAE DVX PRO REGE RIVO ALTO PONTEM ALTVM IN OMNIBVS REBVS ALTA QVADAM MENTE PRAEDITVS ADDITIT M•D•L•XVIII
Con una libera traduzione si dice: “Regnante Filippo II il Cattolico, il viceré Perafan duca d'Alcalà pose sul Rio Alto un ponte eccelso, avendo in tutte le cose una certa ampia cognizione, 1568”. Il duca d'Alcalà Pedro Afàn de Ribera, detto don Perafan, nato a Siviglia nel 1508, ricoprì la carica di viceré in Catalogna e poi a Napoli dal 12 giugno 1559 al 2 aprile 1571, data della sua morte. Condusse un’amministrazione distintiva per le opere pubbliche, oltre a quelle viarie, quelle a difesa dai Turchi a Napoli e le torri costiere. Gli stemmi dell'Epitaffio dovevano essere della casa regnante al centro e ai lati del duca e della città di Gaeta, cui questo territorio allora apparteneva. Il Mattej riferisce che il monumento era in origine collocato sul piano del ponte, poi riposizionato per l'ampliamento dell'attuale via Olivetani nel 1856-57. La posizione originaria è documentata nell’unica immagine finora nota, una grande tela ad olio di collezione privata a Formia, che ritrae il suggestivo paesaggio del sito falsamente firmata “Angelo Viviani 1850”, invece sicuramente attribuibile a Pasquale Mattej. Il monumento è visto di spalle dall’attuale via Olivetani, effettivamente sul piano del ponte allineato al verso di percorrenza. In esso vi Appaiono due ulteriori elementi: nel mezzo del frontone spezzato, a giustificare questa forma, si erge un pinnacolo sormontato da sfera; nel retro del monumento, a guardare la via che scende da Castellone, campeggia un’altra epigrafe con spigoli risaltati, della quale sinora non si ha menzione ma che può relazionarsi al percorso secondario. Interessanti confronti tipologici, oltre ai contenuti epigrafici, possono farsi con i simili monumenti eretti dal viceré tra i quali innanzitutto quello presso Monte San Biagio, adiacente la torre del vecchio confine pontificio detta appunto dell'Epitaffio, come pure quello recentemente restaurato in località Sant'Andrea nel territorio di Fondi prossimo al confine con Itri, nell’Antichità quello del municipio di “Formiae” sull'antico tracciato dell'Appia. Il duca d'Alcalà con questi monumenti volle restituire alla via Appia non solo la funzionalità di un tempo, ma anche la fama e la monumentalità dell'antica “Regina Viarum” rinominata “Via Regia” in cui la memoria dell'artefice, a somiglianza degli antichi, rimanesse eternata nelle lapidi con l’architettura degli epitaffi ispirata agli splendori della classicità. Si conferiva così all'arteria una connotazione storica e culturale quale effettivamente andò sviluppandosi in particolare nel Golfo di Gaeta, apprezzato dai viaggiatori per la natura incantevole dei luoghi e per le sparse antichità. Purtroppo la condizione dei resti di Rialto si è andata via via aggravando, non solo per il naturale degrado, ma per gli interventi susseguiti negli ultimi anni, tra i quali un’alta recinzione sul ponte moderno che impedisce la vista di quello cinquecentesco e una ‘cabina’ di un impianto tecnico accostata ai resti dell’Epitaffio: ora questo, in conseguenza all’incuria è del tutto occultato da rigogliosa ma invadente vegetazione, situazione favorevole ad un atto di totale soppressione del monumento: per uno strano caso anche il sepolcro di Vitruvio, la cui epigrafe giace riutilizzata sotto il Ponte, viene lasciato ricoprire da edera appositamente piantumata e senza che le autorità preposte intervengano. Nella valorizzazione dell'itinerario culturale dell'Appia antica, anche il ridotto rudere dell’Epitaffio di Rialto ed il ponte stesso risaltano come preziose testimonianze del passato, non certo da nascondere, ma da preservare quali patrimonio della collettività come l’ancora viva memoria di tragici eventi bellici.
Bibliografia Degli epitaffi e delle relative epigrafi si fa anche menzione in: “Pianta del real cammino di Roma da Napoli fin’al confine del Regno” (Bibl. Naz. Napoli, mss xv A 16); D. A. Parrino, “Teatro eroico e politico de’ governi de’ viceré del Regno di Napoli dal tempo del re Ferdinando il Cattolico fino al presente” (Napoli 1770, pp. 181-82). Riguardo l’epigrafe sulla Porta di Mola in: N. Chytraeus, “Variorum in Europa itinerum deliciae […]”, (?) 1606, p. 48; S. Ciccone, “Formia Turismo” 5-1989, pp. 8-10; A. Di Biasio in “Formianum” I-1993, p.105.
DIDASCALIE : 1. L’epitaffio di Rialto in una foto d’epoca. 2. Il ponte di Rialto con l’Epitaffio nella posizione originaria, in un dipinto di Pasquale Mattej (autoritratto in basso a destra) contraffatto a firma di “Angelo Viviani 1850”. 3. Particolare dei resti dell’Epitaffio con le modanature del podio. 4. I resti dell’Epitaffio come oggi “invisibili” (a destra della cabina tecnica). 5. Il monumento alle vittime civili nel bombardamento del 18 aprile 1944.

