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lunedì 11 dicembre 2023

I COLLAGE SICILIANI DEI COSTUMI DEL REGNO DI NAPOLI
L'arte del collage (unire e assemblare materiali eterogenei per creare opere d'arte), particolarmente popolare nel XX secolo grazie ad artisti come Pablo Picasso e Georges Braque, ha visto il contributo significativo di artisti siciliani tra il XVIII e il XIX secolo. I Collage Siciliani dei Costumi del Regno di Napoli, rappresentano chiaramente esempi precedenti di opere realizzate con la tecnica del collage. La serie "Costumi del Regno di Napoli" è stata creata nel contesto di un progetto ordinato da re Ferdinando IV per documentare gli usi e i costumi delle classi popolari. Gouaches e acquarelli eseguiti da pittori meridionali, come Alessandro D'Anna, hanno dato vita a stampe riprodotte a partire dal 1793 per volere del Re. Queste stampe hanno influenzato la creazione di collages polimaterici, in cui materiali eterogenei come tessuti, metallo e carta vengono combinati per formare opere uniche. Artisti siciliani, tra cui Gaetano Ognibene, hanno giocato un ruolo chiave nella diffusione di questo genere. Questi collages sono caratterizzati dall'uso di colori caldi e materiali diversi, come tessuti, laminette metalliche, fili cartacei, mica e tartaruga. Inoltre, accenni paesaggistici ridotti e la ripetizione di soggetti in varianti minime da parte degli artisti sono evidenti nei collages. Infine, questi lavori non solo documentano i costumi del Regno di Napoli, ma rappresentano vere e proprie opere d'arte autonome, tra le più originali espressioni delle arti decorative siciliane tra XVIII e XIX secolo.
Nelle immagini due collages di costumi tradizionali: uomo e donna di Castellone e donna di Scavoli (Scauri), facenti parte della serie dei Costumi del Regno di Napoli  firmati da Gaetano Ognibene e datati 1800.

martedì 5 dicembre 2023

CICERONE E UN TEMPIO AD APOLLO A FORMIA di Salvatore Ciccone
Il 7 dicembre ricorre l’uccisione di Cicerone, storicamente avvenuta presso la sua villa di Formia in quel giorno del 43 a.C., proscritto in fuga da Roma e ad opera dei mandatari di Marco Antonio. Il luogo dove sarebbe avvenuto l’episodio, indicato dagli scrittori classici presso “Cajeta”, sarebbe rispondente alla zona tra il lido di Vindicio e la valle di Pontone: qui si situa il grande sepolcro detto prima “Torre” e poi “Tomba di Cicerone”, attribuzione supportata da documenti e dalla tradizione risalenti all’alto Medioevo, quando quell’ambito veniva indicato “vico ciceriniano”, ossia la tenuta di Cicerone. Il sepolcro turriforme alto oltre 20 metri, ridotto alla sua ossatura strutturale, è incluso in una vasta area funeraria quadrangolare recintata di circa 5.000 metri quadrati allineata con il lato più lungo alla via Appia. In prossimità di essa, a nord-est del recinto, si trova sepolto un viottolo largo circa m. 2,20 a lastre calcaree, parte sacrificata di un lungo percorso rettilineo ortogonale al mare rimasto in tracce, certamente di uso privato, che incrociava la via litorale identificata con quella tracciata nel 184 a. C. dal censore Lucio Valerio Flacco: vicino al litorale il viottolo separa i resti di due ville, quella occidentale consistente nell’ampio basamento con fronte a nicchie e ubicata nella stessa fascia di terreno del monumento, verosimilmente parte di un unico podere. Riguardo la localizzazione della villa formiana di Cicerone, tra gli elementi tramandati vi è quello della vicinanza di un tempio ad Apollo “affacciato sul mare” (Plutarco, Vite parallele, Cicerone, II, 47), colpito nell’anno 182 a.C. da un fulmine e collocato nel territorio di Formia presso “Cajeta” (Livio, 10. 4. 1). Secondo il racconto di Plutarco, da quel tempio si levarono dei corvi per posarsi sull’alberatura della nave del fuggitivo Cicerone, mentre costretta dal mare avverso prendeva terra e dove ancora quelli lo seguirono nella sua villa con grande schiamazzo e di funesto presagio. Il toponimo “Vindicio”, che si legge nella forma più antica “vindici”, viene semplicisticamente fatta risalire a vindex (vindicis), il luogo della vendetta di Antonio, oppure ad un possedimento di Caio Giulio Vindice. Invece il termine oltre che “vendicatore” può significare “salvatore” tra i possibili epiteti di Apollo; pertanto vindici (dativo) “al salvatore” con valore locativo o dedicativo in riferimento al tempio, dominante su questo tratto di mare affidato alla protezione del dio. La villa litoranea corrispondente al sepolcro si trova nel tratto iniziale dell’insenatura indicata “portus Caietae”, vantaggioso approdo naturale allora nel municipio di “Formiae”. Nella prossimità orientale della villa, dalla via Vindicio (via Flacca) sporge sul mare una platea compatibile all’ubicazione di un tempio. I resti strutturali, già visibili in passato, sono risaltati in una progressiva azione erosiva del mare che fece affiorare nella parte frontale un’antica scogliera protettiva: tale condizione si manifesta già avuta e fissata negli anni 1920-30 in alcune cartoline. La platea reimpiegata alla fine degli anni 1960 per uso di un adiacente stabilimento balneare è di forma rettangolare di circa m. 11 di lato dalla strada e almeno di m. 25 sul fronte mare, con una altezza intorno ai due metri dal lido. È limitata da tratti di muro in “opus reticulatum” di fine Repubblica o età augustea, su fondazione cementizia che ne testimonia la massima dimensione. Particolare è la soluzione di raccordo con la via antica, certo compresa e non molto discosta dall’attuale, consistente in una deviazione obliqua del muro a 45 gradi in suo favore quale invito all’accesso; non meno importante è sulle pareti reticolate la presenza di un rinfianco di muratura cementizia come rinforzo e virtualmente di ampliamento, forse in relazione ad un evento marino che determinò la posa della scogliera protettiva. La platea si trova centrata rispetto ad una viuzza di antica presenza e che infatti in tracce e in mappe si rileva parallela 100 metri oltre l’altra delle ville e del sepolcro, fino all’Appia. Questa disposizione relazionata alla via pubblica e a questa traversa diretta al centro dello spiazzo è una ulteriore indicazione sulla possibile relazione ad un tempio che idealmente viene spontaneo immaginare di forma circolare. Nel ripascimento della spiaggia, praticamente cancellata dalla poderosa mareggiata del 1987, le strutture sono state insabbiate tanto da scorgersi a malapena le parti in opera reticolata. Con i recenti lavori di ampliamento del lungomare, piuttosto che utilizzare questo storico spiazzo, sebbene implicato a concessioni private, se ne è prodotto un altro immediatamente congiunto sul lato occidentale, celando parte delle antiche testimonianze. Durante gli stessi lavori venne inglobato il muro del lungomare a blocchetti di pietra realizzato dai Borbone intorno il 1850 e demolite le caratteristiche spallette con copertura “a bauletto” di cocciopesto: dietro il muro, nel tratto susseguente alla piattaforma, vennero in luce le strutture sostruttive cementizie della via romana e poi i resti di vasche ornate, in corrispondenza della base di villa con nicchie. Per queste vasche si è escluso che vi passasse una via, deduzione non provata per il ridotto ambito di scavo longitudinale e non trasversale alla strada attuale, oltre che inficiata dalla documentazione e dalla stessa oggettiva situazione; invece si può supporre una intenzionalità di monumentalizzare un tratto della strada connessa al “Formianum”, la villa d Cicerone, come del resto si rileva dagli studi recenti in funzione del recinto del sepolcro, per il quale un tratto di più di 80 metri della via Appia venne posto in piano, intervento non certo eseguibile per scopi privati. Certo è che in questa terra si compì uno degli episodi storici universalmente noti e cruciali della storia di Roma e della cultura occidentale; sarebbe opportuno che le testimonianze di quel periodo nel sito potessero essere parimente riconosciute e valorizzate. Una più estesa e documentata trattazione dell’argomento in S. Ciccone, Osservazioni sull’architettura della Tomba di Cicerone a Formia, “Formianum” Atti del Convegno IX-2001, Caramanica Editore 2021 (ISBN 978-88-7425-326-5), pp. 11-38.
Didascalie delle immagini 1-3) Viste della platea (Fototeca Ciccone): con la scogliera riaffiorata sullo scorcio degli anni 1970; nel lato occidentale con l’antico raccordo alla via; in asse alla via antica a monte, con fronte in opera reticolata e parziale rinfianco. 4) Pianta sommaria della platea romana (Ciccone 1979). 5) I ruderi della platea a sinistra e la scogliera in una cartolina anni 1920-30

