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mercoledì 15 dicembre 2021

LE MOLE DI FORMIA: PERMANENZA E RINASCITA DI UNA CITTA’ "Lunario Romano 1995", Mestieri nel Lazio, Roma 1995, pp. 177-194. di Salvatore Ciccone
“Volo liberum esse petrulum a mola” (Voglio che sia libero Petrulo [uno schiavo] a Mola), con questa disposizione del testamento dell'ipata di Gaeta Docibile dell'anno 906, pubblicata nel Codex Diplomaticus Cajetanus (di seguito C.D.C.), compare la prima menzione del borgo di Mola, oggi quartiere di Formia. Il nome del sito rivela la presenza di un'attività molitoria, determinata dalla presenza di copiose sorgenti in un’esile striscia di terra tra il mare e le estreme pendici dei Monti Aurunci. L'acqua si incanalava in numerosi «formali», correndo cristallina e rapida tra gli orti di agrumi, le vie e le case per unirsi al mare, specchio di un cielo splendente per i quali Simmaco scrisse di Formia tanta “coeli salubritate, et aquarum frigore” (Epistolarum, 8, 23). La particolarità motiva il nome stesso di Formia che Strabone (Geographia, 5, 233) dice derivare dal greco hormiai, approdi, se si pensa che proprio in quest'ansa di mare più protetta e così proliferante di sorgenti i Romani vi edificarono il porto. La genesi di Formia da una colonizzazione sparsa di pagi fortificati, solo nel V-IV secolo passa ad un insediamento cinto da poderose mura megalitiche a controllo del valico costiero, i “formiana saxa” (Livio, Ab Urbe condita libri, anno 215): per la morfologia del luogo si sviluppava in linea al mare per circa un chilometro dalla rocca al porto verso est, la zona che sarà Mola. La principale arteria, un'importante via di transumanza, passava immediatamente a monte delle fortificazioni, fin quando il tracciato della via Appia diede una nuova impostazione alla città, attraversandola a formare il decumano massimo. Questo terminava in prossimità del porto per poi aggirarlo, dove nel Medioevo si diceva “Capite silicis” (C.D.C. n.430, anno 1306); la via pedemontana tuttavia sopravvisse, testimoniata nello stesso periodo come “Massarina”. Nell'area del porto sono documentati i balnea riforniti da un acquedotto su archi, un edificio peninsulare sotto il Castello di Mola di probabile destinazione cultuale e tra i reperti una dedica sacra a Fontano (Corp.Inscr.Lat., X, 6100), dio delle fonti, che evidenzia la peculiarità e l'importanza delle scaturigini in questo contesto infrastrutturale. Appare verosimile come già in quell'epoca la forza motrice sviluppata dall'acqua fosse utilizzata per azionare mole per cereali, innovazione introdotta verso il 170 a.C. e di cui Vitruvio (X, 5) ne descrive sommariamente il funzionamento: derivando il movimento dalla ruota idraulica: «i mulini ad acqua (hydraletae) (...) tengono attaccata all'estremità dell'asse una ruota dentata (tympanum dentatum) che posta verticalmente gira insieme all'asse: una seconda ruota dentata più grande si pone accanto orizzontalmente con il suo asse, sull'estremo del quale vi è il sostegno di ferro (subscudem ferream) che ne regge la macina (mola). Così (...) fanno girare la macina, sopra la quale stando appesa la tramoggia (infundibulum) somministra alle macine il frumento, ricavandone la farina». Le testimonianze archeologiche forniscono complessi esempi di mulini, come quello di Arles a otto ruote idrauliche, di cui è significativa l'utilizzazione consecutiva dell'acqua per una fullonica o lavanderia. Con i noti eventi della decadenza, il tessuto urbano di Formia venne rarefacendosi, rimanendo tuttavia focalizzato nei due principali poli della rocca e del quartiere portuale mentre si accresceva il castrum sorto sull'antistante promontorio a presidio del porto naturale di Cajeta. È qui che non ultime le vicende legate all'occupazione saracena dall'846 al 915, le principali rappresentanze del potere si trasferiranno a determinarne la nuova Civitas, che fortemente eccentrica rispetto al territorio produttivo avrà come principale base logistica il quartiere delle mole determinandone l'impulso. Nei diplomi medioevali che vanno dal X al XIV secolo nel C.D.C. sono nominate a Mola ben 12 aquismolae e individuate nella integrata mappa corografica: “de pampilini” (906-1008); “maiore” (933-1386); “minore” (933-1010); “de palude” (934-1024); "de Armenie” (937-1079); “Sancti Georgi” (954-1055); “de flumicello frigidi” (1002); “de tauro” (1024); “Zoppella” (1056-1386); “de follinu” (1353); “dellu Poggio”, “de fore, della Camera” (1386). Esclusi i mulini coevi e quelli nominati insieme quali di Armenia e della Palude, del Toro e della Palude, Maggiore e Minore, Zoppella e Maggiore, S. Giorgio e Maggiore, del Fiumicello e Maggiore, è probabile che alcuni di essi cambiassero nome, come sicuramente dimostrabile per i secoli più recenti; che venissero abbandonati, rimpiazzati o che assumessero più tardi alcuni dei nomi suddetti, come quello posto sotto il mulino della Palude, poi Zoppella, o i “molendini novi iuxta portum ipsius loci molarum” del 1305, forse poi indicati in quelli “della Camera”, “de Fore” e “del Poggio”. Sta di fatto che in un documento governativo del primo Ottocento pubblicato da A. Di