mercoledì 17 aprile 2024

LA FONTANA ROMANA A FORMIA: QUELLO CHE NON APPARE - di Salvatore Ciccone
Con l’avanzare dell’età ripenso ai miei studi di architettura e alle origini di un personale percorso che radica nella mia terra e in una propensione di andare oltre ciò che appare. Così ho trovato il mio primo articolo nelle pagine della “Gazzetta di Gaeta”, rivista mensile ideata e diretta da Gaetano Andrisani (+ 2010) riprendendo nel 1973 la testata borbonica: il numero è datato 25 aprile 1974, dunque esattamente cinquant’anni orsono; s’intitola “La Fontana di S. Remigio” e si svolge in una sola pagina pur di ampio formato e alla quale si rimanda per la descrizione (fig. 1). Allora frequentavo il quarto anno del Liceo Scientifico E. Fermi di Gaeta e ricordo come durante una lezione di storia dell’arte, il prof. Salvatore Dell’Anno propose agli studenti la possibilità di pubblicare sulla rivista una sorta di tesina su qualche aspetto storico-artistico del territorio del Golfo. Fui l’unico ad aderire, con entusiasmo ma anche con l’ansia di un esordio pubblico, benché partecipe dell’Archeoclub di Formia fondato nel 1973. Senza dilungarmi oltre, da quell’articolo fui mosso alla conoscenza del patrimonio storico di pari al condividerlo pubblicamente, con studi non per questo banali ed anzi protesi oltre le comuni apparenze. Da allora, articolo su articolo ho percorso varie opportunità editoriali soprattutto a Roma, già frequentandovi la Facoltà di Architettura. Oggi compio cinquant’anni di questa attività, con decine e decine di lavori sul territorio di Formia e non solo, talvolta rinvenuti da amici come rari reperti, citati, ma anche copiati o deliberatamente taciuti, errori compresi; sì errori, perché è inevitabile farli se ci si vuole afferrare realtà lungamente oscurate dal tempo. La Fontana Romana è un raro monumento del genere, ancora di più se si considera che ha mantenuto fino agli anni 1970 attiva la sua funzione per uomini e animali lungo il tragitto della via Appia, “la regina delle vie” realizzata dal censore Appio Claudio il Cieco da Roma a Capua dal 312 al 310 prima di Cristo: ma quando fu realizzato l’abbeveratoio? Spontaneamente si potrebbe pensarlo coevo o di poco più recente, comunque d’età repubblicana. Invece, conoscendo approfonditamente la storia della via (cognizioni che io all’epoca non possedevo), risulta che esso è almeno di 500 anni dopo, in pieno Impero. Infatti la via in principio era “glareata” ossia inghiaiata su profonda massicciata drenante, solo qualche anno dopo iniziata ad essere lastricata con le pietre dei luoghi attraversati: dunque il tratto formiano con calcare, non con il grigio di basalto lavico che caratterizza l’antica via proprio davanti la fontana. Di quest’ultimo si sa l’epoca esatta, il 216 dopo Cristo e l’autore, l’imperatore Caracalla, quello che ordinò le imponenti terme a Roma: ciò è noto da una sola iscrizione su colonna miliare murata nel campanile della chiesa di S. Giovanni a Monte San Biagio, dove si afferma che “la pavimentazione di pietra bianca rovinata” fu sostituita con “nuova selce” per 21 miglia (circa 31 km), come desumibile dalle relative indicazioni dal miglio 67 fino al miglio 88 che cadeva sul guado del fossato Rialto all’ingresso di Formia, quindi al suo finire comprendendo la fontana. Ciò non sembra dare alcuna indicazione se non si considerasse la modalità della ripavimentazione che acclara lo spirito pratico dei Romani, cioè sovrapposta alla precedente alzando anche più di un metro il livello. Il fatto si è provato quando verso il 1935 per addolcire la curva della strada su progetto dell’architetto Giovannoni, si rinvennero un ponte e l’antico lastricato calcareo sotto quello lavico, visibile in due buche oggi colmate (fig. 2). Quindi la liscia parete a blocchi squadrati di contenimento all’abbeveratoio, mostra la parte rifinita della cornice di base partire dai basoli vulcanici, ai quali non poteva che essere almeno contemporanea: la monumentalità della fontana si giustificherebbe a celebrare la conclusione della ristrutturazione viaria. In tutta la fontana diversi elementi con frequenti inesatte giunzioni, mostrano fori di fissaggio di un diverso loro impiego e perciò provenienti da una precedente altra costruzione; inoltre la vasca, anche se di consueta la semplicità, stride con la finitura della parete alla quale è palesemente adattata scalpellando la cornice basale. L’acqua fluiva tramite due mascheroni circolari (fig. 3) di cui solo quello orientale ancora interpretabile, mentre l’opposto è molto consunto perché scolpito su pietra arenaria dorata locale, anomalia che si accompagna alla riproduzione di tratti di cornici: la diversa dimensione e colore delle maschere mi portò a ipotizzare che rappresentassero il sole e la luna; in realtà quella distinguibile mostra capelli e barba in forma di flutti che riconducono ad Oceano, mitologico padre delle acque. Nella parte superiore della parete, dietro il muro cementizio, si trova il serbatoio voltato di accumulo e decantazione lungo e largo quanto la vasca (circa metri 5 x 1), che fino ai primi del Novecento alimentava la fonte, prima che lo fosse dall’acquedotto pubblico. Il serbatoio si raggiungeva per le ispezioni da una scaletta sull’anta orientale della parete e poi sopra questa con un’altra circa centrale, dove sembra apparire una nicchia forse parte di un fastigio congruo al monumento: si rappresentano già in una incisione del Rossini del 1839 (fig. 4), dove inoltre compaiono tre mascheroni, palese espediente correttivo. Nel serbatoio terminava uno stretto speco coperto da volta che di allungava circa 300 metri a monte, in parte scavato in roccia con varie diramazioni laterali, intervallato da torrini di sfiato e di ispezione, evidenziati come “lanternini” in una mappa del Mattej (fig. 5). Si trattava di un sistema di captazione “a radice”, tale da intercettare l’acqua di una vasta area sotterranea. Quello che appare di un monumento è sempre parte di una più complessa realtà, di architettura e di storia, quale più completo valore di una testimonianza di civiltà: ciò risalta in questa fontana, insieme alla necessità di un ripristino dell’elemento vitale connaturato alla sua funzione perciò trasmessa per diciotto secoli.
Bibliografia: S. CICCONE, La fontana di S. Remigio, “Gazzetta di Gaeta”, 25 aprile 1974, p. 3 (67); IDEM, La via Appia nell’evoluzione del sistema urbano di Formia nell’Antichità e nel Medioevo, “Formianum”, Atti del Convegno II-1994, Marina di Minturno 1995, pp. 43-55; L. QUILICI, Santuari, ville e mausolei sul percorso della via Appia al valico degli Aurunci, “Atlante Tematico di Topografia Antica”, Atta 13-2004, pp.532-537.
Didascalie immagini 1 – L’articolo pubblicato nel 1974 sulla Gazzetta di Gaeta. 2 – Scavi del 1935: basolato calcareo sotto quello lavico di età imperiale (da Quilici). 3 – I mascheroni a confronto, l’occidentale su arenaria (sinistra), l’orientale su calcare. 4 – La fontana nell’incisione di Rossini con le due scale di accesso al serbatoio (1839). 5 – Stralcio della mappa di Mattej (1868): la fontana e i “lanternini” dell’acquedotto (frecce).

