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mercoledì 22 febbraio 2023

PISCINE NELL’ANTICO PAESAGGIO DA SPERLONGA-GROTTA DI TIBERIO A FORMIA di Salvatore Ciccone
Nel precedente articolo ho esposto come la via costiera fatta costruire dal censore Lucio Valerio Flacco nel 184 a.C. e che si vuole da Terracina a Formia, in realtà partisse da Fondi e la sua opera effettiva fosse il superamento delle falesie tra Sperlonga e Gaeta per raccordare due distinti percorsi preesistenti. Livio scrive che la via fu condotta “verso la roccia alle acque di Nettuno e per i monti formiani”, improbabile cenno alla roccia del “Pisco Montano” di Terracina molto distante dai monti di Formia; quella è invece da di indentificare con la rupe di “Bazzano” sul lido retrostante la Grotta di Tiberio a Sperlonga e in cui ricadeva l’antico confine del municipio formiano. Le acque di Nettuno potevano riferirsi alle copiose sorgenti presenti nella zona, dove ho rilevato l’esistenza di un originario lago costiero in cui realmente si ambientava la villa imperiale di Tiberio “Speluncae”, con l’ampio antro naturale in cui, nell’ambito di un’ampia piscina circolare, sono stati rinvenuti gruppi statuari sulle gesta di Ulisse. La via salda idealmente sulla costa gli antichi territori delle città di Fondi e Formia, nonché l’esemplare residenza imperiale alla catena di “villae maritimae” sull’antico litorale formiano e alle connesse “piscinae”, di cui una da me rilevata per estensione è raffrontabile con quella nella Grotta di Tiberio. La piscina è antistante la punta del monte Conca, lungo la stessa “via Flacca”, e rimarca il contorno della villa a forma di trapezio isoscele raccordata all’estremo cantone dell’argine con una vasca circolare: il suo diametro di 29,57 metri è 100 piedi romani (1 piede = m. 0,2957) e si rapporta alla lunghezza della piscina di 300 piedi e alla larghezza di 50. Dunque qui è dominante la geometria dell’impianto, associato alla contenuta area della villa per aumentarne la consistenza e con il cerchio a ribadire nel paesaggio la preminente curva del golfo. Si evidenzia perciò come alla specifica funzione di allevamento ittico in rapporto alla natura vi si connotavano qualità estetiche su precisi criteri proporzionali di valenza architettonica. Nella “Spelunca” la piscina circolare è condizionata con un minore diametro di 21,35 metri, ma invadendo l’antro, minimizzando il passaggio tra l’acqua e le rocce, appare più vasta e risalta verso l’apertura intersecando una vasca esterna rettangolare. In questa è collocato un isolotto con annessi scomparti e sul quale era allestito il triclinio rivolto verso l’interno della cavità. Nelle pareti della stessa vasca sono inglobate parti di anfore di consueto predisposte come tane per i pesci, ma che fanno risaltare una anomalia nell’alimentazione idrica dell’impianto. Attualmente queste tane si trovano a circa un metro sopra il livello medio del mare, sicché non avrebbe potuto sommergerle: impossibile un bradisismo che ha elevato la costa, perché se fosse stata più in basso tutta la parte litoranea della villa sarebbe stata invasa; nemmeno è credibile che si allevassero pesci d’acqua dolce utilizzando le fonti dell’antro, qualità poco gradite a fronte di quelle marine, lì davanti. La spiegazione è fornita da due canali appaiati e comunicanti con la vasca quadrangolare: uno largo e certamente di spurgo, l’altro proveniente dalle pendici fuori la grotta e connesso ai resti appena visibili di un serbatoio. Dunque l’alimentazione periodica della piscina doveva avvenire tramite l’innalzamento di acqua marina con le macchine idrauliche allora disponibili: una ‘noria’ a catena di vasi oppure una pompa aspirante a leva “di Ctesibio”. Comunque tutto ciò non basta ad ammettere la sequenza per circa 400 metri di costruzioni esposte ai marosi senza alcuna protezione e difatti oggi squassate. Ho lungamente esaminato le strutture e queste risultano essere state fondate in acqua con getti di malta idraulica, capaci cioè di indurire in cassoni di legno immersi nel mare. Ma era il mare? No, in assenza di consistenti opere protettive quali delle scogliere. Facendo riferimento anche a dati geologici ho così concluso che doveva esserci un lago costiero sia pur limitato, talché la villa sarebbe stata ambientata in una doppia entità acquea, marina e lacustre, di massima esaltazione paesaggistica. La piscina si trova in un specchio d’acqua arginato nel lago per evitare ristagni, alzarne il livello per farlo fluire lungo la parte propriamente abitativa della residenza e sfociare presso una bocca e un approdo. Di questa situazione si trova persino traccia nell’epigrafe in versi esametri trovata nell’antro, dove si menzionano emotivamente le scene eroiche di Ulisse