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mercoledì 3 novembre 2021

IL SEPOLCRO DI MARCO VITRUVIO A FORMIA di Salvatore Ciccone
Nello studio dei cosiddetti Ninfei di Villa Caposele si è risaliti al loro criterio modulare strettamente correlato ai concetti della “symmetria” esposti da Vitruvio nel “De Architectura”, fino ad identificare di questi lo schema di riferimento nelle proporzioni dell’uomo nel cerchio e nel quadrato (vedi : https://www.facebook.com/ComeEriBellaFormia/posts/4598820153514868 e https://www.facebook.com/ComeEriBellaFormia/posts/4623912414338975 ) Le stringenti corrispondenze e l’età dei “ninfei” si possono ricondurre allo stesso Vitruvio, che è più probabilmente ritenuto originario di Formia anche per le numerose epigrafi e in particolare quella funeraria di un Marco Vitruvio: più volte menzionata dagli studiosi del passato, si trova riutilizzata nelle spalle del cinquecentesco ponte di Rialto, all’ingresso occidentale della città. Queste indicazioni trovano convergenza nel 1997, dalla fortuita scoperta di un’area sepolcrale nella creazione di un passaggio attraverso un vecchio muro di contenimento sul tratto della via Appia (oggi via G. Paone) in località S. Remigio (km 140,500), in un contesto ricco e documentato di cui restano eminenti la Fontana Romana e un sepolcro a torretta ottagonale. L’elemento resosi evidente nella sezione del dislivello, consisteva nel grosso nucleo cementizio di un monumento a pianta quadrangolare in origine rivestito in “opus quadratum” di pietra calcarea, recinto sul lato di campagna con un muro in “opus reticulatum”, similmente replicato sul lato occidentale per distinguere un altro ambito funerario: da questi muri derivava l’iniziale datazione alla prima età augustea. Alla residuale scarsa consistenza architettonica, gli ambiti recintati, già in origine all’aperto, hanno invece restituito diverse olle cinerarie protette dal terreno con pance d’anfora capovolte, i cui puntali fungevano da segnacolo; dall’area relativa il monumento, in una seconda fase di scavo affioravano anche le inumazioni sovrapposte di un uomo, di una donna e di due bambini. Rimandando allo specifico resoconto archeologico in bibliografia, i contenitori delle ceneri e gli elementi di corredo, balsamari, lucerne ecc., vanno dalla fine del I secolo a.C. al II d.C., congruenti a pezzi monetali, gli “oboli di Caronte”, di età giulio-claudia, flavia e di Adriano; reperti depositati ma non ancora esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Formia. Grazie alla documentazione prodotta a metà Ottocento da Pasquale Mattej, ho potuto identificare nel monumento il sito di provenienza di alcune epigrafi relative la “gens Vitruvia”. Un suo disegno ritrae il medesimo tratto viario presso un casolare, dove ora l’edificio si presenta nell’ampliamento degli anni 1920 (fig. 1). Vi evidenzia i resti di due monumenti funerari contigui, uno in “opus quadratum” ed uno in reticolato con cantoni a blocchetti di calcare e laterizio; di questo andato distrutto nell’apertura del passaggio, Mattej in altri appunti specifica l’incasso di una epigrafe e che dice essere stata quella rimossa alla fine del Settecento da Carlo Ligny principe di Caposele per collocarla nella sua collezione nella Villa sul litorale di Castellone, così riportata da Mommsen nel “Corpus Inscriptionum Latinarum” (X, 6143): Q . CISVITIVS . Q . L ./ PHILOMVSVS . MAIOR / Q . CISVITIVS . Q . L ./ PHILOMVSVS . MIN / M . VITRVVIVS . M . L / DEMETRIVS . ET / VITRVVIA . CHRESTE / M . VITRVVIVS . M . L / ARTEMA). L’epigrafe menzionante alcuni liberti delle “gentes” Vitruvia e Cisuizia si trova inizialmente citata in una imperfetta trascrizione di Leandro Alberti nella sua “Descrittione di tutta Italia” edita a Bologna nel 1550: “Et prima si vede una tavola di marmo posta nelle mura di un nuovo edificio [il casolare ritratto dal Mattej], lunga piedi sei, e larga uno e mezo in due parti spezzata, in cui sono scritte queste parole. EX TESTAMENTO. M. Vitruvii Menpiliae hoc Monumentum. Her. E. N. M. Poi in un’altra tavola di quattro piedi per lato [quella già riprodotta]. Q. Cisuitius. Q. L. Philomusus an. Mor. Cisuitius. Q. L. Philomusus. M. N. M. Vitruvius. M. L. De. Vitruvius e Vitruviis Chreste. M. Vitruvius. S. M. L. Fratrem.”