Biasio, riguardante il Comune di Mola e Castellone di Gaeta" oggi Formia, si dice espressamente che superato il ponte sul fosso (del Rio Fresco già Flumicello Frigido) sul cammino da Napoli a Roma, «a destra delle prime abitazioni — perciò a monte della via — esistono dieci mulini a granaglia, animati dal perenne e copioso sgorgo delle acque dei suoi monti». Rimane quindi comprovata la quantità dei mulini dedotti dalle antiche pergamene, dovendo anche considerare che per mulino si indicavano i frantoi o «montani», le cui molazze erano mosse ugualmente da ruote idrauliche. Il numero elevato di queste mole spiega da sé il nome dato al luogo, ancor più per il peso che avevano per la vita delle popolazioni di questo territorio. Questa attività prevalente non poteva che innescare un sistema più ampio ed articolato, sviluppando un nuovo e specifico tessuto urbano e gettando le basi di una futura rinascita “politica”. La lettura dei documenti va ben oltre la semplice citazione, offrendo una interrelazione di notizie che vanno dalla topografia dei luoghi, alle caratteristiche costruttive dei mulini e al loro impiego, ai proprietari e locatari, alle spettanze dei redditi, alle disposizioni sulle trasmissioni dei diritti, a scambi periodici, permute, vendite, riparazioni. Primariamente necessaria è la restituzione topografica delle varie fasi dell'insediamento per comprendere in che modo e in quale misura lo sviluppo di questa attività ha esercitato sull'evoluzione del borgo. Per l'ubicazione dei mulini è essenziale sapere che la strada fondamentale del borgo, via Abate Tosti, in tempi più recenti creduta e indicata come via Appia, in realtà è un percorso sostitutivo del basso Medioevo sulla medesima direttrice della consolare situata sul pianoro soprastante un centinaio di metri. In origine il borgo si strutturava sulle diramazioni a pettine che dall'Appia conducevano al mare, di cui quella per il porto era costituita dalle vie Maiorino-Provenzali; poi di seguito verso oriente via S. Lorenzo o «Portone Vecchio», via Orto del Re, via Ponte di Mola. L'ambito delle mole è strettamente dipendente dalle tre scaturigini, più o meno a 200 metri dal mare e nello spazio di circa 600 metri, di cui una è a Caposelice-Conca e le altre due vicino al capo orientale in prossimità del Rio Fresco-Ponte di Mola. Queste sorgenti asservite alla rete idrica cittadina e i formali, già in parte tombinati durante gli interventi urbanistici degli anni Trenta, sono oggi praticamente scomparsi. È possibile ora ricostruirne i percorsi per mezzo delle mappe che vanno dalla prima metà dell'Ottocento agli anni Cinquanta, individuando i siti e talvolta gli edifici stessi dei mulini. Delle mole, solo una sfruttava le acque del «Fiumicello Freddo», collocata su un'isola del medesimo, alle spalle dell'antico ponte dell'Appia: aveva un proprio canale di derivazione con chiusa e in pertinenza altre due isolette di cui una nella foce. Tutti gli altri mulini erano disposti lungo la rete dei formali, sfruttando i salti di quota per aumentare la velocità dell'acqua e regolati da chiuse dalla presa ai collettori e alle diramazioni. Vicina al fiumicello, la sorgente più abbondante alimentava dapprima il Mulino di S. Giorgio, eponimo della fonte, versando l'acqua nel “Gran Formale” che scendeva diritto al mare sottopassando un ponticello, verosimilmente della via Appia, sotto il quale stavano in stretta successione la Mola Maggiore e la Mola Minore. Il formale dell'altra sorgente, poco ad occidente della prima, tagliava trasversalmente diretto all'ansa del porto al “Mulino di Armenia”, seguendo in parte lo speco dell'acquedotto romano, oltre gli archi del quale vi era una diramazione verso il “Portone Vecchio” per un mulino posto sotto l'Appia, quello del Toro. Dalla medesima sorgente è probabile che provenisse l'altro formale del Mulino della Palude, ubicato sul pianoro acquitrinoso in sommità di via Orto del Re. Sul versante opposto dell'insenatura portuale, a Caposelice, correva l'acqua dell'altro formale che sottopassava la via Appia, attuale via della Conca, e azionava il Mulino di Follino, così chiamato forse perché in combinazione con una fullonica; da questa attività ne deriverebbe il nome attuale di vico Gualchiera. I restanti cinque mulini di epoca medievale, per l'assenza a diretti e noti riferimenti topografici, non sono individuabili che in via mediata attraverso testimonianze di varia natura, restando perciò elevato il grado di incertezza. Nell’immagine: Mappa corografica del Borgo di Mola tra X e XVIII secolo (S. Ciccone 1995) in nero pieno le sorgenti, i corsi d’acqua e il battente marino; in tratteggio i percorsi dismessi: A, Porta della Spiaggia; B, Castello di Mola e Porta del Ponte o degli Spagnoli; C, acquedotto romano. Mulini:1, di Follino; 2, di Armenia; 3, del Toro (Portone Vecchio); 4, 5, 6, Zoppella, di Pampilino, della Stretta (Orto del Re – Strettola); 7, della Palude; 8, S. Giorgio; 9, 10, Maggiore e Minore; 11, de Fore; 12, del Fiumicello. Nella vignetta, scorcio ridisegnato del Gran Formale con strutture pertinenti un mulino (da P. Mattej, 1840 ca.).

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