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sabato 18 dicembre 2021

LE MOLE DI FORMIA: PERMANENZA E RINASCITA DI UNA CITTA’ "Lunario Romano 1995", Mestieri nel Lazio, Roma 1995, pp. 177-194. di Salvatore Ciccone
(seconda parte) Si è a conoscenza che la Mola Zoppella si trovava prossima a quella di Pampilino, rispettivamente appartenenti ai monasteri di S. Erasmo di Formia e di S. Michele in Planciano a Gaeta. Di tali proprietà la prima sembra la mola anonima posta sotto il mulino della Palude e sfruttante il medesimo formale; la seconda si trovava invece sulla spiaggia del mare: entrambe dovevano dunque trovarsi nell'area di via Orto del Re. In una pianta parziale del borgo risalente al 1830, sono indicati in quel luogo due mulini disposti sulla direttrice di quella strada verso occidente, quello in alto di proprietà Agresti e l'altro sottostante sul lato opposto al mare di via Abate Tosti. Erano alimentati in successione da una diramazione del Gran Formale, ricalcante longitudinalmente il tratto antico dell'Appia. Sembra perciò di riconoscervi i mulini Zoppella e Pampilino, quest'ultimo, e non pare una coincidenza, in vicinanza della cappella di S. Michele Arcangelo inglobata poi dal duecentesco Castello di Mola. Riguardo ai condotti, sembrerebbe che il formale del Mulino della Palude venisse con esso dismesso, non essendovi traccia sulle mappe, deviando il canale all'origine e affiancandolo al Gran Formale per poi seguire, come detto, un tratto dell'Appia. La spiegazione di ciò starebbe nella presenza di un'altra mola che testimoni dicono situata nei giardini a oriente di via Orto del Re, lungo il rettilineo longitudinale, e chiamata Mola Stretta, dalla “Strettola” che era un viottolo pubblico munito di porta che conduceva agli orti, ai mulini e alle fonti. E probabile che la Mola Stretta fosse l'originale Mola “dellu Podio” o del Poggio, nome indicante o il salto di quota del luogo o qualche rudere dell'Appia. Nella medesima mappa del 1830 si trovano altre due mole consecutive in via Ponte di Mola, tra l'antica Appia e la via Abate Tosti, servite direttamente dal Gran Formale: per quella a monte più grande sembra riconoscervi le mole Maggiore e Minore. Nelle testimonianze verbali la prima veniva indicata “Mola Noce”, per la presenza di un vetusto esemplare distintivo per grandezza da altri frequenti negli orti del borgo. Verso il mare, al di là della strada, vi era il luogo detto “abbascie gliu mugline”, dove era situata la mola di proprietà Rubino: era alimentata dall'acqua dello stesso formale che sottopassava la via e si accumulava in un caratteristico bacino. Essendo questa l'unica mola posta sul versante esterno della strada medievale, non sembra azzardata l'identificazione con la Mola de Fore. Dai registri della chiesa parrocchiale dei Ss. Lorenzo e Giovanni Battista, si rilevano le rendite di alcuni mulini esistenti tra Settecento e Ottocento. Si menziona così un “montano con camera” al vicolo del Maiorino, forse il trecentesco Mulino della Camera; una “punta del vicolo di S. Caterina al Ponte”, forse la Mola de Fore; una “strettola della Madonnella ossia Molino” a Caposelice o “Vicolo della Molella” nel luogo del supposto Mulino di Follino. Dalla individuazione più o meno certa di questi mulini è importante comunque rilevare che essi si trovavano per lo più dislocati in corrispondenza delle traverse marine dell'Appia, tanto da determinare la stessa rete dei formali. Ciò comprova l'originario sistema insediativo che si sviluppava secondo raggruppamenti isolati costituiti dai mulini con le loro pertinenze e dalle abitazioni, secondo la dinamica prevalente dell'attività che si basava sull'arrivo del frumento dalla consolare, stoccaggio e macinazione, imbarco sulla costa antistante. Il nucleo originario più importante fu certamente quello della via Maiorino che conduceva al porto, la zona degli Armeni, riferimento ad uno dei contingenti tradotti nel Meridione nell’887, quando Gaeta era nell’orbita dei Bizantini. Con l'accresciuto fabbisogno di Gaeta già dovette esservi una tendenza alla saldatura di questi gruppi edificati con collegamenti spontanei lungo