come l’ambiente tra cui “vivi laghi”, vale a dire naturali. Riguardo ai motivi ispirativi, al solare paesaggio marino della piscina di Conca, la “Spelunca” quale ventre della terra evocava significati occulti, gli inferi e il tema della morte, insiti nell’allestimento scultoreo. Tuttavia nell’ambito della piscina circolare le raffigurazioni si presentavano accozzate e visivamente interferenti così da sminuire di ognuna lo specifico momento espressivo: al centro Scilla che vorticosa assalta la nave di Ulisse, ma anteposta all’accecamento di Polifemo ed entrambe anticipate dai gruppi di Ulisse e Diomede nel ratto del Palladio e di Ulisse con il cadavere di Achille, sui due ritagli con la vasca quadrangolare. Anche considerando un diverso gusto improntato alla spettacolarità d’insieme, la disposizione sembra suggerire una sottesa componente ordinativa. Ho perciò ravvisato come la piscina circolare significasse il circuito celeste in cui le sbalordenti sculture si trovano rapportate in analogia a miti fissati nelle costellazioni e ricordanti il generale accalcamento degli astri: Scilla che avvolge i marinai come le spire del Dragone alle Orse, Polifemo ubriacato e accecato come il gigante Orione dai satiri; quindi i due gruppi minori, alle costellazioni dei Gemelli e al cosiddetto “Inginocchiato”, rispettivamente Ulisse e Diomede e Ulisse genuflesso a sostenere Achille. La medesima analogia è rimarcata sull’apertura arcuata dell’antro, al colmo l’Aquila di Giove nel rapire Ganimede, alle estremità Andromeda legata alle rocce e la prua della “Navis Argo”: elementi non attinenti all’Odissea, ma si riferiscono ad altrettante costellazioni, come di consueto rappresentate su alcuni archi in similitudine al cielo. Alla generica forma circolare, certamente adatta alla cavità e al più accomunata al mare, all’apparenza stupefacente pur incline all’orrido, si nasconde un più dotto significato nel rapporto tra terra, mare e cielo, tra le gesta di Ulisse e i personaggi elevati a costellazioni tutte relazionate agli Argonauti, tra i quali c’era anche Laerte, padre di Ulisse. Si deve poi considerare che gli astri secondo Esiodo sarebbero stati sprigionati dalla terra, in Omero dalle acque, due componenti fondamentali espressi nell’antro. Questa acquisizione, che sviluppa ulteriori riscontri interpretativi della “Spelunca”, mi induce a ritenere che questo allestimento fosse stato prodotto non per l’imperatore Tiberio, ma per gli imperatori Flavi cui senza dubbio risalgono i rifacimenti e le sculture sull’apertura dell’antro, del quale l’ostentata sfarzosità e il gusto riconducibili a Flavio Domiziano sul finire del I secolo d.C. Probabilmente fu di ispirazione il nuovo poema epico “Argonautica” di Gaio Valerio Flacco, di Sezze, ultimo componente noto della famiglia di quello dell’omonima via, scritte su modello virgiliano per celebrare l’imperatore Flavio Vespasiano per aver aperto nuove rotte e sviluppato i commerci via mare, considerato persino tra gli astri a guida dei naviganti. Le piscine circolari esaminate dimostrano come queste realizzazioni fossero determinate nella sintesi dell’architettura che Vitruvio dice madre di tutte le arti; i reperti e gli studi archeologici devono pertanto nelle singole interpretazioni trovare finalità in una pari elaborazione d’insieme, per far sì di recepire da queste testimonianze gli aspetti del passato, una identità propositiva nel presente, un senso alla stessa ricerca. Le più estese trattazioni sono state da me pubblicate negli Atti del Convegno “Formianum” IX-2001, Caramanica Editore 2021, ISBN 978-88-7425-326-5; in generale sull’argomento delle “piscinae” in “Formianum” IV-1996, idem ed. 1998, ISBN 88-86261-63-2.
DIDASCALIE DELLE IMMAGINI: 1 – Il tratto litoraneo presso Sperlonga distinto dalla roccia “Bazzano”, antico confine di Formia. 2 – La Grotta di Tiberio e il tratto di costa percorso dalla via di Lucio Valerio Flacco: Il moto ondoso indica il basso fondale che rivela l’originaria laguna con la villa espresse nella ricostruzione (S. Ciccone, 1995). 3 – La “piscina” in località Conca lungo la via Flacca, vista attuale da monte e nella ricostruzione ideale della “villa maritima” (S. Ciccone, 1996). 4 – Villa di Tiberio. Sopra, le strutture dei portici interrotte dal mare e che manifestano il diverso ambiente originario. Sotto, sintesi di rilievo: 1 - bacino lacustre con peschiera prolungata nella Grotta e - 2 - padiglione residenziale; 3 - parte terminale del bacino verso lo sfioratore con - 4 - scogliera protettiva verso la bocca del lago; 5 - banchina trapezia di ormeggio (Ciccone, 1995). 5 – Villa di Tiberio, la piscina circolare invasiva dell’antro: al centro base del Gruppo di Scilla e sulla banchina il fondale del gruppo di Polifemo.