giovedì 22 febbraio 2024

RICONOSCERE LA VIA APPIA ANTICA A FORMIA - di Salvatore Ciccone
La via Appia antica a Formia è argomento divenuto ricorrente a causa della richiesta all’UNESCO di promuovere l’intero percorso da Roma a Brindisi come “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”. In verità la questione sembrerebbe indiscutibile, per la notorietà di questa strada connaturata alla stessa espansione di Roma e “regina” della estesa rete viaria dell’Impero. Così dovrebbe essere, se il suo tragitto contrassegnato ora dall’antico lastricato ed altre eccelse opere viarie, ora da monumenti sepolcrali riferiti alle antiche città da essa attraversate, fossero testimonianze sistematicamente preservate e visitabili, ma soprattutto se questo “bene” fosse realmente conosciuto e assunto come parte integrante dei “paesaggi” delle singole comunità; questo fatto è invece sporadico e rende una visione frammentaria cosicché si deve perorare la richiesta. Ora tornando Formia, in questa aspirazione di rilievo internazionale, la cittadinanza cosa conosce e di più quale valore assegna a questa strada di oltre 2300 anni e ancora indispensabile? Basti pensare che dal recupero della Tomba di Cicerone nel 1957, in occasione del bimillenario della morte a Formia del celebre oratore (7 dicembre 43 a. C.), nulla più si è fatto e il monumento tra i più caratteristici dell’intero tragitto è rimasto fino di recente incognito. Attualmente una tabellazione indica l’antico percorso in ambito urbano, ma nel tratto orientale erroneamente identificato nella sua variante medievale; invece prevale il riferimento alla “Via Francigena”, quel percorso che dalla Francia giungeva a Roma e che dopo il Mille ha anche riguardato il tragitto verso le sponde pugliesi di imbarco verso la Terra Santa; il progetto intendeva favorire attività turistiche minori e ci può stare, però dovendo segnalare la più antica e concreta strada, invece surclassata. Nella stessa città la via Appia è inconsapevolmente ripercorsa da quella “interna” lastricata con blocchi di basalto dai Borbone e che prima tutta si intitolava via Tullia, da Rialto a Mola, perciò riferita al nome di famiglia di Cicerone, ma che le amministrazioni comunali hanno poi dedicato ad Angelo Rubino, Ferdinando Lavanga, nonché all’Abate Tosti nel tratto di variante medievale: in ogni caso è stata soppressa l’identità dell’ Appia e in particolare nel rettilineo urbano che strutturava la città antica come “decumano massimo”. Dal punto di vista storico-topografico poi, la via che si considera nell’ambito comunale, in realtà attraversava il ben più esteso territorio antico di Formia, dal confine con “Fundi”, Fondi, all’imbocco inferiore della gola di Sant’Andrea, ora nel comune di Itri, per concludersi al territorio di “Minturnae”, Minturno in vicinanza di Scauri, circa al confine attuale. Così l’intero tratto formiano correva per 15 miglia (1 miglio romano = 1478,5 metri), dal miliare 79° al miliare 94° (attuali km. 127,00-149,00), tra i quali l’88° da Roma cadeva sul guado del torrente Rialto, ingresso occidentale della città: qui era il termine di 21 miglia ripavimentate da Caracalla nel 216 dopo Cristo, sovrapponendo al lastricato calcareo quello più duraturo di basalto, come attesta l’iscrizione miliaria riutilizzata nel campanile di S. Giovanni a Monte S. Biagio. Si deve infatti ricordare che la via iniziata nel 312 avanti Cristo dal censore Appio Claudio Centemmano detto Cieco poté raggiungere in soli due anni Capua contro i Sanniti perché semplicemente inghiaiata, seppure su strati di pietrame per assicurarne durevolezza; solo qualche anno dopo venne rivestita con pietra dei luoghi attraversati e dopo oltre un secolo raggiunse Taranto e Brindisi. Ora è opportuno focalizzare le testimonianze di competenza dell’attuale territorio di Formia. Venendo da Itri la Statale devia dall’antico rettilineo per sottopassare la ferrovia Roma-Napoli, accanto la quale (km. 136,500) affiora un tratto basolato con “in situ” il miliario LXXXV di Nerva, imperatore dal 96 al 98 dopo Cristo, elevato su piedistallo risalente ai lavori viari degli anni 1930. Tale presenza è per lo più sconosciuta e del tutto ignorata, resa dal traffico di insicuro accesso, nonché in deplorevole abbandono e degrado. Giungendo sulla pianura in vista del mare, dove incrocia la via Canzatora, antica diramazione verso il “Portus Caietae”, domina la visuale il rudere turriforme della Tomba di Cicerone (km. 139,200). Il sepolcro è compreso in un’area funeraria recintata rettangolare di oltre 5.000 metri quadrati e presenta una struttura a pianta quadrata in blocchi calcarei con lato di circa 17 metri che comprende una cella circolare e a cui si sovrappone un fusto cementizio con altezza totale di circa 19 metri. Recenti studi restituiscono al monumento di prima età augustea un rivestimento di marmo, superiormente in forma di tempio circolare con semicolonne sormontato da statua equestre di bronzo dorato, alto in tutto 100 piedi romani, metri 29,50. Inoltre si è evidenziato che il recinto sulla strada lungo oltre 85 metri ha implicato la modifica in piano di un più lungo tratto della via Appia, ciò ammissibile solo per determinazione pubblica e che avvalora la tradizione risalente almeno al X secolo che attribuisce il monumento e la zona a Cicerone. Inoltre nel recinto venne sepolta parte di una via lastricata che giungeva al litorale di Vindicio separando due ville, delle quali i resti in proprietà Lamberti sono nella stessa striscia di terreno con il sepolcro, interrotta dalla via litoranea. Ciò confronta le fonti antiche sul “Formianum” di Cicerone che lo dicono esteso per un miglio dal mare in altura, dove in effetti sono i resti di una villa rustica e dall’Appia si scorge il rudere indicato dalla tradizione Tomba di