giovedì 23 novembre 2023

LA RECUPERATA “COLONNA DELLA LIBERTÀ” A FORMIA di Salvatore Ciccone
La “Colonna della Libertà” è un monumento formiano rimasto celato per oltre cento anni e che di recente è tornato al suo posto, in adiacenza al largo Domenico Paone, nella piazza Tommaso Testa. Secondo la tradizione essa ricordava il passaggio delle truppe napoleoniche del 1799 e la costituzione della “Comune di Formia – Mola e Castellone”, nel territorio affrancato da un millennio di subordinazione a Gaeta. Prima del ripristino, il monumento compariva in alcune raffigurazioni e dettagliatamente in una foto del 1900 (fig. 1), costituito da una snella colonna liscia con capitello dorico, innalzata su un piedistallo prima ancora protetto da quattro cippi paracarro; esso rovinò, pare, durante un fortunale nel 1914 e i pezzi rimasti a terra, anche dopo l’esecuzione del nuovo lungomare avutosi nel 1928 per munificenza di Domenico Paone. La piazza già “della Darsena” quando era sul limite della “Spiaggia di Mola”, tangente il tratto sostitutivo della via Appia (la via romana percorreva infatti parte della retrostante via della Conca), era delimitata ad oriente dal palazzo Mattej: da esso la Colonna si trovava a filo della facciata principale a circa a m. 12 dal cantone. Davanti al palazzo era una rotonda sporgente sulla spiaggia contestuale ad una fontana a parete di metà Settecento. Nel primo ampliamento del lungomare degli anni 1850, tolta la rotonda, la fontana venne trasferita sul fondo cieco della piazza e modificata allungando la vasca di abbeveraggio sormontata da cinque botticelle su onde, detta “Fontana delle Cinque Cannelle”: rispetto a questa la Colonna si venne a trovare centrata a poco più di 7 metri. L’origine del monumento nota nella tradizione, si riscontra nello stile architettonico e in un documento della “Comune” che ne affidava l’opera allo scalpellino Giuseppe D’Auria. Con la venuta dei napoleonici, nelle piazze più frequentate e scelte come luoghi di adunanza, si innalzava un “Albero della Libertà”, simbolo popolare della Rivoluzione Francese che in varie illustrazioni d’epoca è un albero oppure un palo eretto, ornato con emblemi del movimento quali il berretto frigio, coccarde tricolore e cartigli con i motti innovatori. Nella piazza della Darsena, sul passaggio obbligato, c’era maggior spazio per un raduno, inoltre si può immaginare come fosse facile reperire un palo tra gli armamenti dei navigli periodicamente tirati in secco. L’innalzamento della Colonna celebrativa quindi deve essere avvenuta nel luogo e in sostituzione dell’effimero “albero”. In effetti nei progetti per l’area del palazzo reale di Napoli, istruiti dal reggente Gioacchino Murat, si scorge una colonna sormontata da statua. È verosimile che anche la Colonna di Formia fosse finalizzata ad una statua, verosimilmente ispirata a quelle dell’epoca della Libertà, tale rendere compiuto il significato e designare il monumento. Questa ipotesi pare avvalorata nella prima raffigurazione conosciuta della Colonna risalente al 1816-1817 e realizzata dall’architetto inglese James Hakewill (fig. 2), dove sul capitello si percepisce una base quadrangolare, impossibile invenzione dell’artista, ma in effetti necessaria a rialzare una statua per la sua completa visione. Dopo il ritorno del monarca spodestato Ferdinando IV di Borbone rinominatosi Ferdinando I, il quale ratificò il Comune il 25 gennaio 1820 con il nome di “Castellone e Mola di Gaeta” in alcune illustrazioni del Mattej il monumento è culminato da una croce sul Calvario (fig. 3). Nel 2011, in occasione del cinquantenario del Lions Club Formia, che fin dalla sua costituzione nel 1961 si era proposto il ripristino del monumento, si riuscì a concretizzare il progetto, catalizzato dal 150° anniversario della ripresa dell’antico nome di Formia (1862-2012) e dal concomitante rifacimento del sito: chi scrive, architetto, venne incaricato del progetto, attendendo alla fase di indagine storica e stilistica e agli elaborati restituivi, insieme ai rapporti con gli uffici di competenza e gli operatori tecnici. Si partiva dagli elementi residuali del monumento, consistenti nel fusto della colonna, di granito grigio, nonché della cimasa di marmo bianco del piedistallo: tutto il resto era perduto. I pezzi risultavano appartenuti a costruzioni di epoca romana: la colonna, con il diametro di base di m. 0,44 equivaleva a 1,5 piedi romani (1 piede = m. 0,2957) ossia un cubito, ma in rapporto a quello l’altezza di circa m.3,50 era in difetto, fatto comprovato dall’assenza delle modanature ai due estremi; la cimasa, alta m. 0,15 e larga agli estremi m. 0,86 corrispondeva rispettivamente a 0,5 e a 3 piedi (m. 0,89), quest’ultima pure in difetto perché riscolpita superiormente con modanatura a “toro”. con l’elemento di misura prevalente della colonna si è potuto risalire al disegno in proporzione dell’intera composizione (fig. 4). L’altezza totale risultava di circa metri 5,30 che si poteva tradurre in 20 palmi napoletani, ciascuno pari a m. 0,265. Il riscontro all’impiego di questa misura si aveva nella cimasa, che nel piano inferiore di appoggio presentava sul perimetro la grossolana e più recente scanalatura ampia circa cm. 5 e necessaria per alloggiare le lastre di rivestimento del piedistallo: questo perciò risultava largo m. 0,66 esattamente 2,5 palmi e, compreso il gradino di base, ammontare in altezza a 5 palmi, quindi con la larghezza in rapporto 1:2; la colonna risultava di 15 palmi compresa la base di 1 palmo e il capitello di 0,75 palmi (m. 0,20); essa risultava essere stata solamente poggiata sulla cimasa e assicurata con l’ausilio di un collante, che degradando causò il crollo. il fusto della colonna era stato abilmente reintegrato nella parte alta con una stuccatura, laddove tuttora si presenta consunto da antica erosione: è quindi probabile che sia stata recuperata sulla spiaggia antistante a occidente dove vi erano i resti di una villa romana con vasta peschiera. Il monumento benché di ridotta entità e semplice composizione, si riscontra ben studiato nelle proporzioni in rapporto alle visuali e dell’effetto riduttivo della colonna isolata nello spazio circostante. Se poi si considera la presenza di una statua di culmine, si può ipotizzarla alta cinque piedi e quindi il tutto di 25 piedi (m. 6,63), in proporzione di 10 volte la larghezza della base. I lavori eseguiti nel 2011 hanno prodotto una piazza sulla preesistente sede viaria, questa avanzata con pari curvatura, dove la Colonna sarebbe potuta divenire l’elemento di convergenza delle visuali di percorrenza del nuovo spazio pedonale. La ricostruzione del monumento si è avvalso della riproduzione robotizzata degli elementi mancanti con pietra levigata della zona, con il profilo delle modanature rimasto sintetico perché non sufficientemente documentabile; inoltre tra i nuovi elementi della base si è anche prodotto un solco di distacco per sottolinearne la ricostruzione. Nella colonna furono consolidate le microscopiche lesioni che si sarebbero tradotte in futuri sfaldamenti, lasciando però a vista le scagliature prodotte nell’ultimo conflitto, come pure le parti consunte in origine stuccate Il posizionamento della colonna fu pertanto stabilito nell’ambito della piazza, facendola rimanere in asse con il centro della fontana, ma avanzadola verso mare di circa 7 metri in favore delle nuove visuali. Affinché si potesse apprezzare il più completo e profondo significato del monumento e del suo recupero, sul piedistallo della colonna due iscrizioni di seguito riportate recano in sintesi la storia, una del monumento e l’altra di Formia. Sul lato Roma: NEL 1799/SI COSTITUIVA / «LA COMUNE DI FORMIA - MOLA E CASTELLONE» / CHE PER L’AUTONOMIA CONQUISTATA ERESSE QUESTA / «COLONNA DELLA LIBERTÀ» / ROVINÒ NEL 1914 E DIMENTICATA / LE FURONO INFERTE LE FERITE / DEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE / L’AMMINISTRAZIONE MUNICIPALE / CON IL RESTAURO CURATO E SOVVENZIONATO DAL / LIONS CLUB DI FORMIA / CELEBRANDO L’UNITÀ NAZIONALE / CONCRETIZZATA IN QUESTA TERRA NEL 1861 / NEL LUOGO ORIGINARIO / LUNGO LA VIA CHE COSTEGGIAVA LA / SPIAGGIA DI MOLA / AL CUI LATO ERA IL PALAZZO DI / PASQUALE MATTEJ / (1813-1879) / DEVOTO ALL’ARTE E ALLA STORIA / ARTEFICE DELLO STEMMA CITTADINO / IN OCCASIONE / DEL 150° ANNIVERSARIO DELLA / RIPRESA DEL NOME DELLA CITTÀ ANTICA / A FUTURA MEMORIA DEL CAMMINO CIVILE / RISTABILIRONO NELL’ANNO / 2012 Sul lato Napoli: FORMIA / DAL GRECO HORMIAI AD INDICARE I BUONI APPRODI / POPOLATA DAGLI AURUNCI / CREDUTA L’OMERICA LESTRIGONIA / ANTICO MUNICIPIO ROMANO SPONDA AMBITA DELL’URBE / DA CICERONE AMATA FIN ALL’ESTREMO RESPIRO / DI VITRUVIO PATRIA RICONOSCIUTA / SEDE EPISCOPALE / SEPOLTURA DI SANT’ERASMO / AVVICENDATA DA CAJETA SUO PORTO NATURALE / SOPRAVVISSUTA IN DUE SOBBORGHI / MOLA E CASTELLONE / NEL 1799 / RIUNITA NELL’AUTONOMIA COMUNALE / RATIFICATA NEL 1820 / NEL 1861 CAPOSALDO / DEL NASCENTE STATO ITALIANO / NEL 1862 RISCATTATA DELL’ANTICO NOME DI FORMIA / NEL 1865 INSIGNITA DEL TITOLO DI CITTA’ / CON EMBLEMA DELLA MITICA FENICE / DISTRUTTA NEL SECONDO CONFLITTO MONDIALE / MEDAGLIA D’ARGENTO / RICOSTRUITA PER TENACE VOLONTA’ DEI SUOI CITTADINI / VOLGE LO SGUARDO AL FUTURO DI PACE E FLORIDEZZA / NELLO SPIRITO DI LIBERTA’ La “Colonna della Libertà” venne inaugurata insieme alla piazza 16 giugno 2012 come ritrovata memoria della rinata Formia di allora, di nuovo presente come punto di riferimento della città attuale.
Didascalie delle immagini 1 – La Colonna della Libertà e il susseguente palazzo Mattej in piazza Darsena, in una fotografia di primo ‘900. 2 – La Spiaggia di Mola nell’illustrazione di James Hakewill del 1816-17 con a destra la Colonna della Libertà: nel dettaglio è evidente sul capitello la base per una statua. 3 - La piazza della Darsena campeggiata dalla Colonna della Libertà sormontata da una croce in un disegno di Pasquale del 1846-47. 4 - Disegno restituivo di progetto della Colonna della Libertà (Studio Arch. S. Ciccone, 2011), confrontato con l’opera di ripristino compiuta nella nuova piazza.