venerdì 17 febbraio 2023

VEDUTA E COSTUMI DI FORMIA NELLE PORCELLANA DELLA REAL FABBRICA FERDINANDEA 
- di Renato Marchese
Tra i servizi da tavola in porcellana realizzati, certamente quello della Real Fabbrica Ferdinandea delle Porcellane di Napoli, è uno dei più rari e belli. Voluto da Ferdinando IV di Borbone, venne modellato e creato alla fine del XVIII secolo, composto da numerosi pezzi. Il servizio, chiamato dell'Oca per via del pomello dei coperchi che raffigurano un puttino che abbraccia un'oca, è decorato con le vedute dei siti più famosi e pittoreschi del Regno di Napoli, tratte da opere di Hackert, Cardon, Hamilton e dell'Abate di Saint-Non. 
In una grande zuppiera è stata dipinta una veduta di Mola, tratta dal famoso dipinto di Hackert del 1793. Di questo splendido servizio di porcellane, se ne conservano ben 347 pezzi, nel museo di Capodimonte in Napoli. Una serie di piatti di porcella dal diametro di cm 26, e raffiguranti le vestiture del Regno, facenti a parte del servizio vennero messi in lavorazione nella Real Fabbrica Ferdinandea, a seguito di un decreto emesso da Ferdinando IV di Borbone nel 1784. L'anno precedente, nel 1783, per ordine del re i pittori Alessandro D'Anna e Antonio Berotti partirono per quel viaggio che per più di un secolo avrebbe condizionato le arti decorative del Regno di Napoli, e in particolare la produzione delle porcellane, tanto care al re. L'obiettivo degli artisti era quello di riprendere dal vero i costumi popolari delle varie province del Regno. Tra i tanti : un piatto raffigura un uomo e donna del borgo di Mola, un secondo una donna di Mola ed un terzo una donna di Castellonorato. I piatti vennero dipinti prendendo a modello le composizioni bucoliche che i pittori itineranti, Alessandro D'Anna e Antonio Berotti, avevano raffigurato nei loro viaggi. Il servizio, chiamato "delle Vestiture del Regno di Napoli", costituì un vasto repertorio iconografico che fu ampiamente sfruttato nella decorazione della porcellana. Sul retro del piatto una scritta di colore rosso descrive il costume. Il lavoro svolto da Alessandro D'Anna fu molto apprezzato da Ferdinando IV, tanto che volle far riprodurre alcuni costumi in piccole statuette di porcellana. Consegnati gli acquerelli al direttore della Real Fabbrica della Porcellana, Domenico Venuti, vennero modellate le piccole sculture.

Nelle fotografie La zuppiera, i tre piatti coronati in porcellana dura e ricoperta di vernice stannifera, e una statuetta in porcellana della donna di Castellonorato con il costume disegnato da Alessandro D'Anna, altezza della figura cm 28.

martedì 7 febbraio 2023

DA SPERLONGA-GROTTA DI TIBERIO A FORMIA UNA VIA DALL’ATTUALITÀ ALLA STORIA di Salvatore Ciccone
La realizzazione della via litoranea “Flacca” negli anni 1950, da Sperlonga a Formia provocò l’alterazione di uno dei tratti più belli d’Italia. Quest’opera magnificata certo per le capacità tecniche e realizzative nella pur comprensibile enfasi del progresso post-bellico, ha avuto ed ha effetti diversi a seconda della morfologia e delle diverse situazioni sociali e politiche dei luoghi attraversati. Senza dubbio a tranciare Formia con il nastro di asfalto e cemento fu una precisa e documentata scelta politica degli amministratori. Questi, partecipi di una diffusa disinformazione sulle opportunità economiche, rifiutarono l’alternativa di una via pedemontana ritenuta dirottante i benefici indotti dal passaggio veicolare; in realtà fu una occasione per invalidare i vincoli archeologici e paesaggistici che gravavano sul comparto costiero che impedivano su di esso l’espansione edilizia e ciò fu fatto proponendo alla Soprintendenza il progetto della via come asse di un parco archeologico: assurdo benché approvato, produsse danni diretti sui monumenti; poi via via dissolto il parco è restata la strada che ha ipotecato il futuro della Città. Non fu così a Gaeta, dove la “Flacca” passò a monte dell’abitato; così ugualmente a Sperlonga, che prima capolinea da Fondi si trovò improvvisamente collegata tra Roma e Napoli, aprendo impensabili alternative alla sua prevalente economia agricola e di piccola pesca. Questa nuova opportunità aprì gli occhi agli Sperlongani, allorché nel 1957 si ebbe la scoperta delle spettacolari sculture nella Grotta di Tiberio, negli iniziali scavi su licenza della Soprintendenza condotti dall’ingegnere Erno Bellante impegnato alla realizzazione