Tulliola, la figlia di Cicerone, dalla quale proviene una statua funeraria femminile ora presso il Museo Archeologico di Formia. In prossimità dell’ingresso di Formia (km. 140,500), la via Appia si allargava con tratto basolato in curva a comprendere una fontana, composta di una lunga parete in opera quadrata modanata con aderente al centro l’abbeveratoio alimentato da due maschere forse di Acheloo, divinità fluviale: la fontana risale al rifacimento viario di Caracalla, poiché sorta sul nuovo livello della strada, mentre il più antico lastricato calcareo è stato rinvenuto negli anni 1930 a circa metri 1,20 di profondità. Molti basoli accantonati sono stati illecitamente asportati dal lastricato sotto l’attuale carreggiata durante la posa di un impianto, mostrando tutta la fragilità di questa nobile strada nelle dinamiche attuali. La fontana è preceduta sul lato monte dai resti di sepolcri, dei quali evidente è quello a forma di torretta ottagonale a fasce sovrapposte di laterizi e blocchetti di calcare, “opus vittatum” di epoca imperiale. Poco prima, meno visibile, è di recente scavo il nucleo cementizio di un sepolcro, nel luogo di provenienza di iscrizioni di liberti della “gens Vitruvia” e di quella di età augustea di un Marco Vitruvio, dagli umanisti riferita all’autore del celebre trattato di architettura e riutilizzata nel Cinquecentesco Ponte di Rialto, 500 metri oltre la fontana. Da questo contesto sono venuti in luce sepolture con corredi funerari, mentre lo studio della struttura ha ipotizzato un sepolcro in forma di altare con fregio dorico: per paradosso i due ruderi vengono fatti ricoprire da rampicanti. In ambito urbano la via Appia ripercorre le vie Rubino e Lavanga per circa un chilometro e costituiva il decumano massimo della città. In corrispondenza del Foro (piazze Buonomo e Mattej), incrociava l’ortogonale cardine massimo (vie Castello e Gradoni del Duomo del medievale Castellone,) tangente ad occidente i resti del teatro (vico Teatro) e connesso all’arce cinta da mura poligonali (VI-IV sec. a. C.), in piazza S. Erasmo con porta sulla via originaria. Il tratto terminale del decumano (via Lavanga, trav. via XX Settembre) era interessato all’anfiteatro, risalente alla prima età augustea, opportunamente situato in vicinanza della insenatura portuale oggi colmata (largo D. Paone), aggirata a monte dalla via dove appunto resta il nome Caposelice cioè il capo del rettilineo selciato, aspetto che rappresenta il fatto più notevole della topografia della via Appia nell’antica Formia. Infatti fino di recente si è ritenuto che la strada ripercorresse quella del borgo di Mola, cosa inammissibile per il percorso contorto e promiscuo agli approdi. Essa invece svoltava e percorreva l’attuale via della Conca, interrotta in via Maiorino, ma che proseguiva passando vicino l’acquedotto su arcate del II-I secolo avanti Cristo il cui serbatoio terminale presenta un lato sghembo in quanto allineato alla carreggiata certamente come prospetto di una fontana pubblica. Recentemente in uno scavo condotto nei suoi pressi è affiorata la massicciata viaria disfatta, in questa zona acquitrinosa contenuta da muro poligonale; nello stesso luogo è inoltre documentato il sepolcro della gente Cesia (iscrizione presso il Museo) e affioramenti di basoli del selciato. È probabile che a fine Duecento la costruzione nel borgo del castello angioino o Torre di Mola per motivi strategici determinò la cancellazione del tratto che lo aggirava e allagato il suolo. Oltre la piazza Risorgimento, La via Appia prosegue con tipici rettilinei ad oriente ricalcata da quella moderna. In località S. Pietro (km. 144,600) è fiancheggiata a monte dall’imponente nucleo cementizio parallelepipedo di un sepolcro detto Torricella, identificabile nel tipo ad edicola e alla prima età augustea, ma di titolare incognito, probabilmente pertinente ad una villa; è comunque l’elemento distintivo del tratto orientale fino all’antica “Minturnae” sul fiume Garigliano. Oltre il sepolcro (km. 145,350), nel 1998 venne in luce parte del lastricato, mentre nel lapidario di Villa Caposele (Rubino), una colonna miliare reca il 92° miglio ricadente presso l’incrocio di via Gianola (km. 146,900) e attesta un rifacimento della strada nell’impero di Massenzio tra il 307 e il 312. Queste le principali evidenze del tragitto formiano della via Appia antica e le minime conoscenze per considerarne il valore, le problematiche conservative e una valorizzazione della via, intrecciate all’attuale uso che ora ne rende difficile una adeguata fruizione. Si deve quindi auspicare una maggiore consapevolezza insieme alle specifiche competenze, poiché altrimenti l’assegnazione della via Appia a Patrimonio Mondiale dell’Umanità non recherà che vani benefici alla cittadinanza.
Bibliografia essenziale S. Ciccone, Origine e sviluppo della viabilità nel territorio antico di Formia, in “Storia Illustrata di Formia”, Sellino Editore – Comune di Formia, vol. I, p 83 segg., Pratola Serra 2000. Idem, Il sepolcro formiano di Marco Vitruvio, in “Formianum” VII-1999, p. 45 segg. Idem, Osservazioni sull’architettura della Tomba di Cicerone a Formia, in “Formianum” IX-2001, p. 11 segg. L. Quilici, Santuari, ville e mausolei sul percorso della via Appia al valico degli Aurunci, in “Atlante tematico di topografia antica, Acta 13 – 2004, p. 441 segg.
Didascalie delle immagini 1 - Miliare di Nerva sulla via Appia presso il confine con Itri. 2 – Ricostruzione della Tomba di Cicerone (Ciccone 2001). 3 – Resti del sepolcro di Marco Vitruvio con corrispondente ricostruzione (Ciccone 1997). 4 - La Fontana Romana e i pozzi sul precedente lastricato negli anni 1930 (da Quilici). 5 – Il sepolcro detto Torricella in contrada S. Pietro. 6 – Affioramento del lastricato della Via Appia sul tratto orientale.