domenica 13 agosto 2023

LA SCOMPARSA DI WILLY POCINO
Su questa pagina si è sempre entusiasti nello scoprire e divulgare la storia del nostro territorio; è invece ora con dolore ricordare chi in questo compito ha offerto ad innumerevoli cultori una più ampia e qualificante pubblicazione sul Lazio. Willy Pocino ci ha lasciati qualche giorno fa, privandoci materialmente della sua presenza, ma non certo del suo esempio di instancabile scrittore novantatreenne, pervicacemente impegnato malgrado l’incalzare delle infermità. Era originario di Sant’Angelo d’Alife, ma aveva trascorso la sua Infanzia in Ciociaria e poi nel 1956 traferitosi a Roma, giornalista affermato inserito nella vita culturale come membro del “Centro Romanesco Trilussa”, della “Accademia Tiberina” e dell’agguerrito “Gruppo dei Romanisti”. Nel 1965 fonda la rivista mensile «Lazio ieri e oggi», giunta al presente con oltre 600 numeri e recentemente rinnovata graficamente con il contributo di Pino De Filippis, nostro conterraneo. Qui egli ha dato accesso a tanti autori nelle più svariate tematiche culturali e su tanti centri del Lazio, molte delle quali riguardanti la nostra zona: negli ultimi numeri sulle architetture romane di Formia e sulla città di Cassino (Salvatore Ciccone) e in corso di pubblicazione sulle stampe del Grand Tour nell’area del Golfo di Gaeta (Renato Marchese). La Rivista, stampata da Edilazio e recentemente diffusa tramite abbonamento, rappresenta l’ultima espressione di libera cultura in questa Regione già rara e che rispecchiava il carattere del suo fondatore, schietto, aperto, amichevole come rigoroso; essa quindi rappresenta tutto il suo portato culturale, di stimolo alla conoscenza nella correttezza dell’informazione di pari con l’amore trasfuso a Roma e alla sua Regione. Ci uniamo al dolore della consorte Franca, della figlia Mariarita e del genero Marco Onofrio, questi ultimi uniti nelle imprese editoriali di Willy, della Rivista e di tanti saggi che rappresentano una incessante volontà di conoscenza e salvaguardia di identità del Lazio.
Didascalie delle immagini : 1 – Una recente immagine di Willy Pocino nel suo studio (foto di Pino De Filippis). 2 – L’amore di Willy Pocino alla “nostra” Roma (foto di Pino De Filippis).

mercoledì 21 giugno 2023

NUOVE SCOPERTE SUL CULTO DI SAN GIOVANNI BATTISTA A FORMIA - di Salvatore Ciccone
La ricorrenza di San Giovanni Battista di Formia, con Sant’Erasmo compatrono della città, si rinnova nella vivacità della festa e induce ad indagare oltre la tradizione su alcuni elementi connessi al culto. Ho qui a più riprese trattato della statua lignea che si venera nella chiesa Parrocchiale del rione Mola intitolata ai Santi Giovanni Battista e Lorenzo, questa sostitutiva l’antica vicina al duecentesco Castello costiero, riadattata nel XVIII secolo ma insufficiente: il nuovo edificio, iniziato dall’architetto Gustavo Giovannoni a cavallo del secondo conflitto mondiale, in cui venne bombardato quello originario, fu compiuto dall’architetto Giuseppe Zander. Il simulacro si confronta con le opere Giuseppe Picano, nato a Napoli il 14 maggio 1716 da Francescantonio originario di Sant’Elia Fiumerapido e Dorotea de Mari; fu sacerdote scultore di figure sacre formatosi nella bottega paterna d’arte presepiale, caposcuola di grande fama e lunga vita artistica morto ultranovantenne. Tale ipotetica attribuzione (la sua firma sulla statua non è ancora stata verificata) richiama la tradizione locale sull’origine della scultura, che la vuole fatta da un tronco spiaggiato fuori il Ponte di Mola e perciò sul lido di levante: un contadino di Castellone, il borgo alto di Formia, lo aveva recuperato con il suo asino come ceppo da ardere, ma misteriosamente riportatosi tre volte sullo stesso lido nonostante l’ostinazione del villico, la quarta volta si ritrovò davanti al portone della chiesetta di San Giovanni Battista posta ai piedi di Castellone; oggi è scomparsa e il nome resta al vico su via Rubino. Il prodigio venne intrepretato come una volontà del Santo e perciò il legno inviato ad un valente scultore di Napoli per realizzarne una statua, la quale giunse via mare e in solenne processione condotta nella chiesa; questa sconsacrata nel medesimo secolo, gli arredi con la statua furono acquistati dalla Congregazione di San Giovanni della chiesa di San Lorenzo di Mola. Quella chiesa di Castellone compare in un atto del 1490 (Gaeta, Archivio Capitolare f. III-B, n. 133) col nome di San Giovanni “in flumia” cioè “presso il fiume” ed è evidente che in quel luogo del borgo, in congrua distanza non esiste e non è esistito alcun corso d’acqua; invece in un ulteriore atto del 1516 a questa chiesa era pertinente un orto a Santo Janni, la zona litorale ad oriente di Formia, separata dal promontorio di Giànola dall’omonimo rio o fiume. Dunque compare un legame tra il luogo del rinvenimento del prodigioso tronco alla stessa chiesa in Castellone, evidentemente relazionata ad una campestre presso quel fiume che le dava il nome come al territorio litorale, storicamente legato a Castellone poiché gli abitanti agricoltori e allevatori. Individuare il sito di questa chiesa rurale non è semplice e probabilmente infruttuoso, vista la trasformazione urbanistica dei luoghi, tuttavia si può tentare qualche ipotesi sperando di trovare riscontri. Un documento del 1143 (Rubrica delle carte del Monastero di S. Erasmo, 1993) cita presso Giànola due chiese, S. Gennaro e S. Giovanni “de Trullo”; della seconda l’aggiunto si può riferirsi ad una “cupola” o comunque ad un cumulo che farebbe pensare alle rovine del cosiddetto “Tempio di Giano” in sommità alla villa romana sul promontorio; tuttavia ciò è in contrasto con l’orto citato e con le specifiche denominazioni di vie campestri poste sul piano costiero e riferite a Santo Janni, perciò il “trullo” da ricondurre a diverso contesto. La denominazione “in flumia” della Chiesa di Castellone dà più ampio spazio alla localizzazione della dipendenza campestre, poiché la sua traduzione dal latino è “presso il fiume” come pure “verso” o “dalla parte del fiume” e ciò assume importanza rispetto agli abitati di Mola e Castellone dai quali il territorio circostante era indicato in approssimazione a principali punti di riferimento, in questo caso il versante verso il fiume di Giànola e certamente da esso compreso; quindi era effettivamente interessata un’ampia porzione di campagna e più la parte litoranea desinente alla foce. Una possibile indicazione è fornita da testimonianze che segnalano la presenza di ruderi sulla costa tra via Santo Janni – Pescinola e via del Mare già Pescinola, in corrispondenza all’estrema parte rilevata del suolo seguita dalla depressione verso oriente alla foce e appunto denominata “pescinola” perché acquitrinosa: in particolare si ricorda che nel 1965 si rinvennero “due vecchie tombe piene di ossa” in vicinanza di strutture riferibili ad una chiesa. Le antiche mappe catastali riportano nel luogo un edificio quadrangolare allungato alla costa con spiazzo, quest’ultimo attualmente rimasto vicino l’incrocio della Santo Janni - Pescinola. In questa situazione risalta una stampa di Pontremoli su “Il Mondo Illustrato” circa del 1860, ma copiata da una più antica, che rappresenta rimpetto al lido in questione, dal quale è caratteristico il profilo di Gaeta, il cantone verosimilmente di una chiesa con l’effigie parietale di una Madonna col Bimbo: vi si fissa l’incontro tra un alto prelato e, pare, un vecchio eremita seduto su un antico fregio; sulla spiaggia attende una barca con ornato tendalino e bandiere, mentre transita una donna con un asino. Di certo questi luoghi era più facile raggiungerli via mare, come fece e narrò Pasquale Mattej nell’illustrare le vestigia di Giànola sul Poliorama Pittoresco” nel 1845; nel caso dell’immagine si poteva trattare di una visita pastorale compiuta da un vescovo. Però c’è però da considerare che da qui verso Formia insisteva il toponimo “Sant’Anna”, zona presso l’attuale Parco De Curtis dove sono più documentati resti di una villa romana e alla quale poteva riferirsi l’immagine pur se meno verosimilmente. In conclusione bisogna pazientare e umilmente cercare, sperando di far luce su quanto di storico riguarda il culto di San Giovanni Battista a Formia, mentre su tutto vale la fede verso il Santo precursore di Cristo.
Didascalia delle immagini 1 - La settecentesca statua di San Giovanni Battista nella chiesa titolare di Formia. 2 - Una statua scolpita da Giuseppe Picano: San Giovanni Battista a Pannarano (1750). 3 – Probabile scorcio di chiesa presso Santo Janni, incisione replicata da Pontremoli intorno al 1860.