della via. I cittadini, intere famiglie, impedirono con presidi il trasporto dei reperti a Roma, finché non si decise di conservarli sul posto, associando all’area di scavo della villa imperiale un museo e del quale proprio quest’anno ricorre il sessantesimo anno dall’inaugurazione (1963). Quale fu l’impulso per Sperlonga tutti possono constatarlo insieme alle negatività provocate, a Formia uniche e ineluttabili. Da queste considerazioni è opportuno allargare la visione alla storia della precedente via romana, dalla quale l’odierna ha preso anche impropriamente il nome. Essa è identificata con quella che lo storico Tito Livio (“A. U. c.”, XXXIX, 44) dice realizzata dal censore Lucio Valerio Flacco nel corrispettivo anno 184 a.C.: “E Flacco separatamente [dal collega Catone il Vecchio] alla roccia delle Acque di Nettuno, affinché vi fosse un passaggio per la gente, [fece] la via per i monti Formiani” (Et separatim Flaccus molem ad Neptunias Aquas, ut iter populo esset, et viam per Formianum montem). Finora si è riconosciuto il luogo della “roccia delle Acque di Nettuno” con quello citato dall’architetto Vitruvio (“De Architectura”, VIII, 3): “Così si narra essere stata in Terracina una fonte che si chiamava Nettuno, del quale moriva chi inconsideratamente beveva, e che perciò gli antichi l’avessero ostruita” (Uti fuisse dicitur Terracinae fons, qui vocabatur Neptunius; ex quo qui biberant imprudentes vita privabantus: quapropter antiqui eum obstruxisse dicuntur). Il fatto che a Terracina anche il monte è indicato “Neptunius” e che lì vi sono sorgenti sulfuree, oltre alla caratteristica roccia del “Pisco Montano”, ha fatto sì che l’inizio di quella strada venisse identificato in quel luogo, anticipando di tre secoli la variante traianea della via Appia. In realtà Vitruvio riferisce, nella seconda metà del I secolo a. C., un fatto tradizionalmente accaduto certamente prima dei tempi di Flacco; pertanto Livio, oltretutto più giovane di Vitruvio, non poteva prendere come riferimento topografico una fonte non più esistente, se non leggendaria. Inoltre la via, realizzata per i monti Formiani, non poteva partire da Terracina, con un maggior tratto sul litorale di Fondi rispetto a quello per i monti di Formia; Livio avrebbe poi specificato Terracina come altrove ha fatto (“A. U. c.” XL, 51, 2): “Lepidus molem ad Terracinam ingratum opus...”. Non rimane che pensare le Acque di Nettuno in un altro sito prossimo al territorio di Formiae. Sul versante opposto del monte Ciannito e alla Grotta di Tiberio, si presenta un terrazzamento sostenuto da un muro megalitico, incluso in una successiva villa romana di età repubblicana; uguale situazione si ha nella villa detta “Grotte Salse”, all’estremità occidentale della piana di S. Agostino. Essendo queste mura risalenti all’età preromana e perciò antecedenti la via di Flacco, è probabile che i due insediamenti originari fossero al termine di due distinti percorsi, uno dalla parte di “Caieta” per la valle di S. Agostino e di Longato, l’altro dalla parte di “Fundi”. Da questi due capi le insuperabili falesie che sbarravano il transito costiero potevano essere solo superate aggirandole superiormente: dalla villa oltre il monte Ciannito salendo con una via ancora distinguibile; dal capo delle “Grotte Salse” per il “canale Pecorane”, testimonianza del transito delle greggi verso il mare. Riguardo alle “Acque di Nettuno”, vi sono ricchissime sorgenti ai piedi del promontorio sperlongano come nell’area della Grotta di Tiberio; queste in origine confluivano in un lago costiero, dove realmente si inserivano la villa imperiale e quella prossima, acque che dovevano ispirare una specifica divinità. Se la villa imperiale era certamente ubicata nell’antico territorio di Fondi, è anche vero che il confine con quello formiano era prossimo e ripercorso nel Medioevo da quello di Gaeta; infatti ricadeva al termine del lido ad oriente del monte Ciannito, dove si erge imponente la roccia “Bazzano”, conformazione d’erosione simile al Pisco Montano di Terracina. È quindi lecito pensare che Livio si riferisse a queste fonti e a questa roccia come probabile confine tra “Fundi” e “Formiae” per indicare l’inizio di questa via e appunto condotta per “Formianum montem”, per congiungere due percorsi ciechi e di disagevole raggiungimento dalla via Appia. Dunque Lucio Valerio Flacco avrebbe realizzato non una strada da