giovedì 25 gennaio 2024

VITRUVIO IN DUE NINFEI A FORMIA - di Salvatore Ciccone
Nello scorso articolo ho trattato del sepolcro recentemente scoperto a Formia sulla via Appia, dal quale si è dimostrata provenire l’iscrizione di età augustea del titolare, un Marco Vitruvio, riutilizzata nel vicino ponte di Rialto risalente al 1568 e che ha indotto i classicisti a ritenerla riferita all’architetto di Cesare e che ad Augusto dedicò il suo celebre trattato sull’Architettura, pertanto facendo ritenere questa città la sua più probabile patria. Per la restituzione grafica del sepolcro ho fatto riferimento al criterio proporzionale analogo a quello impiegato in uno dei due cosiddetti ninfei di tarda età Repubblicana nella prossima zona costiera, architetture che presentano riscontri con l’opera di Vitruvio. Si tratta di due originali sale voltate articolate da colonne in una vasta residenza romana compresa nella Villa del principe di Caposele, divenuta nel 1852 luogo di vacanza di re Ferdinando II di Borbone, oggi proprietà Rubino; entrambe hanno sul fondo un vano a nicchia con fonte sorgiva e per questo ricondotte al tipo dei ninfei. Nella pianta le due sale si distinguono dai prevalenti ambienti uniformi di sostegno di un originario piano residenziale, elevato dall’attuale giardino di circa metri 7,50 e già ridotto in orto pensile, che ricalcano l’andamento di una rupe ai cui piedi scaturisce la sorgente; la fronte rettilinea degli ambienti si elevava di circa 2 metri da una vasta peschiera antistante, i cui resti furono interrati dai Borbone nell’ampliamento del giardino. Il “ninfeo minore” ha una pianta su matrice quadrata che forma un ambiente principale scandito da quattro colonne doriche, approfondito in una nicchia con fontana. La parte principale è ricostruzione dei Borbone da un’unica colonna e volte perimetrali superstiti, riproponendo un soffitto centrale a padiglione sospeso su lunghe piattebande. La decorazione generale a pietre spugnose richiama una grotta cui si aggiungono effetti pittorici e illusori: nella volta a botte della nicchia con scomparti a sassolini, conchiglie e paste vitree; nelle pareti a stucco con porte inquadrate da motivo architettonico; sulla colonna in un residuo di mosaico a riquadri. Il “ninfeo maggiore” ha pianta sviluppata su matrice rettangolare, con al centro un’ampia volta a botte scandita da lacunari o cassettoni, sostenuta su ambo i lati da quattro colonne doriche di pietra a stucco che spaziano su navate laterali; il fondo ha un vano occupato da fonte in vasca e decorato con pitture ‘egittizzanti’; all’opposto verso l’esterno si allunga una “fauce” di accesso. Nel pavimento di mosaico bianco punteggiato di marmi policromi, si trova al centro una vasca rettangolare o “impluvium” corrispondente all’apertura che esisteva al centro della volta o “compluvium”, di questa la ricostruzione borbonica annullò il risalto delle membrature nei giochi di luci ed ombre, nonché la ventilazione ascensionale. Tra le due sale, la volta di un ambiente reca i resti di intonaco a scanalature per convogliare l’acqua di condensa di un ambito termale del quale è tramandata la presenza di dispositivi di riscaldamento delle pareti. Ciò richiama l’abbinamento usuale di “balneum” con “triclinium” o sala da pranzo, della quale nello sviluppo a colonne, Vitruvio (“De Architectura”, VI, 3, 9) la nomina “oecus” e ne classifica tre tipi tra i quali il tetrastilo e il corinzio e che, dal greco “oikos”, casa, si deduce assimilati al nucleo della casa romana e di quella greca corinzia. Pertanto si devono propriamente riferire al “ninfeo minore” un oece tetrastilo e al “ninfeo maggiore” un oece corinzio, qui complementari così come nella trattazione vitruviana, seppure aggiunti adeguatamente di una fontana. Questa coincidenza risalta più specificatamente nel “ninfeo maggiore” che si riconosce nella descrizione dell’oece corinzio data da Vitruvio (VI, 3, 9): “I corinzi hanno le colonne che posano su di un podio o a terra, e sopra hanno epistili e cornici o in opera nella muratura o di stucco, di poi sopra le cornici, dei lacunari curvi che girano interrotti alle reni”; quest’ultima espressione allude ad volta di muratura a pieno centro, dove le reni sono le porzioni poco superiori ai piani d’imposta che non generano spinte laterali, per il resto ridotte dall’alleggerimento dei lacunari. Maggiori evidenze sul genere delle due sale si acquisiscono nello studio delle proporzioni. L’oece tetrastilo ha la pianta inscritta in un quadrato che comprende lo spessore del muro frontale, come pura quadrata è la nicchia, rivelando il criterio proporzionale dal teorema di Platone a quadrati concentrici tramandato da Vitruvio (IX, pref., 4-5): il quadrato principale della sala è di lato 25 piedi che nella serie concentrica trova nella sua metà di 12,5 piedi il lato della nicchia, traducibile in 25 palmi (1 palmo = m 0,074), cioè corrispondente al numero di piedi del quadrato maggiore. Anche l’alzato riscontra le regole stabilite da Vitruvio: la colonna di ordine dorico di altezza 14 volte il raggio di base (IV, 3, 4), qui di metri 4,14 su raggio di 1 piede; l’altezza della sala quadrata pari alla somma della larghezza con la sua metà (VI, 3, 8), qui presa tra i limiti interni delle colonne dà metri 5,85 in difetto di 15 centimetri, ma rispetto alla volta ricostruita. Nell’oece corinzio, la pianta risulta composta di tre rettangoli di diversa dimensione ma di medesima proporzione regolata da un segmento comune di 7,5 piedi ossia 30 palmi, che è il numero in piedi della lunghezza della sala colonnata: in questo segmento si deve perciò individuare il modulo che nel rettangolo maggiore scandisce la lunghezza in cinque parti e la larghezza in quattro, stabilendo una comune proporzione di 5:4. Il modulo poi decuplicato collima la lunghezza totale della sala con 75 piedi o 300 palmi, mentre la larghezza massima tra le pareti delle navate è di 37,5 piedi o 150 palmi, quindi rispettivamente di moduli 10 e 5 ribadendo il rapporto 1:2 prescritto per i triclini. Da ciò risalta pure come lunghezza totale dell’oece tetrastilo, di 37,5 piedi o 150 palmi, è la metà di quello corinzio dimostrando l’unità progettuale delle due sale. Anche nell’oece corinzio l’altezza confronta la proporzione prescritta da Vitruvio per i triclini, media della somma tra lunghezza e larghezza, qui in presenza delle colonne nel rapporto 1:2 della pianta la lunghezza effettiva di piedi 30 e larghezza la sua metà dà 3 moduli pari a 22,5 piedi (metri 6,65), in altezza coincidente al fondo dei lacunari di effettivo soffitto. La ragione del modulo di 7,5 piedi nel rapporto 5:4 dei rettangoli della pianta, si ha quando la misura viene convertita nel diretto multiplo del piede che è il cubito equivalente a 1,5 piedi (metri 0,445) e che ne assomma appunto 5; al contrario il numero 4 del rapporto dato in cubiti equivale a 6 piedi. A ciò Vitruvio (III, 1, 1-9), riguardo alle proporzioni degli edifici assimilate al corpo umano, fa corrispondere l’altezza e la larghezza con le braccia distese ad un quadrato proprio di 6 piedi di lato; inoltre inscrive il corpo in un cerchio con centro nell’ombelico a toccare le estremità degli arti divaricati. Al cerchio non dà una dimensione, ma dandogli il diametro di 7,5 piedi e cioè 5 cubiti, esso è tangente la base del quadrato e tocca i due angoli opposti, nel quale si verifica la collimazione con le membra. È quindi configurato uno schema di “symmetria” dimensionato dal cubito in cui si individua il modulo della sala, verificato dal fatto che in quella combinazione geometrica si inscrive perfettamente la pianta collimandone i punti principali. Dunque l’individuazione del criterio proporzionale dell’oece corinzio di Formia ricondurrebbe all’autentico schema geometrico dell’uomo vitruviano, che sicuramente non può corrispondere a quello celebre di Leonardo basato su numeri irrazionali, a decimali infiniti, non modulabili nell’Antichità e non confrontabili all’allora sistema di misura. La decifrazione architettonica dei due oeci trova così con opera di Vitruvio una stringente serie di correlazioni fino a risalire allo schema basato sul corpo umano. Ciò mi ha inoltre consentito una innovativa interpretazione della perduta basilica a Fano, da egli concepita e descritta, secondo la stessa somiglianza con gli oeci corinzi. Queste circostanze si possono ricondurre ad un medesimo autore, rafforzando di Vitruvio la presenza a Formia e che in aggiunta alle altre consistenti testimonianze ne rendono più probabile l’origine. Pertanto questi oeci, architettonicamente già riconosciuti basilari ed ora di tangibile correlazione alla sua opera, si presentano eccezionali come documenti di riferimento e risorsa culturale, ad identità ed onore della cittadinanza. ****** Per un’ampia bibliografia sull’argomento: S. CICCONE, Sale con volte su colonne al tempo di Vitruvio: gli esempi originali di Formia, “Formianum” VI-1998, Marina di Minturno 2002, pp. 11-29; AA. VV., Vitruvio opera e documenti, “Formianum” VIII-2000, Marina di Minturno 2009. Una sintesi più recente dello stesso autore è nella rivista “Lazio ieri e oggi”, anno LV, n. 7-9, 2019, pp. 250-56.
