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venerdì 10 settembre 2021

IL paesaggio da riconsiderare: CASTELLONORATO di Salvatore Ciccone
Non è solo l’esemplare ‘bellezza’ a determinare l’importanza di un paesaggio, se esso è inteso come insieme delle componenti naturali e delle culture umane: sono infatti le seconde spesso celate a determinare di quello il suo effettivo significato e a suscitare il pensiero. Ne è esempio Castellonorato, che dopo le distruzioni dell’ultimo conflitto, depauperato dei suoi abitanti e degradato nell’abbandono del suo territorio agricolo, sembra essere privo di ogni considerazione. La collina sul quale è arroccato questo borgo, domina la veduta di levante di Formia, sul mare conclusa dal promontorio di Giànola: questo a macchia mediterranea e boschi di sughere, l’altra a steppa di strame. Entrambi i rilievi hanno in comune la formazione, con rocce in enormi massi costituiti di ciottoli di un primitivo delta fluviale, cementati e poi innalzati in milioni di anni insieme agli incombenti monti Aurunci. Da entrambi si gode un panorama circolare: sul golfo chiuso dalla penisola di Gaeta, alle isole Ponziane e partenopee, alla valle del fiume Garigliano chiusa dal monte Massico, con lo sfondo evanescente del Vesuvio, talora fino ai monti Lattari, poi l’aspro baluardo alpestre che chiude a settentrione. Non meraviglia quindi se a Giànola fosse eretta una vastissima villa romana e sull’altra altura la rocca di Castellonorato. Come trapela dal nome, il “Castrum Honorati” venne innalzato da Onorato I conte di Fondi nel 1386-90 con funzione di vedetta al confine meridionale della contea, sul tragitto dell’antica via “Erculanea” verso l’interna valle del Liri, la Terra di S. Benedetto. Proprio questa esigenza inderogabile di osservazione del territorio presuppone una preesistenza che coprisse la visuale tra i più antichi castelli di Marànola e di Minturno, una torre tra le tante erette in punti strategici. A questa è probabile che vi fosse aggregato il più evoluto insediamento abitato a nome del conte, prodigo nelle opere di potenziamento strategico a Marànola come nel Castellone, originaria arce di Formia antica. Allungato sul crinale della collina a 300 metri di altezza, il castello si avvantaggiava di una rupe come cinta naturale e inattaccabile, determinata dalla giacitura delle rocce che, inclinate a meridione verso il mare, dietro scoprono sul pendio sottostante l’argilla dell’originario fondale marino; in questa zona infatti la via della Fornace testimonia una passata manifattura di terrecotte. Sulla parte di mezzogiorno si adegua la cinta muraria con torri tonde e quadrate a chiudere l’abitato che, dalla torre maggiore quadrilatera alta una dozzina di metri ma più elevata su un cocuzzolo, scende ad occidente con impianto a pettine sull’unica via connessa a tre porte: quella superstite a sud, il “Capo la Porta”, posta di traverso al centro delle mura alla sommità di tornanti; un’altra ad est nella parte più eminente a ridosso della torre maggiore, il “Capo la Terra”; la terza ad ovest, una posterula nel luogo detto “Caùto”, ‘buco’. Alla spoglia torre di pietra priva di merli, le uniche forme dell’architettura ogivale tardo trecentesca restano nell’ampio, basso arco del Capo la Porta e nelle crociere a sesto rialzato nell’unica navata della chiesa di S. Caterina, la cui torre campanaria altrettanto spoglia rappresenta l’altro tardivo elemento emergente del borgo: della costruzione di quest’ultimo una bella insegna di maiolica con lo stemma del paese cita i due sindaci in data 1776. Era allora presente l’istituto comunale o “Università” con il relativo “Seggio”, rimasto a nome della via principale, dopo che si distaccò da Marànola nel 1428, ma tornando ad essa nel 1807 e poi riottenere l’autonomia comunale nel 1851, persa di nuovo in favore di Formia nel 1928. Tra le case diroccate dalle cannonate dell’ultima guerra, comprese tra quelle abitate impropriamente riadattate, appaiono scolpite