Terracina a Formia, a coprire una distanza di oltre 40 chilometri (27 miglia romane; 1 miglio = m. 1478,5), ma un ben più breve tratto di circa 3 chilometri lungo le falesie (2-2,5 miglia), temerariamente condotto a strapiombo sul mare con arditi muri a secco e perfino con un tratto in galleria, utilizzando una caverna nella Punta Capovento. Ad ulteriore conforto di questa tesi si deve rilevare la mancanza di tracce viarie nel più lungo tratto, per natura pantanosa e necessario di notevoli opere di sostegno, nonché di colonne miliari. Quanto alla parte nel tratto formiano antico, doveva già esistere il percorso diramato da quello a servizio del porto naturale di Caieta, di cui l’incrocio è presso la chiesa di S. Maria di Conca, probabilmente adeguato alla nuova comunicazione col versante fondano. Questa interpretazione fornisce inoltre nel territorio della villa imperiale una più completa visione dell’antica topografia dei luoghi, dove l’abbondanza delle sorgenti che si univano al mare, mediate dai laghi costieri, giustificherebbero il nome di “acque” di Nettuno, poi prevaricato da quello della “Spelunca”, quando questa venne elevata a spettacolare ninfeo della villa di Tiberio, dove avvenne il catastrofico crollo che per poco non uccise lo stesso imperatore (Tacito, “Annales” IV, 59) riadattato ulteriormente arricchito con nuovo significato probabilmente dall’imperatore Domiziano. Queste acquisizioni sull’antico, conferiscono legami ideali tra la villa di Tiberio e la catena di ville litoranee di cui eccelleva il territorio formiano, non di meno per le “piscinae” che nella “Spelunca”, oltre alle particolarità tecniche, la figura circolare rappresentava il circuito celeste dove le sbalordenti sculture sulle gesta di Ulisse si rapportavano in analogia a miti fissati nelle costellazioni. Quanto all’attualità non resta constatare come a Formia agli irreparabili danni arrecati dalla via moderna, nulla è stato compiuto per recuperare l’enorme patrimonio da essa attraversato per risarcire il paesaggio almeno sul piano morale e culturale. Le mie argomentazioni sull’antica via Flacca, sul paesaggio costiero originario e sull’interpretazione della Grotta di Tiberio, sono state pubblicate negli Atti del Convegno “Formianum” IX-2001, Caramanica Editore 2021, ISBN 978-88-7425-326-5 e presentate insieme al volume nel 2022, a Formia per l’Associazione Koiné presso l’Archivio Storico - Castello di Mola il 17 marzo, il 14 maggio per il Museo Civico – Castello Caetani di Fondi.
DIDASCALIE DELLE IMMAGINI 1 – La Grotta di Tiberio e il tratto di costa attraversato dalla via realizzata dal Lucio Valerio Flacco. 2 – Il tratto litoraneo presso Sperlonga distinto dalla roccia “Bazzano”, antico confine di Formia. 3 – Un tratto dell’antica Flacca sostenuto con muro a secco sotto la falesia di monte “Vannelamare”. 4 – L’antica strada per il porto di “Caieta” presso S. Maria di Conca: oltre a destra la diramazione della “via Flacca”. 5 – Via Olivella sulla spiaggia di Vindicio, tratto terminale della antica “via Flacca”: a sinistra nel muro sono riutilizzati gli antichi basoli scuri della pavimentazione.

venerdì 3 febbraio 2023

UNA VERTENZA CAVALLERESCA A FORMIA NEL 1910, OVVERO UN DUELLO MANCATO

Nel 1908 una Banca di Formia, posta in liquidazione, aveva la necessità di acquisire il denaro contante derivante da crediti in essere. Il defunto signor Raffaele Forcina, aveva contratto un debito con la Banca di 18.000 lire, ipotecando una sua proprietà. Il signor Erasmo Scarpati, a conoscenza del debito, si offrì di pagarlo e di acquistare la proprietà. Quando la trattativa tra la Banca e lo Scarpati era già a buon punto, intervenne il signor Giovanni Lavanga, intimo amico dello Scarpati e zio degli eredi Forcina, debitori verso la Banca, convincendo lo Scarpati a desistere dall'acquisto. Erasmo Scarpati, galantuomo, confermando al Lavanga stima ed amicizia, ruppe ogni trattativa con la Banca. Trascorsi due anni, la Banca era ancora in attività ed il debito Forcina ancora in essere. Segretamente il signor Giovanni Lavanga, intraprese una trattativa con la Banca per l'acquisto del credito ipotecario che due anni prima aveva fatto recedere al suo amico Erasmo Scarpati. Lo Scarpati venne informato del fatto e immediatamente si presentò in Banca offrendo senza trattare la somma necessaria per estinguere il credito ipotecario, ed acquistò l'intera proprietà. 