martedì 6 giugno 2023

Un'antica stazione marittima a "Scàuri" - di Salvatore Ciccone
Gli attuali accadimenti nell’Area Naturale Protetta di Giànola e Monte Scàuri, inclusa nel Parco Regionale Riviera di Ulisse, impongono una consapevolezza del valore unitario di quella che non può essere distinta nei confini dei territori dei due Comuni contermini, Formia e Minturno. In particolare recenti lavori hanno alterato l’area archeologica della villa romana di Mamurra a Giànola, dalla parte di Formia, e problematica è la condizione di quella dalla parte di Minturno attribuita alla villa di Scauro; intanto il nuovo Piano di Assetto del Parco considera queste testimonianze di ambito economico, in pratica enucleate dal contesto in cui si sono originate; ad evidenziarne i valori, riporto una mia nota con parte dei miei disegni sulle vestigia di Scàuri, in appendice al volume di Antonio Lepone, “Marco Emilio Scauro Princeps Senatus”, Caramanica Editore, 2005. * * *
Il sito archeologico di Scauri è rimasto immeritatamente estraneo all'interesse degli studiosi perché posto al margine di due antichi centri, Formia e Minturno, presso l'isolato rilievo dei Monti Aurunci che si inoltra nel Tirreno. Il complesso monumentale manifesta l'uso ripetitivo delle opportunità offerte dalla natura: un'insenatura per un comodo approdo e un ruscello di acqua sorgiva lungo la direttrice di vari collegamenti, alla via Appia e con l'entroterra. La sua componente coesiva consiste in un muro in opera poligonale o megalitico lungo circa 120 metri, al quale si relazionano strutture di epoca romana per formare una vasta terrazza su un'ansa marina volgente ad est. Agli eruditi è sembrato perciò appropriato attribuire questi ruderi alla villa del console Marco Emilio Scàuro dal toponimo di Scàuri, dall'anno 830 legato alla presenza di mulini ad acqua e di un borgo e per la difesa dei quali eccelle la torre quadrata trecentesca. Le mura megalitiche poi, sono dagli studiosi dei primi decenni del Novecento fatte risalire al secolo VIII a.C. e al popolo Aurunco, identificate con “l'oppidum Pirae” citato da Plinio il Vecchio come centro decaduto tra Formiae e Minturnae. In questa attribuzione l'elemento di spicco è lungo l'andito che saliva sulla terrazza: una porta con profilo ad ogiva tronca, larga metri 2,30 ed alta 4,70 circa, formata da blocchi di pietra progressivamente aggettanti contrapposti in sommità ad un architrave. Di recente essa è datata alla fine del IV secolo a.C. perché una simile struttura si trova sottoposta alla via Appia presso Itri, induzione priva di attendibilità passando quel tragitto in un punto obbligato anche in precedenza. Parimenti appare superata la classificazione dell'opera poligonale fatta dal Lugli, dove la "IV maniera", quella con blocchi a bugna sulla faccia a vista, presente in entrambi i luoghi, risale al massimo al III secolo a.C. Dunque, se lo stesso Lugli attribuisce genericamente la copertura a pseudo arco al secolo VII a. C. e diffusa nell'Etruria marittima, la sua combinazione con quella "maniera" non può essere repubblicana e difatti egli non data le mura di "Pirae". In effetti la tecnica di copertura è molto antica, ma dai Micenei fu introdotta presso i Fenici che poi la trasmisero agli alleati Etruschi, ossia Tirreni, proprio durante la massima espansione per mare di questi ultimi che influenzò i popoli vicini. Di questa alleanza, in Etruria, sono prova i culti nel porto di “Caere”, “Pyrgi”. A rendere più interessante l'argomento è la considerazione che si ebbe della porta di Scàuri in epoca romana. Mentre in età repubblicana l'andito era usato e coperto con volta a botte per conferire continuità al piano superiore, nel primo Impero il vano di accesso venne occupato da una vasca ornamentale ovale in “opus reticulatum”, evidenziando l'inagibilità del percorso quasi certamente per infiltrazioni d'acqua. Appare quindi chiara la presenza sostitutiva di un corridoio voltato a rampa e scale, affiancato alla porta e posto su un livello superiore. L'intento di "musealizzare" con la vasca l'antico camminamento caratterizzato dall'arcaica copertura, farebbe supporre come i Romani fossero coscienti dell'antichità di questa architettura. L'esigenza utilitaria aveva già risparmiato gran parte delle mura in poligonale, sostituite o integrate laddove esse erano cadute o in procinto di crollo, fatto sotteso nell'altra notevole struttura appartenente alla stessa fase repubblicana. È una sostruzione a sette fornici con muri in “opus incertum” e volte a botte, lunga una trentina di metri, posta in continuazione del tratto sud del muro bugnato dove era una torre quadrangolare: la scarsa e variabile profondità dei fornici sembra dovuta alla retrostante presenza in curva delle antiche mura e allo scopo di sostenerle, tanto che due di essi, in parte chiusi anteriormente, formano delle casse ripiene di pietrame per assicurare il maggiore contenimento della spinta. A rendere caratteristica la costruzione sono gli archivolti costituiti da conci lapidei perfettamente sagomati e cementati nelle volte, "girate" con ben più rozzi elementi, apparecchiatura ancora legata alla pratica di una esecuzione strutturale a secco e che si colloca tra II-I secolo a.C.: i fornici, perlopiù larghi oltre tre metri e alti poco più di cinque, possono aver sostenuto un corpo di fabbrica ed essere stati impiegati solo per scopi utilitari, non essendo presente in essi alcuna impostazione decorativa. Da questa sostruzione, un muro alto circa tre metri del medesimo “opus incertum” si protende zigzagando per oltre 60 metri verso il promontorio, interrotto dalla strada che vi sale. È da ritenere che l'insediamento fosse radicato alle falesie della zona "Olmo - Monte d'Oro", dove gli scritti tramandano l'esistenza di un molo dotato di anelli di pietra per l'ormeggio, di una peschiera trapezoidale e di un ninfeo in grotta, testimonianze in gran parte coperte da interventi di urbanizzazione. La peschiera ed il ninfeo, forse un triclinio estivo, rappresentano una trasformazione lussuosa della villa tra tarda Repubblica e primo Impero nell'ambito di un porto privato. L'occasione di un approdo appare qui fondamentale: quando il territorio circostante era caratterizzato da un sistema di colonizzazione sparso di tipo familiare, poneva la necessità di una sua tutela che non poteva differire dalla costituzione di un insediamento di tipo urbano; poi al maggior sviluppo di finitimi centri portuali si deve la decadenza ed il passaggio a privati commerci. Dunque, in presenza di un'antica stazione marittima, è considerevole che un'altra Scàuri si trovi nell'Isola di Pantelleria, sulla rotta con le coste del Nord Africa dove coltivava interessi il ramo della gente Emilia. Per tutto ciò, l'identificazione ipotetica con “Pirae” e poi con la villa di Scàuro risalta nella sua possibilità e rimane a tutt'oggi valida in assenza di contrarie evidenze archeologiche.
Didascalia delle immagini 1 – Visione complessiva del sito monumentale di Scàuri verso il promontorio. 2 – Porta a pseudo arco ogivale architravato nella cinta poligonale. 3 – I due accessi contigui alla terrazza: a destra della cinta poligonale; a sinistra di epoca romana. 4 – I fornici di età repubblicana di contrafforte ad un tratto della cinta poligonale.