le rocce e inglobati gli enormi blocchi della cima e vi si trovano dei frantoi per estrarre e custodire all’interno delle mura il prezioso olio di oliva, allora maggiormente commerciato per l’illuminazione. Un’altra fonte di reddito si apprende nello Statuto di Castellonorato del 1507 e riguarda la coltivazione dello zafferano o “croco”, e “Coco” infatti resta a denominazione di una località verso Spigno. L’attività praticata sul territorio si osserva nei secolari terrazzamenti con muri a secco o “macere”, anzi millenaria considerando quelli in opera poligonale, certamente preromani, che si concatenano ai piedi della montagna, primario insediamento sparso di gruppi familiari dedichi principalmente alla pastorizia e la cui pratica dell’incendio ha lasciato brulle le pendici più acclivi. Esemplare è quello alla “Palombara”, dove una estesa e liscia parete di enormi massi poligonali perfettamente giuntati è attraversata da un adito lungo e stretto coperto da una embrionale volta cuneata: dilavata dalla gialla argilla del campo superiore assume un colore dorato e difatti citata nel 1076 “da parte de palombarum parietem qui dicitur porta auria”, la Porta d’Oro. Il nome del luogo è diversificato alle rocce incombenti, la “Rava di Palombara”, all’omonima fonte e al titolo dell’accostata chiesuola della Madonna della Palomba, riferita alla Vergine col Bimbo sorvolati dalla colomba dello Spirito Santo; tuttavia richiama più i “palombari”, certe grotte di Matera, così come “grotta” è chiamato il cunicolo megalitico, dal quale sembra più probabilmente originato l’epiteto della Madonna. La storia del castello legata al suo fondatore sfuma nella leggenda. Il conte Onorato di famiglia influente discesa pare nel IX secolo da un duca di Gaeta, mirava a costituire un vero e proprio regno tra quello di Napoli e le Terre del Papa tanto che ad Urbano VI alterna fedeltà o vi riceve scomunica, quando si fece promotore a Fondi dell’elezione dell’antipapa Clemente VII, il primo dello Scisma d’Occidente e ad insediarsi in Avignone. L’epilogo nella primavera del 1400, quando Onorato è assalito in quel castello dalle milizie di Bonifacio IX e di re Ladislao di Napoli; sconfitto ne morì pare per un colpo apoplettico il 20 aprile: si vuole che il conte fosse inumato con la sua preziosa armatura, la tenuta della sua dignità, in una grotta segreta sotto la rocca, evidentemente per evitare la dissacrazione delle sue spoglie. Sicuramente questo grande ed inquieto principe è lì sepolto e il cui paese tutto rappresenta un grande monumento funebre con impresso il nome a imperitura lapide. Castellonorato, da apparente borgo solitario e dimesso, si rivela di elevatissimo significato nella storia d’Italia, come rivela l’attenta lettura alla sola una fugace veduta. Un esempio questo di come si deve riconsiderare tutto il ‘paesaggio’ di Formia, per riconoscere e tutelare la memoria identitaria dei cittadini e risorse fondamentali per il futuro della Città. Il presente articolo è stato pubblicato in forma più estesa nella rivista “Lazio ieri e oggi”, n. 4-6, Roma 2020.
Immagini: Castellonorato, il versante sul lato monte (foto F. Forcina); Il panorama orientale di Formia caratterizzato sullo sfondo a destra dall’eminenza di Castellonorato (inc. Sarcent, 2^ metà ’800, coll. R. Marchese); L’arco ogivato all’interno del Capo la Porta (sec. XIV; foto F. Forcina); L’unica navata a crociere della chiesa di S. Caterina d’Alessandria (sec. XIV): a sinistra il simulacro della Madonna della Palomba (foto F. Forcina); L’insegna di maiolica del campanile datata 1776, prima dei recenti restauri (foto S. Ciccone); Il muro in opera poligonale in località Palombara, attraversato da un corridoio a volta cuneata (sec. V-IV a.C.; foto S. Ciccone); La torre prima e dopo i lavori di restauro a cura dell’ultimo proprietario prof Nicola Jadanza di Roma nel 1971 (foto dal volumetto “Castellonorato e la sua Torre” di Nicola Jadanza).

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