Nelle immagini: Veduta verso settentrione della Villa Caposele dal porto omonimo e planimetria dell’area archeologica: nella linea rossa la sostruzione voltata; A – “ninfeo maggiore”; B – “ninfeo minore”; il “ninfeo minore”, propriamente oece tetrastilo, nella parziale ricostruzione borbonica e nella antecedente illustrazione di Pasquale Mattej (“Poliorama pittoresco”, IX -1845); pianta dell’oece tetrastilo basata sullo schema di simmetria dal teorema di Platone, a destra (CICCONE 1998); il “ninfeo maggiore”, propriamente oece corinzio, con la volta ricostruita dai Borbone e con gli effetti di luce dall’originario compluvium, nell’incisione di LUIGI ROSSINI (Viaggio pittoresco da Roma a Napoli, Roma 1839); pianta dell’oece corinzio con a destra il diagramma dei rettangoli costituenti in cui si individua il modulo (CICCONE 1998); schema di “symmetria” vitruviano del corpo umano commisurato al piede (B) e al cubito (A), nel quale si inscrive e coincide la pianta dell’oece corinzio (CICCONE 1998-2000).

martedì 23 gennaio 2024

I VENTICINQUE PONTI
La storia del viadotto del Pontone, i cosiddetti “25 Ponti” la conosciamo legata alla ferrovia Gaeta – Formia – Sparanise, inaugurata il 4 maggio 1892, quando venne aperta all’esercizio la nuova linea ferroviaria che da Sparanise raggiungeva Gaeta, passando per Sessa Aurunca, Minturno e Formia. Per Gaeta, isolata dall’entroterra e non attraversata dall’Appia, si dimostrò immediatamente un importante punto di comunicazione. I “25 Ponti” costituiscono una imponente opera, forse tra le più importanti realizzate alla fine dell’800 nel basso Lazio: in località Piroli sovrapassavano l’Appia e si presentavano maestosi al viandante del tratto Itri - Formia. Nel giugno del 1933, alla presenza di numerose autorità, tra cui l’allora Ministro degli Interni Costanzo Ciano, prese il via la “Littorina”, nuova automotrice con motore a scoppio di 120 HP, capace di raggiungere una velocità massima di 130 km. orari, che in seguito collegherà in pochi minuti il centro di Gaeta a quello di Formia, passando sullo storico viadotto. Diversi tratti della linea ferroviaria furono fatti saltare dai genieri tedeschi, che nel 1943 minarono i “25 Ponti”, riducendo 21 delle 25 arcate dell’imponente viadotto ferrato in un ammasso di macerie. Soltanto nel 1948, vennero appaltati dalle Ferrovie dello Stato i lavori di ricostruzione, ultimati nel 1950. L’Impresa Bajetti-Rocchi di Roma si aggiudicò la ricostruzione del viadotto composto da 25 luci di ml. 12 ciascuna, e ricostruito con le stesse caratteristiche tecniche e architettoniche del precedente. Con l'inaugurazione della Stazione di Formia sulla, direttissima Roma - Napoli, avvenuta il 16 luglio 1922, iniziò un lento declino della linea ferroviaria Gaeta - Formia - Sparanise. Da itinerario alternativo per raggiungere Napoli da Roma, nel luglio del 1957 venne chiusa e trasformata in collegamento di servizio urbano tra le città di Formia e Gaeta. Nel 1966, senza apparenti importanti motivazioni, la littorina andò in pensione ed il traffico passeggeri, che era notevole, venne effettuato con autobus che collegavano le due stazioni ferroviarie, senza effettuare fermate intermedie, ed il tronco ferroviario venne usato esclusivamente per il trasporto merci. Infine la chiusura dell’A.V.I.R. (la vetreria di Gaeta) mandò in completo disuso l’intero tratto, lasciando i “25 Ponti” in totale abbandono. Il traffico caotico che collega Formia e Gaeta soprattutto nel periodo estivo, imporrebbe oggi il ripristino di questo collegamento ferroviario tra le due città, senza eccessivi impegni di spesa; la breve distanza consentirebbe ancora il trasporto ferroviario, evitando gli onerosi costi di elettrificazione, consentendo alla famosa “Littorina” di ritornare a fare spola tra Formia e Gaeta. Da qualche anno si sta lavorando per il ripristino della linea ferroviaria ma tra burocrazia amministrativa e ricorsi vari ancora non si sa quando il servizio ferroviario ritornerà ad essere operativo.. I VENTICINQUE PONTI La storia del viadotto del Pontone, i cosiddetti “25 Ponti” la conosciamo legata alla ferrovia Gaeta – Formia – Sparanise, inaugurata il 4 maggio 1892, quando venne aperta all’esercizio la nuova linea ferroviaria che da Sparanise raggiungeva Gaeta, passando per Sessa Aurunca, Minturno e Formia. Per Gaeta, isolata dall’entroterra e non attraversata dall’Appia, si dimostrò immediatamente un importante punto di comunicazione. I “25 Ponti” costituiscono una imponente opera, forse tra le più importanti realizzate alla fine dell’800 nel basso Lazio: in località Piroli sovrapassavano l’Appia e si presentavano maestosi al viandante del tratto Itri - Formia. Nel giugno del 1933, alla presenza di numerose autorità, tra cui l’allora Ministro degli Interni Costanzo Ciano, prese il via la “Littorina”, nuova automotrice con motore a scoppio di 120 HP, capace di raggiungere una velocità massima di 130 km. orari, che in seguito collegherà in pochi minuti il centro di Gaeta a quello di Formia, passando sullo storico viadotto. Diversi tratti della linea ferroviaria furono fatti saltare dai genieri tedeschi, che nel 1943 minarono i “25 Ponti”, riducendo 21 delle 25 arcate dell’imponente viadotto ferrato in un ammasso di macerie. Soltanto nel 1948, vennero appaltati dalle Ferrovie dello Stato i lavori di ricostruzione, ultimati nel 1950. L’Impresa Bajetti-Rocchi di Roma si aggiudicò la ricostruzione del viadotto composto da 25 luci di ml. 12 ciascuna, e ricostruito con le stesse caratteristiche tecniche e architettoniche del precedente. Con l'inaugurazione della Stazione di Formia sulla, direttissima Roma - Napoli, avvenuta il 16 luglio 1922, iniziò un lento declino della linea ferroviaria Gaeta - Formia - Sparanise. Da itinerario alternativo per raggiungere Napoli da Roma, nel luglio del 1957 venne chiusa e trasformata