mercoledì 31 maggio 2023

SANT’ERASMO E SANT’EFISIO MARTIRI TRA FORMIA E SARDEGNA di Salvatore Ciccone
In prossimità della ricorrenza di Sant’Erasmo, mi è venuta in risalto la data della morte di questo martire a Formia, il 2 giugno del 303 dopo Cristo, con quella di un altro santo che dal lido di Formia si portò in Sardegna per soccombere al supplizio, il 15 gennaio del medesimo anno 303: Sant’Efisio, tra quelli rappresentativi dell’Isola e co-protettore di Cagliari. Il calendario dei due episodi è naturalmente fissato negli specifici martirologi che però sono di oscura origine e sostanzialmente scritti in epoca medievale elaborando su modelli e laddove non si avevano notizie assimilando la vita di altri Santi; per questo non è qui il caso di fare una analisi dei testi persino ardua agli specialisti. La “Passio” di Sant’Erasmo è stata scritta da Giovanni di Gaeta, monaco benedettino in Montecassino, eletto papa col nome di Gelasio II dal 1118 al 1119, il quale nel prologo dichiara di aver elaborato il testo attingendo da varie fonti e con cognizione dei luoghi in Oriente avute da alcuni confratelli. In sintesi, Erasmo, giovane di rara bellezza, divenne vescovo di Antiochia capoluogo della Siria e per questo, in base all’editto emanato da Diocleziano, tenuto ad officiare la divinità dell’imperatore, cosa che in base alla sua fede si rifiutò di fare e perciò sottoposto a tremende torture dalle quali scampava miracolosamente. Di sostegno gli fu l’Arcangelo Michele, il quale da ultimo lo condusse a Formia. Qui predicò per sette giorni fino alla morte per i patimenti subiti, il 2 giugno dell’anno 303, e il suo corpo sepolto nella parte occidentale della città presso l’anfiteatro: invece localmente si vuole martirizzato per eviscerazione, in uno degli ambienti del teatro romano presso il rione Castellone, detto “il Cancello” da una palizzata protettiva del luogo di culto. Il suo corpo venne trasferito a Gaeta al sicuro delle incursioni degli Agareni, ossia i Saraceni, dove venne riscoperto ed intitolato la cattedrale della nuova “civitas” marinara. È così che si trova protettore dei naviganti, del quale la presenza durante le tempeste si credeva fosse nelle luminescenze elettrostatiche tra le alberature delle navi, i fuochi di S. Ermo o Elmo, già ricondotte ai Dioscuri dai Romani. Dagli scavi eseguiti dal 1970 nella chiesa parrocchiale, ex cattedrale di Formia dedicata al Santo, sono venute in luce importanti testimonianze tardoantiche ed altomedievali del luogo di culto, sostanzialmente originate da un’area sepolcrale pagana, in cui sorse un “martyrium”, un sacello ad includere con un altare un precedente sepolcro ormai privo di spoglie, evidentemente quelle del Santo poi trasferite a Gaeta. A questo piccolo edificio di culto si unirono numerose sepolture cristiane “ad corpus”, quindi, come ho identificato, in breve tempo integrato da una basilica a navata unica, costruzioni certamente realizzate dopo l’editto di Costantino del 313 con il quale si liberalizzava il cristianesimo. In fasi successive il complesso si arricchì di elementi funzionali, tra i quali intorno al VI secolo una cripta semianulare sotto l’altare maggiore della basilica per accogliere le spoglie del Santo; quindi un ricco apparato decorativo di stile carolingio avutosi tra VIII e IX secolo, prima che intervenisse la devastazione saracena che si vuole avvenuta nell’846. Con la presa di possesso dei monaci benedettini nel X secolo e poi dal 1491 di quelli Olivetani, si è avuta la trasformazione in abbazia e la chiesa evoluta in tre navate, con l’altare privilegiato posto in corrispondenza della tomba originaria, ma da secoli occultata. Riguardo a Sant’Efisio le varie fonti non sempre concordi comunque attestano la veridicità del personaggio in Sardegna oltre che la situazione nel quale esso si è mosso proprio dalla sponda campano-laziale verso l’Isola, dove si documentano traffici commerciali e eventi accorsi nello stesso Medioevo; anche qui la sintesi è d’obbligo. Efisio era di famiglia eminente di “Aelia Capitolina”, come era Gerusalemme rinominata dai Romani, figlio di Cristoforo, cristiano, e della pagana Alessandra. La madre, profittando della venuta di Diocleziano ad Antiochia riuscì ad avere udienza, supplicandolo di prendere il figlio come suo militare. L’imperatore, ammirato dalla bellezza del giovane, gli affidò la repressione dei cristiani e qui, come Saulo (Paolo) sulla via di Damasco fu oggetto di un prodigio, vedendo apparire in cielo una croce sfolgorante con la voce di rimprovero di Gesù, croce che rimase impressa sulla palma della mano destra, ciò che convertì il giovane. Si portò quindi a Gaeta, dove evidentemente la “Passio” scritta nel XII secolo considera la città che aveva preso il posto dell’originaria malsicura Formia, questa all’epoca di Diocleziano fiorente e della quale il naturale “portus Caietae” era parte integrante. Qui egli si sarebbe fatto realizzare una croce d’argento che miracolosamente venne iscritta in ebraico con i nomi degli arcangeli. Inoltre in questa permanenza si portò a combattere con il suo esercito gli invasori Agareni, uccidendone 12.000; altro chiaro sfasamento storico nell’età del documento, ma che in riferimento alla vittoriosa Battaglia del Garigliano del 915, pare che Efisio possa essere stato invocato dalle truppe Bizantine. Sbarca quindi a Tharros in Sardinia, per risolvere una aggressione di barbari, cioè dei Barbaricini. In questa terra egli manifesta la sua fede, addirittura scrivendo all’imperatore di convertirsi, il quale naturalmente lo fece arrestare e sottoporre a torture, dalle quali rimase miracolosamente indenne finché non venne decapitato a Nora, altra fiorente città romanizzata, oggi presso Pula dove è una chiesetta romanica eretta sul luogo del martirio. Sant’Efisio ha avuto grande impulso quando nel 1656 fu invocato con grandi promesse per liberare Cagliari dalla peste, come fu e da allora il Martire è oggetto di grandi festeggiamenti dal 1° al 4 maggio con una caratteristica processione che dall’omonima chiesa di Cagliari vede il simulacro sfilare in un pregiato carro per quaranta chilometri fino a Pula, luogo del martirio, con largo seguito di fedeli provenienti da tutta l’Isola. Dunque Sant’Erasmo e Sant’Efisio, due giovani ardenti nella nuova fede di salvezza, da Antiochia giunsero a Formia, chissà se in qualche modo connessi, attestandone l’importante nodo di traffici tra la via Appia e le rotte marittime dall’Oriente verso Roma e l’occidente dell’Impero, come pure di culture, di nuovi culti di cui vincente fu il Cristianesimo. Bibliografia essenziale - S. Ciccone, La Cattedrale dell’antica Formia, “Lunario Romano” 1987 - Cattedrali del Lazio, Roma 1988, p. 325 segg. - R. Zucca, Il Portus Caietae in una fonte agiografica: la Passio Sancti Ephyfii, “Formianum” VII-1999, Marina di Minturno 2007, p. 97 segg.
Didascalie immagini 1 – La statua di Sant’Erasmo conservata nella chiesa titolare ex cattedrale di Formia in prossimità del rione Castellone (foto di Fausto Forcina). 2 – La statua di Sant’Efisio, presso l’omonima chiesa barocca nel rione Stampace di Cagliari.

lunedì 8 maggio 2023

LA VILLA ROMANA DI GIÀNOLA: NUOVE AZIONI PER LA SALVAGUARDIA - di Salvatore Ciccone
Presso il Centro Pastorale Parrocchiale di Giànola, il venerdì 28 aprile, si è tenuto l’incontro pubblico sul tema “La villa romana di Giànola risorsa da conoscere e difendere”, promosso dalle associazioni Gianolamare e Janus e dai comitati civici Acqualonga e Santa Croce, condiviso nei contenuti istruttivi dal parroco don Carlo e introdotto dal prof. Pasquale Scipione. Il convegno si proponeva di divulgare i valori dell’area archeologica sul promontorio di Giànola compreso nell’Area Naturale Protetta del Parco regionale naturale Riviera di Ulisse, potenziale risorsa per il miglioramento sociale e di una rigenerazione urbana del quartiere e della zona limitrofa. In questa finalità ho illustrato i resti della villa estesa su 90.000 metri quadrati e risalente alla metà del I secolo a. C., della quale il primo più dettagliato studio è quello della mia tesi di laurea in architettura pubblicato nel 1990 in “Palladio”, periodico del settore edito dall’Istituto Poligrafico dello Stato. Tra i miei ricorrenti contributi, quello da poco stampato è inserito nella rivista di studi storici “Latium”, annuale raccolta di più di 400 pagine dell’Istituto di Storia e Arte del Lazio Meridionale (ISALM) in Anagni e collegato al Ministero dei Beni Culturali. Questo lavoro è una sintesi delle conoscenze con le nuove acquisizioni provenienti dal primo intervento di recupero dell’edificio ottagonale, finanziato con fondi europei di 1milione di euro e che ho progettato e poi diretto con l’ingegnere Orlando Giovannone dal 2014 al 2016, ragguaglio dove sono chiariti aspetti problematici di precipua competenza dell’architettura, ma che nel frattempo hanno dato adito ad avulse, fuorvianti interpretazioni. Uno di quelli riguarda la sala centrale di quell’edificio, la cui forma ottagonale è ribadita dal pilastro centrale di sostegno di una volta di segmenti a botte, sala che pertanto rendeva intelligibile il tutto e certamente serbante il suo significato: ciò malgrado è stata interpretata come cisterna in seguito usata come sala funeraria. Altro aspetto è la struttura di collegamento tra l’edificio e l’impianto residenziale verso il mare, dichiarato come triplice serie di scale affiancate, in realtà caratterizzato da due gradinate coperte di sostegno e da altre due rampe a cielo aperto, poste ai lati di una corte denotata da rocce affioranti di complessivo scopo scenografico. In sostanza si sono restituiti il più attendibile aspetto e il significato dell’edificio, il quale rappresentava tipologicamente un “musaeum” ossia una grotta artificiale resa nell’anfrattuosità come nell’aspetto delle volte, nella cui sala ottagona buia è irrefutabilmente provata la captazione di una fonte e che tramite le cisterne animava tutta la villa; architettura che rappresentava una allegoria del mondo nelle credenze mitico-religiose e nelle concezioni filosofiche, scontatamente riferito a un corredo scultoreo, luogo temperato e d’uso per il colto “otium” dei Romani. Ma l’ulteriore novità sta nel chiarimento della copertura, ora delineabile in una terrazza panoramica attorno ad un anello di terreno, tale da apparire come tumulo verdeggiante che includeva una corte con al centro un pilone sepolcrale culminato da statua: dunque la parte superiore devoluta ad estrema dimora del proprietario. L’edificio che derivava dai “musaea” ellenistici, risultava quindi non di univoca funzione, e per questo oggi poco comprensibile, sicuramente anche devoluto al culto privato di una divinità tutelare della fonte, forse quello di Diana, l’arcaica “Jana” da cui deriverebbe il nome del luogo. Nel convegno ho quindi espresso la problematica dei pur necessari interventi di conservazione delle strutture e di quelli adeguati alla pubblica fruizione, ciò nel rispetto del contesto naturale in cui i monumenti si sono integrati nei secoli e che rappresentano la precipua caratteristica distintiva dell’intera Area Protetta, la cui tutela è prescritta nella Legge Regionale n. 15/1987 istitutiva del Parco Suburbano di Giànola e del Monte di Scàuri. Questa tematica si è resa indifferibile a fronte dei successivi lavori nell’area archeologica, condotti nel 2020-2021 totalmente dalla “Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Frosinone, Latina e Rieti” con finanziamento del Ministero per i Beni Culturali di 800mila euro. È infatti in questa occasione che i percorsi, realizzati nel precedente intervento in terra battuta, sono stati materializzati in calcestruzzo armato, larghi due metri e per una lunghezza di circa 200 metri. Di più si sono create terrazze panoramiche con transenne di acciaio sulle coperture della scala voltata “Grotta della Janara” e su quella della cisterna “Trentasei Colonne”, qui sbancando i soprastanti strati di terreno tecnicamente contestuali alla struttura. Risulta da ciò scompaginata un’area di circa 10.000 metri quadrati, deturpato il paesaggio e distolta la relazione tra le parti della villa, inoltre interrotta nella continuità dalla recinzione dell’area stessa. L’acme dell’intervento si raggiunge presso la parte scavata dell’edificio ottagonale dove la copertura provvisoria è stata sostituita da una definitiva prepotentemente ancorata ai resti, distolti nella visuale dalle linee aliene di un bagno per una sola persona. Questi allestimenti si rendono inammissibili sia nel comune buon senso e pertanto da chiunque contestabili di diritto, sia nel sapere dello specifico settore e difatti vietati dalla legge istitutiva del Parco, dove anche l’intervento dell’organo superiore dello Stato come la Soprintendenza deve essere congruente ai fini della conservazione dell’Area Protetta, come pure non può tacitare un così grave accadimento. Non occorrono infatti particolari perizie per accertare gli effetti lesivi di queste opere che invalidano gli stessi scopi istituzionali del Parco nella conservazione dell’ambiente e nella sensibilizzazione culturale della comunità, verso le quali occorre intervenire per un ripristino dello stato originario dei luoghi, non importa quanto costerà e chi ne dovrà rispondere, contestualmente ad un più attento recupero alla comprensibilità che la villa romana assolutamente originale reclama. Si porterà avanti l’informazione a far proprie presso la cittadinanza queste esigenze indifferibili e fin quando non verranno soddisfatte per il miglioramento sociale ed economico di Formia.
Didascalie delle Immagini A - Spaccato restitutivo dell’edificio ottagonale (S. Ciccone da “Latium” 2022): 1-Strato acquifero e 2-sigillatura con 3-vasca di captazione; 4-peribolo, 5-sale perimetrale e con 6- abside; 7-pilone sepolcrale con 8-tumulo ad anello e 9-terrazza panoramica. B – Ricostruzione dell’edificio con il collegamento verso la villa (S. Ciccone da “Latium” 2022). C- Viste di parte degli allestimenti più recentemente realizzati per la pubblica fruizione. D – L’area oggetto degli interventi dal satellite: a sinistra nel 2016; a destra nel 2021 segnata dalle superfici di calcestruzzo