la spiaggia, percorsi che diverranno sostitutivi dell'Appia per motivi strategici in occasione della costruzione da parte angioina del castello, sullo scorcio del Duecento. Le caratteristiche dei mulini più antichi, desunte dai documenti, evidenziano una serie costante di elementi a configurazione di unità autosufficienti che, isolate in gran numero e concentrazione su questo substrato storico, hanno costituito le cellule di riaggregazione di un nuovo tessuto urbano. Il mulino sotto quello della Palude era una struttura integrata “con la casa, il cortile e gli orti davanti e di dietro, con la vigna annessa” (cum sedimen cortina et hortales suos ante et retro, cum ipsa vinea); è il già ipotizzato Mulino Zoppella che viene detto provvisto di “acque sue e di un suo canale e con il suo granaio” (cum aquis suis, et concursus aquarum suarum et cum paliaria sua). Similmente compaiono impostati il Mulino Maggiore, e quello Minore che si componeva “dei cortili, degli orti, delle parti in ferro, nonché della casa” (cum cortinas, seu hortales, et ferratura, necnon et sedimen suum). Maggiori particolari costruttivi si colgono in un documento del 1353 riguardante “il mulino abbandonato detto la Mola di follino, nonché una casa dello stesso mulino scoperchiata e in parte diruta” (molendinum vocatum la Mola de follinu dirrutum ac domum unam ipsius molendini discopertam et partim dirutam). Questi vengono concessi in affitto per otto anni a Francesco Romano di Mola col patto che riconsegni “!il mulino finito e riparato, con la casa coperta ad embrici (cupellus seu canales) e con le porte e le serrature, nonché anche il canale di legno (canalem de ligno) dove corre l'acqua al mulino, rifatto e finito a malta di pozzolana e pietre” (calce pulvizana et lapidibus), il tutto “ad arte dei maestri fabbricatori di Gaeta”; inoltre “il mulino riparato e rifinito in tutto il necessario con le macine, la ruota e gli ingranaggi” (lapidibus molinis et fuso). Le parti fondamentali dell'organismo meccanico, così sinteticamente delineate, sono ancora quelle ereditate dall'antichità e costituenti il mulino a macine orizzontali o a «palmenti», gradatamente soppiantate dalla metà dello scorso secolo dal sistema a cilindri metallici. Infatti le macine lapidee richiedevano frequenti e impegnative cure tanto da formare un'arte vera e propria nel mestiere del mugnaio. I palmenti erano realizzati con pietre di particolare durezza come la quarzite e lavorati in forma di spessi dischi. Caratteristica figurativa la lavorazione delle facce di fregamento con solchi a raggiera variamente disposti, rievocativi le foglie di palma. Il numero e la disposizione dei raggi dipendeva dalla qualità del grano da macinare: più radi per il grano duro, più fitti e profondi per il grano tenero, per permettere una maggiore circolazione dell'aria ed evitare il surriscaldamento delle farine. Durante la macinazione le superfici pur non in stretto contatto erano soggette ad usura, tra l'altro con dispersione di sabbie nelle farine. Per questo ogni due o quattro giorni, a seconda della quantità e qualità del frumento e anche del tipo di pietra, si doveva restituire affilatezza alle raggiere con l'operazione di «aguzzatura», eseguita con martelli a punta e a taglio, che richiedeva 4-5 ore per macina. Il sollevamento e il rovesciamento della pietra superiore si effettuava per mezzo di un verricello munito di bilancia che si agganciava a due perni opposti lungo il bordo. L'aguzzatura di una sola macina, lasciando l'altra consunta, si diceva “rabbigliatura” e permetteva una macinazione più fine, si effettuava alternativamente tra la macina superiore rotante e quella inferiore fissa o” palmento dormiente”. Proprio i palmenti sono oggi l'unica testimonianza dell'uso millenario di queste macchine che hanno dato il nome a Mola, superstiti per la loro durezza e per la loro durezza acconciati nel pavimento del vico Gualchiera a Caposelice. La presenza dei mulini era fondamentale per le popolazioni del golfo. Dapprima avevano una importanza più strategica che economica e ponendo in maggiore rilievo il sito ove essi sorgevano, in rapporto ai