Giovanni Lavanga non digerì la perdita della proprietà Forcina, e dimentico della cortesia fattagli dallo Scarpati due anni prima, incontrandolo in un circolo dell'Unione, alla presenza di molte persone, lo ingiuriò con parole irriguardose e villane. 
Il 30 aprile del 1910, nello stesso Circolo il Lavanga rivolto all'ex amico Scarpati, in presenza di altre persone gli disse: "Ti ho offeso, con l'intenzione di offenderti e, se vuoi, sarò domani a casa mia, in via XX Settembre, a tua disposizione". 
 La sfida era lanciata. 
Il 1° maggio, alle ore 18, Erasmo Scarpati invia i sigg. Carlo Paone e Alfredo Sciarretta, in qualità di portatori di sfida, a casa del Lavanga. Ricevuti i padrini di Scarpati, il Lavanga con voce spavalda esclamò : "Accetto la sfida, e miei padrini verranno degli Ufficiali!" L'art. 129 del Codice cavalleresco Gelli cita testualmente : "I portatori di sfida devono evitare qualsiasi discussione con lo sfidato, onde eliminare qualsiasi motivo di provocazione o malinteso. Comunicata la sfida si ritireranno, lasciando allo sfidato col cartello il loro indirizzo e l'ora in cui riceveranno i rappresentanti dello sfidato". 
Fu così che i padrini dello sfidante, senza aggiungere altro, tornarono dallo Scarpati per comunicare l'esito dell'incontro. Il 2 maggio, giorno fissato per il duello i sigg. Paone e Sciarretta attesero inutilmente gli ufficiali che avrebbero dovuto impersonare i padrini del Lavanga, che non si presentarono all'appuntamento. Si attese inutilmente le ulteriori 24 ore come previsto dal Codice Cavalleresco Gelli, ma anche queste altre 24 ore trascorsero senza che i padrini del Lavanga si presentassero a quelli dello Scarpati.
 Alle ore 18 del giorno 3 maggio i sigg. Paone e Sciarretta, mandarono la seguente lettera a Erasmo Scarpati:
 "Formia, 3 maggio (ore 19,00) 
Egregio Sig. Erasmo Scarpati - Città - 
In seguito al vostro deferente mandato ci recammo il giorno 1 maggio alle ore 18 dal sig. Giovanni Lavanga che incontrammo proprio sul crocicchio innanzi al suo villino, e potemmo comunicargli quanto ci avevate comunicato di fare... (...)... Infine ci dichiarò formalmente che accettava la sfida riserbandoci di metterci in comunicazione con i suoi rappresentanti, onde all'uopo noi gli indicammo il luogo del nostro ritrovo. Però, con non poca meraviglia, abbiamo atteso invano le rituali ventiquattro ore; ciò non ostante per nostra longanimità , attendemmo ancora altrettanto tempo inutilmente.. (...)... noi sottoscritti sentiamo il dovere di rassegnarvi il mandato, dichiarando che la condotta del Lavanga deve considerarsi un vero e proprio rifiuto alla sfida.
 Carlo Paone
 e Alfredo Sciarretta" Fu così che Giovanni Lavanga, accreditato come famoso cavaliere venne meno alle disposizioni cavalleresche dell'epoca. 
In uno scritto, probabilmente fatto pubblicare da Erasmo Scarpati si legge:
 "Ed è così che voi siete, o Lavanga, il continuatore delle gesta del vostro maestro don Chisciotte?
 Non sapete voi il termine stabilito in cavalleria perché alla sfida portata dai padrini dell'offeso si risponda con presentazione dei padrini dell'altra parte nelle 24 ore?
 Vergogna, vergogna! Ma vergogna maggiormente perché col vostro metodo cavalleresco avete fatto poco onore al vostro maestro! Vi fate dietro e venite meno alle regole cavalleresche, rifiutando di battervi! Avete rifiutato la partita d'onore, ma sarebbero stati più a proposito quattro sonori schiaffi! Almeno del nuovo don Chisciotte avremmo visto rosse le gote e la cavalleria sarebbe stato meglio che fosse giunta... a piedi!"
 Così termina una "Vertenza Cavalleresca", con mancato duello, realmente accaduta in Formia nel 1910.