lunedì 1 maggio 2023

SEGRETI DELLA VIA APPIA. I SEPOLCRI DI CICERONE E DI TULLIOLA di Salvatore Ciccone
Con la recente candidatura della via Appia a patrimonio mondiale dell’umanità UNESCO, Formia sembra aver riscoperto l’interesse verso questa strada che dalla sua costruzione nel 312 avanti Cristo ne ha determinato le sorti in prosperità e sciagure. La “regina viarum”, come venne definita dal poeta romano Stazio, già da decenni avrebbe dovuto determinare una valorizzazione di livello internazionale, sul tratto formiano con monumenti distintivi del suo antico percorso e principalmente l’eminente “Tomba di Cicerone” connessa all’uccisione dell’Oratore presso la sua amata villa il 7 dicembre del 43 a. C. dai mandatari del triunviro Marco Antonio. Il sepolcro, attribuito da antica tradizione fino dall’alto Medioevo, venne restaurato dal Ministero della Pubblica Istruzione in occasione del bimillenario della morte di Cicerone: fu un intervento sommario tipico di quel periodo, privo di indagine e di qualsivoglia pubblicazione scientifica. Eppure il monumento è tra i più ragguardevoli del genere, di cui il solo recinto quadrangolare con alto muro reticolato include un’area funeraria di oltre 5.000 metri quadrati con un fronte su strada di circa 80 metri; in posizione centrale il sepolcro appare come una torre su basamento quadrato di 17 metri in blocchi calcarei squadrati con sopra un fusto cementizio, il tutto prossimo all’altezza di 20 metri. Nello studio che ho recentemente pubblicato negli Atti riferiti al Convegno “Formianum” IX-2000, si restituisce un sepolcro interamente rivestito di marmo che elevava una “tholos”, ossia un tempio onorario circolare scandito da semicolonne probabilmente culminato sulla copertura da una statua equestre di bronzo dorato; un edificio di forte valore commemorativo che insieme alla vasta area funeraria si colloca in età augustea, quando appunto venne riabilitata la figura di Cicerone e il figlio nominato da Augusto suo collega al consolato nel 30 a. C.. Ma ancora più determinante per l’attribuzione è la via Appia, la quale risulta modificata e portata perfettamente orizzontale in funzione a tutto il fronte del recinto, fatto che non può giustificarsi con un monumento privato, a meno di un coinvolgimento della cosa pubblica in onore di quel celebre personaggio. La tradizione si incrementa nell’ulteriore “Tomba di Tullia” o di “Tulliola”, la figlia di Cicerone prematuramente morta di parto, situata in prossimità del sepolcro paterno sulla retrostante collina “Acervara”, nome riferito ai passati ruderi cuspidati situati a mezzacosta. Il luogo ha restituito in effetti una statua muliebre esposta nel locale Museo, e ricade nell’ambito del supposto “Formianum” di Cicerone, esteso in altura a mille passi (m. 1478) dal mare. Le tracce di questa attribuzione presente già nel ‘700, risalgono a Celio Rodigino che nel 1516 (Antiquae Lectiones) riferisce del ritrovamento fatto ai tempi di papa Sisto IV (1471-1484) davanti alla Tomba di Cicerone, della mummia di sua figlia Tullia, dichiarata da una iscrizione, la quale si dissolse tre giorni dopo. Come ho già esposto qui in un precedente articolo (link https://www.facebook.com/ComeEriBellaFormia/posts/pfbid0h7Y8pXXLbMMS7QvZR9cEegHwMh3Lb6pqSj72tYer43bMf1UETXBceY63CXZjAS7Xl ) , l’episodio si sovrappone a quello certamente veritiero e documentato della mummia di giovane donna perfettamente conservato trovato nell’aprile 1485 presso al sesto miglio della via Appia a Roma e che trasportato in Campidoglio fu veduta da larga parte della popolazione, finché non si decise di tumularla in un luogo segreto. L’umanista Bartolomeo Fonte annota la mancanza di qualsivoglia epigrafe che attestasse l’identità della fanciulla e che con il successivo seppellimento non collimano con il ritrovamento riferito da Rodigino e collocato al tempo di Sisto IV, morto nel 1484, cioè un anno prima dell’altra scoperta. È possibile una confusione tra due distinti episodi di cui certa è la mummia di Roma e possibile il rinvenimento di epigrafi sul sepolcro rupestre formiano, avutisi in tempi ravvicinati in un periodo in cui l’interesse per le antichità trovava approssimata diffusione tra gli umanisti di allora. Ostacolo a questa ipotesi sarebbe la presunta singolarità della mummia romana, quando invece nella stessa Roma altre due rinvenimenti del genere ci confortano della loro consistenza materiale. Il primo avvenne nel 1889 nello sbancamento per la costruzione del Palazzo di Giustizia, allorché venne in luce il sarcofago sigillato contenente una fanciulla dall’iscrizione identificata come Crepereia Tryphaena, risalente al 150-160 d. C., nel cui corredo era una bambola di avorio dagli arti snodati; episodio che ebbe sul pubblico partecipazione emotiva simile a quello quattrocentesco: la mummia e corredi sono ora esposti nel Museo della Centrale Montemartini. Il secondo riguarda la cosiddetta Mummia di Grottarossa, la località sulla via Cassia dove nel 1964 venne reperito un magnifico sarcofago istoriato contenente la mummia di una fanciulla di otto anni con intatto corredo di monili ed anche qui un’analoga bambola di avorio, risalenti pure al II secolo d. C. Sconcertante e indegno fu il fatto che i reperti vennero reperiti in una discarica di terreno e fortunatamente recuperati: sono ora accuratamente esposti presso il Museo di Palazzo Massimo. Per entrambi, notizie e immagini si traggono sul web Come si vede questa modalità di conservazione era consueta a Roma, evidentemente ispirata all’usanza egizia e diffusasi nelle classi più agiate nella media età imperiale. Nella più ampia possibilità di rinvenimenti del genere, è quindi realistico che nel Rinascimento si siano unificati due distinti episodi. Con la mostra avutasi presso l’ufficio turistico ai piedi del Palazzo Municipale, sulle antiche stampe illustranti il territorio di Formia, altre iniziative sono in corso per valorizzare il tracciato della via Appia antica, tutte meritevoli di considerazione purché diano un apporto concreto alla conoscenza, alla conservazione delle testimonianze e ad una divulgazione di livello adeguato all’importanza che merita la più importante arteria di Roma antica, prima ancora che dichiarato patrimonio dell’umanità.
Didascalie immagini 1 - La via Appia, in basso il sepolcro di Cicerone e in alto la Tomba di Tulliola, nell’incisione di G. Vasi nell’opera del 1754 di E. Gesualdo, Osservazioni critiche sopra la Storia della via Appia di Don F. Maria Pratilli. 2 – La Tomba di Tulliola in un disegno di Pasquale Mattej nel suo articolo del 1837 sul “Poliorama Pittoresco”. 3 – Tomba di Tulliola, la statua di personaggio muliebre all’atto del rinvenimento negli anni 1970 ed esposta presso il Museo Archeologico Nazionale di Formia: sul fondo la Tomba di Cicerone. 4 – Pianta e ricostruzione sintetiche del complesso funerario “di Tulliola” (Ciccone, 1982).

