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mercoledì 21 giugno 2023

NUOVE SCOPERTE SUL CULTO DI SAN GIOVANNI BATTISTA A FORMIA - di Salvatore Ciccone
La ricorrenza di San Giovanni Battista di Formia, con Sant’Erasmo compatrono della città, si rinnova nella vivacità della festa e induce ad indagare oltre la tradizione su alcuni elementi connessi al culto. Ho qui a più riprese trattato della statua lignea che si venera nella chiesa Parrocchiale del rione Mola intitolata ai Santi Giovanni Battista e Lorenzo, questa sostitutiva l’antica vicina al duecentesco Castello costiero, riadattata nel XVIII secolo ma insufficiente: il nuovo edificio, iniziato dall’architetto Gustavo Giovannoni a cavallo del secondo conflitto mondiale, in cui venne bombardato quello originario, fu compiuto dall’architetto Giuseppe Zander. Il simulacro si confronta con le opere Giuseppe Picano, nato a Napoli il 14 maggio 1716 da Francescantonio originario di Sant’Elia Fiumerapido e Dorotea de Mari; fu sacerdote scultore di figure sacre formatosi nella bottega paterna d’arte presepiale, caposcuola di grande fama e lunga vita artistica morto ultranovantenne. Tale ipotetica attribuzione (la sua firma sulla statua non è ancora stata verificata) richiama la tradizione locale sull’origine della scultura, che la vuole fatta da un tronco spiaggiato fuori il Ponte di Mola e perciò sul lido di levante: un contadino di Castellone, il borgo alto di Formia, lo aveva recuperato con il suo asino come ceppo da ardere, ma misteriosamente riportatosi tre volte sullo stesso lido nonostante l’ostinazione del villico, la quarta volta si ritrovò davanti al portone della chiesetta di San Giovanni Battista posta ai piedi di Castellone; oggi è scomparsa e il nome resta al vico su via Rubino. Il prodigio venne intrepretato come una volontà del Santo e perciò il legno inviato ad un valente scultore di Napoli per realizzarne una statua, la quale giunse via mare e in solenne processione condotta nella chiesa; questa sconsacrata nel medesimo secolo, gli arredi con la statua furono acquistati dalla Congregazione di San Giovanni della chiesa di San Lorenzo di Mola. Quella chiesa di Castellone compare in un atto del 1490 (Gaeta, Archivio Capitolare f. III-B, n. 133) col nome di San Giovanni “in flumia” cioè “presso il fiume” ed è evidente che in quel luogo del borgo, in congrua distanza non esiste e non è esistito alcun corso d’acqua; invece in un ulteriore atto del 1516 a questa chiesa era pertinente un orto a Santo Janni, la zona litorale ad oriente di Formia, separata dal promontorio di Giànola dall’omonimo rio o fiume. Dunque compare un legame tra il luogo del rinvenimento del prodigioso tronco alla stessa chiesa in Castellone, evidentemente relazionata ad una campestre presso quel fiume che le dava il nome come al territorio litorale, storicamente legato a Castellone poiché gli abitanti agricoltori e allevatori. Individuare il sito di questa chiesa rurale non è semplice e probabilmente infruttuoso, vista la trasformazione urbanistica dei luoghi, tuttavia si può tentare qualche ipotesi sperando di trovare riscontri. Un documento del 1143 (Rubrica delle carte del Monastero di S. Erasmo, 1993) cita presso Giànola due chiese, S. Gennaro e S. Giovanni “de Trullo”; della seconda l’aggiunto si può riferirsi ad una “cupola” o comunque ad un cumulo che farebbe pensare alle rovine del cosiddetto “Tempio di Giano” in sommità alla villa romana sul promontorio; tuttavia ciò è in contrasto con l’orto citato e con le specifiche denominazioni di vie campestri poste sul piano costiero e riferite a Santo Janni, perciò il “trullo” da ricondurre a diverso contesto. La denominazione “in flumia” della Chiesa di Castellone dà più ampio spazio alla localizzazione della dipendenza campestre, poiché la sua traduzione dal latino è “presso il fiume” come pure “verso” o “dalla parte del fiume” e ciò assume importanza rispetto agli abitati di Mola e Castellone dai quali il territorio circostante era indicato in approssimazione a principali punti di riferimento, in questo caso il versante verso il fiume di Giànola e certamente da esso compreso; quindi era effettivamente interessata un’ampia porzione di campagna e più la parte litoranea desinente alla foce. Una possibile indicazione è fornita da testimonianze che segnalano la presenza di ruderi sulla costa tra via Santo Janni – Pescinola e via del Mare già Pescinola, in corrispondenza all’estrema parte rilevata del suolo seguita dalla depressione verso oriente alla foce e appunto denominata “pescinola” perché acquitrinosa: in particolare si ricorda che nel 1965 si rinvennero “due vecchie tombe piene di ossa” in vicinanza di strutture riferibili ad una chiesa. Le antiche mappe catastali riportano nel luogo un edificio quadrangolare allungato alla costa con spiazzo, quest’ultimo attualmente rimasto vicino l’incrocio della Santo Janni - Pescinola. In questa situazione risalta una stampa di Pontremoli su “Il Mondo Illustrato” circa del 1860, ma copiata da una più antica, che rappresenta rimpetto al lido in questione, dal quale è caratteristico il profilo di Gaeta, il cantone verosimilmente di una chiesa con l’effigie parietale di una Madonna col Bimbo: vi si fissa l’incontro tra un alto prelato e, pare, un vecchio eremita seduto su un antico fregio; sulla spiaggia attende una barca con ornato tendalino e bandiere, mentre transita una donna con un asino. Di certo questi luoghi era più facile raggiungerli via mare, come fece e narrò Pasquale Mattej nell’illustrare le vestigia di Giànola sul Poliorama Pittoresco” nel 1845; nel caso dell’immagine si poteva trattare di una visita pastorale compiuta da un vescovo. Però c’è però da considerare che da qui verso Formia insisteva il toponimo “Sant’Anna”, zona presso l’attuale Parco De Curtis dove sono più documentati resti di una villa romana e alla quale poteva riferirsi l’immagine pur se meno verosimilmente. In conclusione bisogna pazientare e umilmente cercare, sperando di far luce su quanto di storico riguarda il culto di San Giovanni Battista a Formia, mentre su tutto vale la fede verso il Santo precursore di Cristo.
Didascalia delle immagini 1 - La settecentesca statua di San Giovanni Battista nella chiesa titolare di Formia. 2 - Una statua scolpita da Giuseppe Picano: San Giovanni Battista a Pannarano (1750). 3 – Probabile scorcio di chiesa presso Santo Janni, incisione replicata da Pontremoli intorno al 1860.

martedì 6 giugno 2023

Un'antica stazione marittima a "Scàuri" - di Salvatore Ciccone
Gli attuali accadimenti nell’Area Naturale Protetta di Giànola e Monte Scàuri, inclusa nel Parco Regionale Riviera di Ulisse, impongono una consapevolezza del valore unitario di quella che non può essere distinta nei confini dei territori dei due Comuni contermini, Formia e Minturno. In particolare recenti lavori hanno alterato l’area archeologica della villa romana di Mamurra a Giànola, dalla parte di Formia, e problematica è la condizione di quella dalla parte di Minturno attribuita alla villa di Scauro; intanto il nuovo Piano di Assetto del Parco considera queste testimonianze di ambito economico, in pratica enucleate dal contesto in cui si sono originate; ad evidenziarne i valori, riporto una mia nota con parte dei miei disegni sulle vestigia di Scàuri, in appendice al volume di Antonio Lepone, “Marco Emilio Scauro Princeps Senatus”, Caramanica Editore, 2005. * * *
Il sito archeologico di Scauri è rimasto immeritatamente estraneo all'interesse degli studiosi perché posto al margine di due antichi centri, Formia e Minturno, presso l'isolato rilievo dei Monti Aurunci che si inoltra nel Tirreno. Il complesso monumentale manifesta l'uso ripetitivo delle opportunità offerte dalla natura: un'insenatura per un comodo approdo e un ruscello di acqua sorgiva lungo la direttrice di vari collegamenti, alla via Appia e con l'entroterra. La sua componente coesiva consiste in un muro in opera poligonale o megalitico lungo circa 120 metri, al quale si relazionano strutture di epoca romana per formare una vasta terrazza su un'ansa marina volgente ad est. Agli eruditi è sembrato perciò appropriato attribuire questi ruderi alla villa del console Marco Emilio Scàuro dal toponimo di Scàuri, dall'anno 830 legato alla presenza di mulini ad acqua e di un borgo e per la difesa dei quali eccelle la torre quadrata trecentesca. Le mura megalitiche poi, sono dagli studiosi dei primi decenni del Novecento fatte risalire al secolo VIII a.C. e al popolo Aurunco, identificate con “l'oppidum Pirae” citato da Plinio il Vecchio come centro decaduto tra Formiae e Minturnae. In questa attribuzione l'elemento di spicco è lungo l'andito che saliva sulla terrazza: una porta con profilo ad ogiva tronca, larga metri 2,30 ed alta 4,70 circa, formata da blocchi di pietra progressivamente aggettanti contrapposti in sommità ad un architrave. Di recente essa è datata alla fine del IV secolo a.C. perché una simile struttura si trova sottoposta alla via Appia presso Itri, induzione priva di attendibilità passando quel tragitto in un punto obbligato anche in precedenza. Parimenti appare superata la classificazione dell'opera