in collegamento di servizio urbano tra le città di Formia e Gaeta. Nel 1966, senza apparenti importanti motivazioni, la littorina andò in pensione ed il traffico passeggeri, che era notevole, venne effettuato con autobus che collegavano le due stazioni ferroviarie, senza effettuare fermate intermedie, ed il tronco ferroviario venne usato esclusivamente per il trasporto merci. Infine la chiusura dell’A.V.I.R. (la vetreria di Gaeta) mandò in completo disuso l’intero tratto, lasciando i “25 Ponti” in totale abbandono. Il traffico caotico che collega Formia e Gaeta soprattutto nel periodo estivo, imporrebbe oggi il ripristino di questo collegamento ferroviario tra le due città, senza eccessivi impegni di spesa; la breve distanza consentirebbe ancora il trasporto ferroviario, evitando gli onerosi costi di elettrificazione, consentendo alla famosa “Littorina” di ritornare a fare spola tra Formia e Gaeta. Da qualche anno si sta lavorando per il ripristino della linea ferroviaria ma tra burocrazia amministrativa e ricorsi vari ancora non si sa quando il servizio ferroviario ritornerà ad essere operativo..
Nelle immagini il viadotto del Pontone nei primi anni del Novecento, mentre salta sotto le mine tedesche nel 1943, la consegna del cantiere all'impresa Bajetti - Rocchi nel 1948, lo stato dei lavori nel dicembre 1948 e maggio 1949, infine il viadotto a ricostruzione ultimata nel 1950 e la littorina ferma nella stazione di Formia alla fine degli anni '50

mercoledì 17 gennaio 2024

VITRUVIO A FORMIA di Salvatore Ciccone
Vitruvio fu l’autore del “De Architettura libri decem” (I dieci libri dell’architettura) dedicato all’imperatore Ottaviano Augusto e redatto tra il 27 e il 23 prima di Cristo. Come egli scrive in prefazione al primo libro, era stato nell’esercito di Giulio Cesare come sovraintendente alle macchine belliche e, ormai anziano, ottenne un vitalizio da Augusto tramite la sorella di questi Ottavia; in riconoscenza all’imperatore, raccoglie le sue cognizioni di architetto nel trattato, quale sussidio ai programmi di rinnovamento edilizio da quello intrapresi. Egli dimostra le conoscenze della disciplina e gli espedienti di mestiere, concretizzati nel quinto libro nella basilica da lui progettata e diretta nei lavori a Fano, evidentemente l’apice professionale convenientemente di ambito pubblico. Della diffusione del trattato si ha riscontro nell’opera di Frontino e nel compendio di Faventino, mentre Sidonio Apollinare nel V secolo indica Vitruvio come esponente dell’architettura. Il testo serbato nelle biblioteche monastiche ricomincerà a circolare nel Trecento; ritornerà alla ribalta con Leon Battista Alberti, affermandosi come uno dei cardini del Rinascimento, basilare nell’interpretazione dell’architettura classica, dell’arte del costruire e dello stesso mestiere dell’architetto, fino all’Ottocento. Eppure di Vitruvio è ignota la terra natale, nonché la veridicità dell’intero nominativo, Marco Vitruvio Pollione. Varie le identificazioni delle origini: Fano per via della Basilica, Fondi per quel Marco Vitruvio Vacco a capo della rivolta contro Roma nel 330 a.C.; quindi per le iscrizioni a Roma, Verona e in Numidia su un edificio pubblico finanziato da un Marco Vitruvio Mamurra, per il quale l’architetto creduto lo stesso ricchissimo formiano Mamurra, capo del genio militare e amico di Cesare, ipotesi destituita di ogni fondamento. Tuttavia la patria più accreditata è Formia, per il numero di iscrizioni seconda solo a Roma e perché in esse sono menzionati sia personaggi gentilizi, sia i liberti e in un arco di tempo che va almeno dal I secolo avanti Cristo al terzo dopo Cristo. Di recente lo studio di alcuni monumenti formiani rivela interessanti legami con il trattato. Nei cosiddetti Ninfei tra i resti di una residenza in Villa Caposele (oggi Rubino), si è risaliti al criterio modulare strettamente correlato ai concetti della “symmetria”, identificati nel famoso schema proporzionale dell’uomo nel cerchio e nel quadrato ripreso da Leonardo: le stringenti corrispondenze nella datazione dei “Ninfei” possono ricondurre allo stesso Vitruvio e ad avvalorare la sua origine formiana. Tra le numerose epigrafi, particolare è quella funeraria di un Marco Vitruvio, più volte menzionata dagli studiosi del passato, il cui blocco si trova riutilizzato nelle spalle del ponte di Rialto datato 1568, all’ingresso occidentale della città. Essa si trova inizialmente citata in una imprecisa trascrizione di Leandro Alberti nella sua “Descrittione di tutta Italia” edita a Bologna nel 1550: “[…] vicino a Mola, ove si veggono molti vestigi d’antichi hedifici et anche molti marmi spezzati, nelli quali leggonsi molti epitaphi antiqui, delli quali ancun io descrivero, come vidi passando quindi per andare a Napoli. Et prima si vede una tavola di marmo posta nelle mura di un nuovo edificio, lunga piedi sei, e larga uno e mezo in due parti spezzata, in cui sono scritte queste parole. EX TESTAMENTO. M. Vitruvii Menpiliae hoc Monumentum. Her. E. N. M. Poi in un’altra tavola di quattro piedi per lato. Q. Cisuitius. Q. L. Philomusus an. Mor. Cisuitius. Q. L. Philomusus. M. N. M. Vitruvius. M. L. De. Vitruvius e Vitruviis Chreste. M. Vitruvius. S. M. L. Fratrem.”