rifornimenti di frumento e alla macinazione più rapida per mezzo della forza idraulica; comunque il sistema delle più antiche macine permetteva una scarsa produzione giornaliera di farina e da qui il numero considerevole di queste installazioni trasformative. A conferma della loro importanza, il fatto che la proprietà fu di iniziale esclusiva degli Ipati di Gaeta e dei loro familiari, poi degli istituti monastici, primo fra tutti il monastero di “S. Erasmo di Formia”, nonché dell'episcopio; in essi lavoravano perciò servitori, monaci o venivano concessi in fitto. Interessante il prestito reciproco di due mulini, quelli della Palude e di Armenia, evidentemente volto a riequilibrare una disparità di redditi dei beni ereditati. È quindi sempre crescente negli atti la valenza economica di queste strutture di trasformazione nel quadro di una nuova espansione delle attività agricole e di controllo del territorio. In questo senso risalta l'intervento di Carlo II d'Angiò in lotta con gli Aragonesi per il possesso del Meridione. Al potenziamento delle difese di Gaeta egli stimò necessario erigere a Mola un castello tale da costituire, con la deviazione dell'Appia e l'allagamento dei soprastanti pianori, un ostacolo momentaneo alla penetrazione offensiva e alla distruzione delle attività economiche. Queste ultime dovevano essere già abbastanza sviluppate e molteplici, ma è certo che l'impulso determinante fu l'immissione di popolazione provenzale, già al seguito di Carlo I, e la ristrutturazione urbanistica a vero e proprio borgo. Con il passaggio del castello in signoria alla famiglia Gaetani, nel 1460, un nuovo soggetto si affaccia nell'economia dei mulini, col diritto del castellano di esigere “un grano a tomolo” su tutti i cereali che si macinavano nella terra di Mola e sua comarca ossia “gabellam quartucio macinae spectantibus”. Nel 1503 il monastero di S. Erasmo beneficia per i suoi mulini di una “regia esenzione delle tomola”, sia nei confronti del castellano che dei doganieri, a titolo di risarcimento dei danni di guerra: l'occupazione delle truppe di Carlo VIII e la riconquista spagnola di Gaeta dello stesso anno. Riconosciuta anche dal nuovo governo la preminenza economica e strategica di Mola, il borgo avrà installate due nuove porte, una verso l'ansa dell'antico porto detta porta della Spiaggia poi dell'Orologio, l'altra a levante unita al castello detta porta del Ponte o degli Spagnuoli; per la funzione daziaria di quest'ultima Mola divenne una sosta forzata del Grand Tour, decantata e ritratta per amenità, ma disprezzata dai malcapitati viaggiatori vittime dei soprusi dei doganieri. Le notizie sulla produzione dei macinati sono scarse e genericamente limitate alle granaglie. Si può supporre che oltre alle varie qualità di frumento vi fossero il farro, l'orzo, la segale; più tardi il mais: localmente era anche impiegato nel confezionamento di economici e compatti panini con olio di oliva detti “pène de ràurine”, dal color rame dell'ingrediente. Risalta invece una curiosa informazione tratta dalla già citata mappa del 1830, in cui appare un “Molino a Mirti” posto sotto quello Nucci in via Ponte di Mola. L'indicazione trova riscontro nei registri della chiesa parrocchiale dei Ss. Lorenzo e Giovanni Battista, dove nel 1795 si menziona la “Corba della Mirtella” esplicata come “diritto della chiesa di esigere una misura della mirtella macinata”: la macinazione delle bacche di mirto o “mortella”, la cui salsa trovava impiego nel trattamento delle carni, ma che in questo caso doveva riguardare l'estrazione di un olio profumato destinato ad uso liturgico; si trattava evidentemente di un mulino trasformato al nuovo e specifico impiego.
Nelle immagini: Veduta di Mola e della rada di Gaeta in cui è pienamente colta la floridezza delle attività produttive e commerciali nello scambio tra la via Appia e il mare (dipinto di Filippo Hackert, 1790, Reggia di Caserta); il Castello di Mola sulla variante medievale della via Appia (dis. P. Mattej, 1840 ca.): si evidenzia l’imbarco di sacchi di farina dai mulini dell’Orto del Re. (continua)

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