poligonale fatta dal Lugli, dove la "IV maniera", quella con blocchi a bugna sulla faccia a vista, presente in entrambi i luoghi, risale al massimo al III secolo a.C. Dunque, se lo stesso Lugli attribuisce genericamente la copertura a pseudo arco al secolo VII a. C. e diffusa nell'Etruria marittima, la sua combinazione con quella "maniera" non può essere repubblicana e difatti egli non data le mura di "Pirae". In effetti la tecnica di copertura è molto antica, ma dai Micenei fu introdotta presso i Fenici che poi la trasmisero agli alleati Etruschi, ossia Tirreni, proprio durante la massima espansione per mare di questi ultimi che influenzò i popoli vicini. Di questa alleanza, in Etruria, sono prova i culti nel porto di “Caere”, “Pyrgi”. A rendere più interessante l'argomento è la considerazione che si ebbe della porta di Scàuri in epoca romana. Mentre in età repubblicana l'andito era usato e coperto con volta a botte per conferire continuità al piano superiore, nel primo Impero il vano di accesso venne occupato da una vasca ornamentale ovale in “opus reticulatum”, evidenziando l'inagibilità del percorso quasi certamente per infiltrazioni d'acqua. Appare quindi chiara la presenza sostitutiva di un corridoio voltato a rampa e scale, affiancato alla porta e posto su un livello superiore. L'intento di "musealizzare" con la vasca l'antico camminamento caratterizzato dall'arcaica copertura, farebbe supporre come i Romani fossero coscienti dell'antichità di questa architettura. L'esigenza utilitaria aveva già risparmiato gran parte delle mura in poligonale, sostituite o integrate laddove esse erano cadute o in procinto di crollo, fatto sotteso nell'altra notevole struttura appartenente alla stessa fase repubblicana. È una sostruzione a sette fornici con muri in “opus incertum” e volte a botte, lunga una trentina di metri, posta in continuazione del tratto sud del muro bugnato dove era una torre quadrangolare: la scarsa e variabile profondità dei fornici sembra dovuta alla retrostante presenza in curva delle antiche mura e allo scopo di sostenerle, tanto che due di essi, in parte chiusi anteriormente, formano delle casse ripiene di pietrame per assicurare il maggiore contenimento della spinta. A rendere caratteristica la costruzione sono gli archivolti costituiti da conci lapidei perfettamente sagomati e cementati nelle volte, "girate" con ben più rozzi elementi, apparecchiatura ancora legata alla pratica di una esecuzione strutturale a secco e che si colloca tra II-I secolo a.C.: i fornici, perlopiù larghi oltre tre metri e alti poco più di cinque, possono aver sostenuto un corpo di fabbrica ed essere stati impiegati solo per scopi utilitari, non essendo presente in essi alcuna impostazione decorativa. Da questa sostruzione, un muro alto circa tre metri del medesimo “opus incertum” si protende zigzagando per oltre 60 metri verso il promontorio, interrotto dalla strada che vi sale. È da ritenere che l'insediamento fosse radicato alle falesie della zona "Olmo - Monte d'Oro", dove gli scritti tramandano l'esistenza di un molo dotato di anelli di pietra per l'ormeggio, di una peschiera trapezoidale e di un ninfeo in grotta, testimonianze in gran parte coperte da interventi di urbanizzazione. La peschiera ed il ninfeo, forse un triclinio estivo, rappresentano una trasformazione lussuosa della villa tra tarda Repubblica e primo Impero nell'ambito di un porto privato. L'occasione di un approdo appare qui fondamentale: quando il territorio circostante era caratterizzato da un sistema di colonizzazione sparso di tipo familiare, poneva la necessità di una sua tutela che non poteva differire dalla costituzione di un insediamento di tipo urbano; poi al maggior sviluppo di finitimi centri portuali si deve la decadenza ed il passaggio a privati commerci. Dunque, in presenza di un'antica stazione marittima, è considerevole che un'altra Scàuri si trovi nell'Isola di Pantelleria, sulla rotta con le coste del Nord Africa dove coltivava interessi il ramo della gente Emilia. Per tutto ciò, l'identificazione ipotetica con “Pirae” e poi con la villa di Scàuro risalta nella sua possibilità e rimane a tutt'oggi valida in assenza di contrarie evidenze archeologiche.
Didascalia delle immagini 1 – Visione complessiva del sito monumentale di Scàuri verso il promontorio. 2 – Porta a pseudo arco ogivale architravato nella cinta poligonale. 3 – I due accessi contigui alla terrazza: a destra della cinta poligonale; a sinistra di epoca romana. 4 – I fornici di età repubblicana di contrafforte ad un tratto della cinta poligonale.