Nelle immagini una veduta della contrada spiaggia con ingrandito il particolare dove era

mercoledì 1 febbraio 2023

LA SACRALITÀ DEL MONTE ALTINO: LE STATUE DEL REDENTORE E DELL’ARCANGELO MICHELE - di Salvatore Ciccone
Sabato 28 gennaio a Marànola, nella chiesa della SS. Annunziata, ho partecipato come relatore alla presentazione del libro “L’autore della statua” curato dall’amico da Gerardo De Meo, il quale da molti anni conduce studi sul patrimonio del suo paese con la competenza e la tenacia di stimato artista. Egli ha così tratteggiato le vicende del monumento sulla vetta del monte Altino, della cui imponente statua di ghisa di Gesù Redentore ha identificato lo scultore rimasto occultato per oltre cento anni: era Vincenzo Morricone (1855 – 1922), cittadino di Arpino, che lavorava per conto della ditta Rosa, Zanazio e C. di Roma, finora unica riconosciuta realizzatrice della scultura. Il convegno è parte del calendario dell’anno giubilare in onore di San Michele compatrono di Marànola, la cui statua di pietra alta meno di un metro, comunque gravosa, dal paese viene condotta con la tradizionale “Scalata” a permanere d’estate nel suo santuario sul monte Altino a 1100 metri d’altitudine. Logico è stato quindi contemplare anche un approfondimento su questa statua ben più antica e leggendaria, accomunata all’altra nell’essere stati ignoti gli autori e per identificarsi nel ristretto ambito della significativa cima del monte Altino; ho qui già scritto due post sull’argomento (giugno e settembre 2021) che qui focalizzo su ulteriori acquisizioni. La considerazione sacrale di questo monte risale certamente alla remota Antichità, poiché i suoi profili salienti a più mille metri incentrati all’inconfondibile vetta a forma di capo e in antitesi alla cavità costiera impongono una apparenza emblematica: insieme alla penisola di Gaeta furono certamente distintivi all’identificazione degli approdi. Il nome “Altino” risale alle pergamene altomedievali relative un oratorio di San Michele presente nell’anno 830 e che nel 978 si specifica cenobio “in cilio montis qui vocatur de altino” e cioè “sul ciglio del monte che chiamano di altino”, dove Altino appare determinato come appellativo di una divinità. È attendibile che in epoca romana quel monte possente fosse così indicato come sede del massimo dio Giove: una iscrizione formiana menziona consacrato ad egli un “lucus”, ossia un particolare bosco da individuare in quella zona in passato estesamente alberata. Altino si ritrova come paese in provincia di Chieti, a circa 350 di quota e dove è anche un sito di Sant’Angelo, mentre la città di Quarto di Altino si riferisce ad “Altinum”, una città portuale al limite della piana veneta a circa due metri sul livello del mare, nome dunque che non si rapporta all’altitudine dei luoghi. La “Altinum” romana rimanda la denominazione alla sua omonima e massima divinità con un santuario e un “lucus”: era “Altno” di origine venetica e di non chiara identità, ma per suprema importanza usata come “epiclesi” di Giove. Ciò appare estraneo per distanza dei territori e culture, senonché il popolo degli Aurunci, chiamati Ausoni dai Greci, sono ritenuti appartenenti a quelle popolazioni indoeuropee del gruppo dei Latini-Falisci e proprio dei Latini-Veneti migrate nella Penisola nel primo millennio a. C.; dunque da “Altno” ad “Altinum” romana, risalirebbe l’indicazione di queste vette del territorio degli Aurunci. Sul monte Altino il cenobio di San Michele si trovava nell’ampio speco grondante perennemente acqua e sicuramente già protetta da una divinità pagana, ciò che certamente ha motivato l’imposizione dell’Arcangelo per purificare il luogo e sempre presente laddove caverne e burroni potessero richiamare gli inferi e la manifestazione del demonio. Dell’originaria costruzione nulla è rimasto; essa con pochi muri doveva chiudere le parti più basse dell’anfratto, per l’oratorio e per il rifugio dei monaci. l’edificio di culto giunto nella sua ultima forma settecentesca, proteso con cupola però assai degradato, sullo scorcio del 1800 venne avviato a rifondazione dall’intraprendente monsignor Ruggiero arciprete di Marànola: fu ispirato al Santuario di San Michele del Gargano, chiudendo parte dell’anfratto con una piccola facciata neogotica di pietra intagliata ed inaugurato nel 1895. Contestualmente si provvide al restauro della statua di San Michele di cui il Ruggiero identificò la pietra col peperino dei colli Albani. Venne portata a Roma alle cure dello scultore Giuseppe Blasetti (1826 – 1908) il quale, accreditando la remota tradizione locale, la stimò risalente all’età romana tarda o all’alto Medioevo