mercoledì 26 aprile 2023

LA VILLA ROMANA DI GIÀNOLA RISORSA DA CONOSCERE E DIFENDERE Annuncio della conferenza di Salvatore Ciccone
La villa romana di Giànola, preminente nell’Area Naturale Protetta del Parco regionale Riviera di Ulisse, sarà oggetto della mia conferenza in un pubblico incontro coordinato dal Preside Pasquale Scipione e che si terrà a Formia presso Centro Pastorale Parrocchiale di Giànola, via delle Vigne 17, Venerdì 28 aprile 2023 alle ore 19,00. La villa risale alla metà del I secolo avanti Cristo e attribuibile a Mamurra, il cavaliere nativo di Formia intimo amico di Giulio Cesare e suo prefetto del Genio dell’esercito in Gallia nella cui circostanza ricavò enormi ricchezze. Il complesso residenziale di unitaria costruzione occupava almeno 90.000 metri quadrati della propaggine isolata del promontorio di Giànola propriamente detto, nel territorio del comune di Formia; con la sua estensione doveva proporzionarsi ed essere a capo di una vasta tenuta produttiva, comprendente parte della piana retrostante, documentato possedimento dei Mamurra. Il sito archeologico è parte del Parco regionale suburbano, area naturale protetta istituita con legge regionale n. 15 del 13 febbraio 1987, oggi inclusa nel Parco regionale “Riviera di Ulisse”, ed estesa su tutto il promontorio comprendente in circa 290 ettari il monte di Scàuri e il piano retrostante. Il parco, nella sua contenuta superficie, interrompe l’urbanizzazione della costa tra i comuni di Formia e Minturno, rappresentando un completo ambiente costiero costituito da rocce conglomerate che caratterizzano anfrattuose ed ispide scogliere e la macchia mediterranea prevalsa da querce sughere. Dalla sua posizione viene risaltato il paesaggio marino nella potente esedra dei monti Aurunci in contrasto alla curva del golfo fino a Gaeta, ciò che ha determinato l’insediamento della scenografica villa, antesignana del genere aperto a terrazze e a portici. I resti monumentali da secoli integrati alla natura rappresentano pertanto il fattore originale e distintivo del Parco, fino alla stessa origine e costituzione della villa che fece proprie le caratteristiche paesaggistiche, oltre che uno specifico luogo di culto alla dea Diana, l’arcaica “Jana” da cui il nome del luogo. Il titolo dell’intervento pone il tema del sito come risorsa da conoscere, in quanto patrimonio naturale, storico, scientifico ed educativo su cui impostare il miglioramento sociale, culturale ed economico nello specifico e appropriato uso turistico; di questo patrimonio è della comunità, essa nella tutela e conservazione dei suoi valori è parte attiva in una costante azione di difesa. Con la costituzione del Parco si sono concretizzate le azioni amministrative per assicurare l’integrità dell’area nei suoi valori distintivi anche con il recupero e l’incentivazione delle attività prevalentemente agricole e di quelle volte alla fruizione nei vari livelli di interesse e di godimento. Nell’area archeologica si è quindi proceduto al consolidamento di strutture di maggiore evidenza e urgenza di intervento, cercando di salvaguardare la caratteristica integrazione con la natura e cioè evitando di sovvertire l’ambiente naturale nel concetto specifico dell’area protetta. Furono così recuperati parti architettoniche consistenti, quali la scala voltata “Grotta della Janara”, la cisterna “Trentasei Colonne” e la cisterna “maggiore” come punto di accesso e coordinamento dell’afflusso dei visitatori. Nel 2016 sono terminati i lavori di primo recupero del “Tempio di Giano”, l’edificio ottagonale sulla sommità, “ninfeo” a fulcro della villa, i cui ruderi di articolate sale voltate furono abbattuti durante il secondo conflitto mondiale, esponendo le strutture diroccate ad un accelerato disfacimento dagli agenti meteorici e dalla vegetazione. L’intervento necessariamente invasivo dell’area naturale, fu perciò pensato come cantiere in evoluzione e visitabile, sì da consentire nella fase finale una fruibilità del monumento e una reintegrazione nella natura come prima della distruzione. Nel 2020, con l’esecuzione di nuovi lavori per la “fruizione e messa in sicurezza” dell’area archeologica, si è recintata definitivamente la parte centrale della villa includente il Tempio di Giano, la Trentasei Colonne e la Grotta della Janara, interrompendo di fatto la continuità dell’ambiente naturale. Inoltre sono stati realizzati circa 200 metri lineari di viali di calcestruzzo oltre a piazzole sul suolo archeologico e sbancamenti che nel loro complesso prevaricano la stessa parte monumentale, sovvertendone la relazione tra le parti, alterando l’equilibrio idrogeologico e inquinando visualmente il paesaggio storico-naturale. L’esposizione porrà quindi la problematica degli interventi di scavo, di restauro e degli allestimenti per la fruizione dei visitatori da coniugare alle caratteristiche di luoghi poste a tutela e perciò i modi di afflusso del pubblico con la conservazione dell’ambiente, puntualizzando le criticità degli interventi realizzati e i possibili correttivi esigibili nella necessità di un ripristino dell’area nei valori fondanti del Parco.
Didascalie delle immagini 1. Veduta del tratto del promontorio di Giànola interessato dalla villa romana con lo sfondo dei monti Aurunci. 2. La scala voltata “Grotta della Janara” (foto G. De Filippis). 3. Pianta, veduta esterna e interno di parte del “Tempio di Giano”, disegni di metà Ottocento di Pasquale Mattej. 4. Un tratto dei percorsi in calcestruzzo realizzati in prossimità del “Tempio di Giano”.

sabato 22 aprile 2023

LA VIA APPIA A FORMIA - Una mostra nelle visioni del Grand Tour - di Salvatore Ciccone
Giovedì 20 aprile, nel contesto dell’inaugurazione dell’ufficio Informazioni Assistenza Turistica (IAT – tel. 0771.778386), situato al piano terra del Palazzo Municipale su piazza della Vittoria, è stata aperta una mostra di antiche stampe dalla collezione di Renato Marchese, concernente luoghi attraenti di Formia, esposizione che rimarrà aperta fino al 26 aprile. Il territorio di Formia antica fu beneficiato da innumerevoli rappresentazioni e descrizioni di artisti e letterati sul cammino del Grand Tour, l’itinerario di istruzione che dal 1700 le classi più agiate compivano in Europa con immancabile meta l’Italia. Quei “turisti” venivano affascinati dal paesaggio costellato dai resti della città antica e vivificato da caratteristici costumi popolari, non di meno da quella stessa via romana che per eccellenza il poeta Publio Papinio Stazio nel I secolo designò “regina viarum”, la regina delle vie; così quelli nel percorrerla idealmente ritrovavano il fondamento della cultura umanistica nelle glorie di Roma antica. Le prolifiche visioni si devono alla via Appia, fino a tutto l’Ottocento l’unica strada che attraversava in lunghezza l’abitato e il territorio costiero. Perciò in questa strettoia fu conveniente una porta daziaria nel borgo di Mola che imponeva una sosta correlata al riposo dei cavalli, favorendo il luogo ad una più prolungata e piacevole permanenza. La via Appia è quindi ben più estesa nello spazio e nel tempo, non una antichità obsoleta, ma con una dimensione utilitaria ancora oggi attuale per lo più fedele all’antico percorso per più di 2.300 anni. La via fu il primo tracciato pianificato realizzato dai Romani nella loro espansione verso il Meridione, iniziata dal censore Appio Claudio Centemmano detto il Cieco nel 312 avanti Cristo, il medesimo che costruì il primo acquedotto dell’Urbe. La via da Roma in due anni, passando per Latium adiectum con le città di Terracina, Fondi, Formia, Minturno e Sinuessa, raggiunse Capua nel 314, in 132 miglia; nelle conquiste successive di oltre un secolo arrivò a Taranto e poi si concluse in 370 miglia a Brindisi, il porto sulle rotte per la Grecia e l’Oriente. L’Appia di allora non era quella dell’immaginario attuale, cioè rivestita di blocchi di grigio basalto e affiancata da pini a ombrello, come appare nel contesto della Fontana Romana ad occidente di Formia in località San Remigio, bensì una più modesta strada inghiaiata che però era sapientemente strutturata su strati di pietrame immessi in una trincea per assicurarne il drenaggio e la solidità. Solo nel 295 a.C. venne lastricato il primo miglio e poi nel 292 fino a 11 miglia in blocchi poligonali di pietra lavica, quindi in tratti consecutivi rivestita con il prevalente calcare: nel tratto formiano vi si sovrappose il basalto vulcanico con l’imperatore Caracalla nel 216 d.C., da Fondi per 21 miglia fino all’88°, alla porta occidentale di Formia. Le dimensioni della via si determinarono secondo il corpo umano in uso allora in ogni costruzione, come Vitruvio spiega e geometrizza con l’uomo nel quadrato e nel cerchio, interpretato nel celebre disegno di Leonardo riportato anche sulla moneta da 1 euro. Perciò era precisamente misurata in miglia e scandita da colonne miliari: un miglio corrispondeva a mille passi, il passo era quello doppio compiuto in avanti che conteneva cinque piedi ciascuno di 29,6 centimetri e cioè 1,478 metri, quindi mille passi pari a 1478 metri, poco meno di 1,5 chilometri. La carreggiata minima era stabilita in 14 piedi, circa 4,14 metri, dovuta all’incrocio di due carri ciascuno largo quanto due buoi affiancati e normato con 1 passo più gli spazi utili. La larghezza tra le ruote si trova nelle “ormaie”, i solchi prodotti sul lastricato dal ripetuto passaggio ed è quello che ancora determina lo scartamento dei binari ferroviari europei di circa 143 centimetri. Nel centro urbano di Formia la via oggi si distingue per il lastricato di moderni blocchi squadrati di basalto vulcanico e si identifica con i nomi di Via Rubino e via Lavanga, dalla parte superiore occidentale di Rialto a quella inferiore orientale di Caposelice-largo Paone. Questo tratto si sovrappone alla via romana, reperita in scavi contingenti, e che costituiva il principale asse viario su cui si strutturava l’impianto della città romana: il “decumanus maximus” che la percorreva da est a ovest tangente il porto, importante nodo di scambio militare e commerciale. Inizialmente la via doveva passare a monte della potente cinta muraria poligonale e solo dopo il 188 a. C., con l’acquisizione della piena cittadinanza romana, fatta attraversare nello “oppidum” nella necessità di un rito di rifondazione in “urbs” incentrata sul Foro; da ciò si ebbe l’impulso di opere pubbliche e la elezione di centro privilegiato di villeggiatura. La via Appia si rappresentava anche nel rituale funerario, in processioni mortuarie, aree per l’incinerazione o “ustrina”, sepolture, monumenti sepolcrali dei personaggi eminenti presso le ville e più accalcati in vicinanza delle città, tale così da renderne mesto il transito. Il tratto formiano della via Appia è emblematico con la Tomba di Cicerone, attribuibile al celebre personaggio qui ucciso presso la sua villa il 7 dicembre del 43 a. C. Presso l’altro elemento significativo della Fontana Romana, è un sepolcro di recente scavo riconducibile ad un Marco Vitruvio, forse l’autore del trattato di architettura dedicato ad Augusto e che si ritiene più probabilmente originario di Formia. Nel tratto orientale della città, la via Appia proseguiva a monte dell’attuale borgo di Mola, ripercorsa da via della Conca, ma interrotta nel prosieguo: è rintracciabile al termine dell’acquedotto romano, dove recentemente è affiorato un tratto della massicciata, quindi con altre tracce fino all’attuale piazza Risorgimento. La via interna al Borgo risale al Medioevo quando il tratto romano sul pianoro superiore venne impantanato e deviato per scopi strategici sul castello angioino di fine Duecento dominato dalla grande torre circolare. La via Appia nel Regno di Napoli venne restaurata durante il dominio spagnolo dal 1568 e chiamata “Strada Regia”, opere contrassegnate da monumenti commemorativi: uno è quello in rudere presso il coevo Ponte di Rialto. In quell’occasione accanto al Castello di Mola sorse la porta daziaria detta “degli Spagnoli”, quella che determinò la sosta obbligata dei viaggiatori in un generale rifiorire di attività. La più recente costrizione del traffico determinò la parallela costiera di via Vitruvio realizzata in due fasi sullo scorcio dell’800 e nel primo 900 anche nel prolungamento orientale di via Emanuele Filiberto, presso la zona industriale di Mola. Come la via Appia è stata portatrice di sviluppo, così è stata di rovina. Dopo le distruzioni del secondo conflitto, i progressivi condizionamenti veicolari hanno trovato soluzione sommaria negli anni 1950 con il passaggio della variante Appia litoranea, declassando definitivamente l’antica Appia oltre che nel nome e sottomettendo al traffico il paesaggio costiero che distingueva la città, che tanto aveva ispirato e che tanto poteva promuovere. L’esposizione di antiche stampe e disegni vuole reclamare un recupero di identità di Formia verso una nuova visione e prospettive future della città. Il prossimo inserimento della via Appia nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO, influenzerà una parte consistente del territorio di Formia, rappresentando un impegno irrinunciabile nelle sue potenzialità.
Nelle immagini: un momento dell’inaugurazione della mostra a quattro incisioni all’acquaforte opere dell’architetto Luigi Rossini datate 1835.