. Della prima iscrizione Pasquale Mattej a metà Ottocento documenta sotto il ponte due distinti testi parziali, così successivamente integrati da Mommsen (CIL X, 6190): A) “M . VITRVVIVS (…)”, non riportato dall’Alberti, titolo a caratteri “capitali” di età augustea alti cm. 24; B) “EX . TESTAMENTO arbitratu / M . VITRVVI . M . L . APELLAE . ET (…) / HOC . MONVMENTVM. HEREDEM non sequitur”, quello inizialmente documentato, a lettere più piccole, oggi coperta da un gradone cementizio: il testamento concerne il sepolcro di un Marco Vitruvio eretto da un suo liberto M. Vitruvio Apella e non destinato ad eredi. Grazie alla stessa documentazione di Mattej, presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma, ho potuto identificare il sito di provenienza delle epigrafi: in alcuni disegni ritrae un tratto della via Appia prossimo al ponte, dove ai piedi di un casolare cinquecentesco sono i resti di due monumenti funerari contigui, uno in “opus quadratum” ed uno in reticolato con cantoni a blocchetti di calcare e laterizio; di questo in un appunto si specifica l’epigrafe rimossa alla fine del Settecento dal principe di Caposele e collocata nel lapidario all’ingresso della sua villa. Queste indicazioni trovano conferma nel 1997, allorché sul quel tratto dell’Appia (attuale via G. Paone) prossimo alla Fontana Romana e ad un sepolcro a torretta ottagonale, la creazione di un passaggio attraverso un vecchio muro di contenimento ha fatto affiorare una struttura funeraria sulla quale è intervenuta la Soprintendenza Archeologica. L’elemento resosi evidente nella sezione del dislivello, consisteva nel grosso nucleo cementizio di un monumento a pianta quadrangolare in origine rivestito di blocchi lapidei, recinto sul lato monte con un muro in “opus reticulatum” di prima età augustea, similmente replicato sul lato occidentale per altro ambito funerario. Queste aree hanno restituito diverse olle cinerarie protette dal terreno con pance d’anfora capovolte, i cui puntali fungevano da segnacolo; dall’area relativa il monumento, affiorarono anche le inumazioni sovrapposte di un uomo, di una donna e di due bambini. I contenitori delle ceneri e gli elementi di corredo, balsamari, lucerne ecc., vanno dalla fine del I secolo a.C. al II d.C., congruenti a monete, gli “oboli di Caronte”, di età giulio-claudia, flavia e di Adriano; reperti conservati ma non esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Formia. Ciò che resta del monumento sembra non offrire appigli alla restituzione della sua forma. In realtà l’analisi costruttiva, metrologica e tipologica mi hanno consentito una ipotesi della sua architettura. Il nucleo in “opus caementicium” di pietre calcaree è in strati alti m 0,60 (2 piedi romani; 1 piede = m 0,2957), indicando la pari altezza degli elementi del rivestimento lapideo, poiché all’interno vi si eseguivano i progressivi getti cementizi, coesi tramite lo spargimento di minute scaglie calcaree derivate dalla lavorazione dei blocchi perciò di pari materiale: queste indicazioni sono congruenti ai reperti documentati sotto il ponte, tra i quali un pezzo di fregio dorico in cui si presenta un fiore con quattro foglie dagli apici ritorti e un tortiglione centrale che richiama il bocciolo di una viola, insieme alle rose fiori specifici del culto funerario. La struttura del sepolcro ha pianta quadrata e dalle impronte lasciate dai blocchi è riferibile al modello dell’altare a fregio dorico introdotto dalla fine del II secolo a.C., contenente una cella di contenute dimensioni. La pianta della struttura, compreso il recinto in “opus reticulatum”, è un quadrato di lato m 5,90 cioè 20 piedi e che sostanzia la proporzione del monumento con lo schema geometrico di Platone del rapporto √2 costituito da quadrati concentrici o in equivalenza alterni a cerchi, come appunto verificato in uno dei “ninfei” in Villa Caposele. In questo schema si ottengono coincidenze con le tracce sulla struttura, fornendo indicazioni anche per le altezze del monumento: il basamento o podio risultava alto di 10 piedi (m 2,97), quella complessiva di 28 piedi cioè m 8,28 di cui l’altare di 18 piedi (m 5,32). Nel modello ricostruttivo trova pure congrua collocazione l’iscrizione del “patronus”, che prima di svincolato valore documentale, ora si identificava con il monumento riaffiorato. In base ai vari esempi, l’epigrafe “capitale” si colloca bene al centro dello zoccolo dell’altare, mentre la disposizione testamentaria è adeguata sulla fascia del podio; invece lo scomparso epigrafista Lidio Gasperini le riconduce entrambi all’altare. Resta aperto il problema dell’identità di questo Marco Vitruvio, già ritenuto quello autore del “De Architectura” ed ora più probabile in concordanza alle informazioni scaturite dal sepolcro, fatto questo di eccezionale significato tuttavia ancora misconosciuto: così è il sepolcro, volutamente in via di occultamento con vegetazione rampicante in violazione alle norme manutentive del monumento vincolato; nondimeno è il Ponte cinquecentesco con i suoi frammenti epigrafici; quindi il principale corso cittadino intitolato a Vitruvio non reca che generiche targhe. A ciò, altre città tentano in ogni modo di attribuirsi la natalità di Vitruvio e con vane congetture; Formia invece continua ad ignorare i documenti materiali di quello che fu uno dei principali artefici della cultura occidentale.
Bibliografia - NICOLETTA CASSIERI, Nuove acquisizioni sul culto funerario nel Lazio meridionale: un sepolcro lungo l’Appia a Formia e un sarcofago cristiano a Fondi, “Formianum” VI – 1998, ed. 2002, p.33 segg. - SALVATORE CICCONE, Il sepolcro formiano di Marco Vitruvio, “Formianum” VII-1999, ed. 2007, p.47 segg. - AA. VV., Vitruvio opera e documenti, “Formianum” VIII-2000, ed. 2009.
Immagini: 1 – L’area funeraria di Marco Vitruvio sulla via Appia, come è oggi ricoperta da edera, e come ritratta da Mattej nel 1847 (Bibl. Vallicelliana, Roma). 2 – Blocco epigrafico alla base della spalla del Ponte di Rialto con disegno integrativo del titolo. 3 - Sepolcro di Marco Vitruvio, vista dei resti verso oriente e dalla parte superiore. 4 – Sepolcro di Marco Vitruvio, disegno restitutivo (CICCONE 1999): in basso a destra, proporzione teorica della pianta sullo schema in rapporto √2 a sinistra determinante l’effettiva posizione regolarizzata delle parti; sopra, alzato frontale secondo il criterio modulare; a destra, sezione trasversale con vano della cella e in tratteggio il nucleo esistente.