e adattata alla figura dell’Angelo. Evidente è l’abbaglio, poiché l’impostazione della scultura è palesemente risalente all’età “moderna” e cioè dalla fine del 1400 ad almeno il 1600 e pertanto concepita dall’inizio come immagine di San Michele, confrontabile con la più pregevole statua venerata sul Gargano, di simili dimensioni e realizzata in marmo dall’insigne Andrea Sansovino nel 1507. In questa evidenza sulla base, oltre ad uno stemma e alla traccia dell’epiteto “Angelus / Victor”, è indicativa la sigla “P F” riconducibile a Pompeo Ferrucci, nato a Fiesole nel 1565, artista presente a Roma dal 1605 con una caratterizzata produzione nella ingente decorazione agli inizi del Barocco, iscritto all’Accademia di San Luca nel 1607 e morto nel luglio 1637. Si confronta così il San Michele con varie sue opere, anche ugualmente siglate, di cui la Madonna col Bimbo in marmo di circa il 1630 sull’ingresso del convento delle Maestre Pie in via delle Botteghe Oscure, appare con medesime modeste dimensioni, arti tozzi e segnatamente nella postura con la gamba sinistra rialzata su una pietra. Il peperino dei Colli Albani di cui è fatto il San Michele fa risaltare la sicura presenza del Ferrucci a Frascati con l’altorilievo marmoreo “La consegna delle chiavi”, firmato e datato 1611 e destinato alla Basilica Vaticana, ma poi adattato alla cattedrale suburbicaria di San Pietro tra aprile e maggio del 1612; nella stessa Frascati sono a lui ricondotti anche dei busti classicheggianti di peperino all’esterno di alcune ville gentilizie. La data del 1612 si compara a quanto riferisce il Ruggiero dei lavori per il nuovo santuario, dove sulla parete esterna all’attuale altare di Maria Ausiliatrice comparve sull’intonaco la scritta impressa a fresco “fatta nel 1612”. Questa collimazione di date induce a ritenere lavori di rifacimento nella chiesa rupestre contestuali la nuova statua, di cui il peperino sebbene non pregiato si prestava per resistenza all’umidità e al gelo. Questa circostanza evidenzia la figura Pedro de Onã, vescovo di Gaeta dal 1605 al 1626. Nato a Burgos nel 1560 e voluto a Gaeta da Filippo III di Spagna, era già stato collaboratore e Assistente al Soglio di Papa Paolo V, il committente dell’altorilievo poi adattato a Frascati, potendo perciò aver conosciuto il Ferrucci. A Gaeta egli si distinse come costruttore, zelante verso i competenti uffici vaticani e in attrito con i magistrati civici: eresse la chiesa di San Carlo Borromeo, consacrato quella di San Giacomo nel Borgo e atteso a lavori nella cattedrale in parte a sue spese, tra cui il succorpo. In questa attività di incentivazione degli edifici ecclesiastici è altamente probabile il suo diretto intervento in una azione di recupero della chiesa sul monte Altino e della collocazione del relativo nuovo simulacro di peperino, probabilmente nel 1612. Riguardo al trasporto della statua, si devono considerare gli scambi commerciali tra Gaeta e Roma via mare e poi sul fiume, tra i quali è documentata la destinazione al Porto di Ripetta delle olive in salamoia e dell’olio. La statua dell’Arcangelo Michele, dimostrata opera di Pompeo Ferrucci, si svela come vera e propria testimone del paesaggio, cioè della complessa stratificazione culturale relazionata agli aspetti naturali di questo territorio; da essa si è risalito a remote epoche evidenziando nel segno di religioni diverse la considerazione dell’uomo verso il divino, alla fede, che ora accompagnano tradizioni e identità. Come ha sottolineato il parroco Don Giuseppe Sparagna, queste acquisizioni non infrangono la memoria popolare, al contrario ne aumentano il valore nel vissuto di generazioni di credenti che attraverso quella statua hanno elevato preghiere e ricevuto grazie. La stessa conferenza, nella sobria chiesa trecentesca, con il folto e attento pubblico di fedeli, al cospetto del celebrato simulacro dell’Arcangelo e in riguardo al monumento del Redentore, si è avvertita come partecipato tributo di devozione.
DIDASCALIE DELLE IMMAGINI 1 – La prevalente sagoma del Monte Altino, risaltato nella cavità del golfo chiuso dalla penisola di Gaeta. 2 – La facciata del Santuario inaugurato nel 1895, in sostituzione di una cappella esterna con cupola. 3 – L’uniformità dei canoni compositivi tra la statua di San Michele dell’Altino e quella del Gargano, scolpita da Andrea Sansovino nel 1507. 4 – Rilievo dei contrassegni alla base della statua di San Michele, dove la sigla “P F” riconduce allo scultore Pompeo Ferrucci (1565-1637). 5 – Le simili proporzioni e la particolare postura delle gambe delle statue di San Michele e della Madonna con il Bimbo di Ferrucci (1630) in Roma.