giovedì 2 marzo 2023

UNO SCRITTORE FORMIANO: PIERLUIGI LAROTONDA. IL SUO SAGGIO INCHIESTA “IL DELITTO AMMATURO” PRESENTATO IN SALA STAMPA CAMERA DEI DEPUTATI.- di Renato Marchese
Conosco Giuseppe Larotonda, padre di una delle tante eccellenze della nostra città ma che ha stabilito altrove la propria residenza portando con sé il proprio bagaglio culturale. Ho incontrato recentemente Giuseppe e chiedendogli del figlio mi sono sentito rispondere che si è trasferito in Toscana. Pierluigi Larotonda è uno scrittore nato a Formia nel 1973 che oggi vive a Prato, dove scrive sul settimanale Bisenziosette e conduce un programma culturale su radiocanale7. Intervistare uno scrittore è sempre un'ottima opportunità per conoscere meglio il suo lavoro e le sue ispirazioni, per questo l’ho raggiunto telefonicamente per farmi raccontare dei sui libri e di come conduce la sua rubrica radiofonica.
Quando hai lasciato Formia e perché? "Verso la fine degli anni Novanta. Ho vissuto prima ad Alessandria, prestando servizio civile nella locale sezione dell'Associazione Italiana Sclerosi Multipla. Un'esperienza per me bella e importante, in quanto, attraverso il trasporto di persone diversamente abili, ho potuto conoscere varie zone del Piemonte. Nel 2001 il trasferimento a Prato, città industriale, soprattutto tessile, ma anche ricchissima di cultura e movimenti artistici contemporanei. Oltre alla questione dell'occupazione, la spinta a lasciare Formia penso fu anche la voglia di intraprendere nuove esperienze di vita in luoghi diversi da quelli vissuti fino alla laurea in Economia." In quale Università ti sei laureato? "All’Università degli Studi di Cassino." Cosa ti porti dentro della nostra città tirrenica? "Tante cose ma una su tutte il mare. Amo il mare e le storie di mare. Il 2022 è stato il cinquecentesimo anniversario della prima circumnavigazione attorno al globo, compiuta da Magellano e raccontata nel diario di navigazione dall'italiano Antonio Pigafetta. Così, partendo dalla documentazione storica del XVI secolo, ho scritto un libro per bambini e ragazzi dal titolo Antonio Pigafetta sulle navi di Magellano. Un volume illustrato da un'artista russa e pubblicato da Freccia d'Oro edizioni. L'ho presentato anche a Bologna, in una piccola biblioteca. Sono molto legato, ritornando a Formia, alla Torre di Mola, pilastro simbolico della città. Su di essa, in fondo, sono trascritte centinaia di racconti, molti ancora da scoprire." Un altro libro che hai scritto è stato di recente presentato presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati. Un traguardo importante. Parlamene. "Si tratta di un saggio d'inchiesta pubblicato da Giazira scritture e nel quale affronto l'omicidio del capo della mobile di Napoli, vicequestore Antonio Ammaturo. Il 15 luglio del 1982, primo pomeriggio, veniva assassinato in Piazza Nicola Amore questo integerrimo funzionario di polizia da parte di un commando di brigatisti rossi. Uccisero il capo della mobile e la guardia scelta Pasquale Paola. In quel periodo le Brigate rosse, a Napoli, erano ormai allo sbando eppure decisero di eliminare il vicequestore malgrado questi si fosse sempre occupato di criminalità organizzata, soprattutto camorra, e mai di terrorismo. L'anno prima i terroristi rossi sequestrarono il potente assessore ai lavori pubblici della Campania, Ciro Cirillo, e nel luglio dello stesso anno liberato grazie al pagamento di una cospicua somma di denaro. Per anni, sottovoce, si è parlato di una responsabilità della camorra cutoliana mentre io ho lavorato sulla pista della Nuova Famiglia, i nemici di Raffaele Cutolo. I brigatisti rossi che uccisero Antonio Ammaturo furono protetti da Renato Cinquegranella, killer della Nuova Famiglia e, del resto, anche il Procuratore Nazionale Antimafia Giovanni Melillo il 15 luglio 2022 si esprimeva su una possibile riapertura del caso, ponendo come condizione necessaria proprio l'arresto del latitante Cinquegranella." Dedicherai un giorno un libro alla tua Formia? "Non penso. Forse perché, amandola troppo, rischierei di non aver quel giusto distacco necessario alla stesura di un romanzo o di un saggio." Raccontami un po' della tua attività come speaker radiofonico? "Conduco una rubrica culturale conosciuta come Racconti Urbani. Ogni settimana abbiamo un ospite, in genere uno scrittore o pittore, con il quale discutiamo non solo delle sue opere ma anche dei collegamenti con le varie tendenze artistiche nazionali e internazionali. Importante è l'elemento metropolitano. le storie urbane. La radio con la quale collaboro, Radiocanale7, è una web radio professionale, con due studi di registrazione tutti rigorosamente forniti di pannelli fonoassorbenti. Sembra di entrare in una radio dal sapore tradizionale ma proiettata nel futuro. Collegamenti nazionali e non solo. Addirittura abbiamo un programma seguito dalla comunità rumena e da tanti della stessa Romania, ovviamente condotto nella loro lingua. Programmi sul cinema, sulla musica napoletana, sul calcio." Allora potresti dedicare qualche puntata per parlare di Formia. "Direi di sì. In fondo Formia fa parte di un'area metropolitana complessa, laziale ma con sfumature di cultura e sapori campani. Poi il mare, elemento vitale che racconta, che narra. Un argomento da trattare sarebbe anche quello del dissesto idrogeologico, non grave ma comunque già preoccupante, che ha portato, causa piogge intense, a frane e tragedie sfiorate. Basti pensare agli allagamenti di settembre e novembre dello scorso anno, che hanno evidenziato la fragilità di un territorio e testimoniato che per anni si è costruito senza tener presente dei problemi geologici."
Nelle fotografie: Pierluigi Larotonda, in radio, nella sala stampa della Camera dei Deputati e la copertina del suo Saggio Inchiesta.