. Dunque quella epigrafe si trovava accostata ad un’altra pure relativa la “gens Vitruvia”, quella appunto tra i blocchi reimpiegati per le spalle del ponte dell’Appia sul fossato di Rialto, 600 metri oltre verso Formia, costruito nel 1568 dal viceré di Napoli Don Perafan de Ribera, perciò dopo l’annotazione dell’Alberti ed evidentemente tratta da quel sepolcro in opera quadrata raffigurato da Mattej. Così è nella trascrizione di Mommsen, con le parti visibili in grassetto (CIL X, 6190): A) “M . VITRVVIVS (…)”, verificabile nella spalla sinistra e consiste nelle sole tre lettere RVV, alte cm. 24, con incisione accurata a sezione triangolare nel tipo della ‘capitale’ repubblicana con apicature di età augustea, distribuite nella metà superiore di un blocco di calcare locale alto cm 59,5 e lungo cm 63 (fig. 2); B) “EX . TESTAMENTO arbitratu / M . VITRVVI . M . L . APELLAE . ET (…) / HOC . MONVMENTVM. HEREDEM non sequitur”, a lettere più piccole e posta di fronte, come annotato, ma risulta coperta da una moderna briglia cementizia. Il testo concerne in sostanza il sepolcro di un Marco Vitruvio “dominus” erettogli da un suo liberto ed un altro personaggio, come nella traduzione in parte lacunosa: “Marco Vitruvio (…) / per volontà testamentaria / M. Vitruvio Apella liberto di Marco [e …] / questo monumento non seguito da eredi [fece]”. L’epigrafe ha sempre suscitato l’attenzione degli studiosi per il l’omonimia del Marco Vitruvio con l’autore del “De Architettura”, ritenuto nativo di Formia per altre iscrizioni della “gens” ed anche per quel Marco Vitruvio Vacco di Fondi a capo della rivolta contro Roma nel 330 a.C. Il sepolcro rimasto sempre relegato alla tradizione letteraria e l’epigrafe con proprio valore documentale, si identificavano ora con il monumento riaffiorato, in cui l’esclusione ad eredi del “sepulcrum” non impediva la deposizione delle spoglie di liberti all’intorno in riverente protezione dell’illustre “patronus”. Alle acquisizioni archeologiche e all’identificazione topografica dei reperti epigrafici, ciò che resta del monumento solo apparentemente sembra non offrire appigli alla restituzione della sua forma. In realtà l’analisi costruttiva, metrologica e tipologica rendono fattibile un’ipotesi della sua architettura. Il nucleo in “opus caementicium” di pietre calcaree si presenta a strati alti m 0,60 (2 piedi romani; 1 piede = m 0,2957), indicando la pari altezza degli elementi del rivestimento lapideo all’interno del quale si eseguivano i progressivi getti cementizi; i piani di ripresa, per assicurare coesione, sono cosparsi di scaglie minute derivate dalla lavorazione dei blocchi: queste indicazioni sono congruenti ai reperti documentati sotto il ponte. Nella pianta lievemente sghemba, la forma del nucleo è composta di due parti sovrapposte con unico piano frontale (figg. 3, 4): quella inferiore come podio è rispetto alla via con il lato maggiore di circa m 5,50, verso l’interno m 5,30 e da alta mediamente circa m 2,15; quella superiore di m 3,90x3,50 è alta appena m. 0,60 con i due lati ortogonali alla via rientranti dal podio mediamente ad est di m 0,85 e ad ovest di m 0,75. Sul piano di queste rientranze e sui salienti del rialzo, rimangono sul conglomerato le impronte lasciate dalla parte sbozzata degli elementi lapidei, per il cui spoglio venne demolito parte del soprastante recinto reticolato. Pertanto il piano del podio era rivestito a pareggiare il rialzo con blocchi larghi circa m 0,60 posti trasversalmente, ma sul lato est alcuni vennero posizionati in senso longitudinale, penetrando il rialzo come a formare l’invito di una porta, proprio nella parte più ampia. Nella parte posteriore del medesimo rilevato resta l’impronta di un altro filare di elementi di minori dimensioni pure a pareggiare la sua sommità, mentre il resto a tergo compreso nel recinto è di solo terreno. Queste particolarità e l’assenza di un elevato nucleo cementizio induce a ritenere la parte emergente e significativa del sepolcro realizzata in soli blocchi a comprendere una cella, come nel ricorrente modello dell’altare a fregio dorico, di contenute dimensioni e decisa caratterizzazione, introdotto dalla fine del II secolo a.C. Un pezzo di fregio dorico si trova riutilizzato capovolto nel ponte di Rialto (fig. 5) e presenta la consueta versione con triglifi in partiture orizzontali a incorniciare su un unico piano la metopa: questa reca un fiore, sulle diagonali con quattro foglie dagli apici ritorti al centro delle quali risalta un tortiglione che richiama il bocciolo delle viole, specifiche con le rose al culto funerario. La forma in pianta della struttura comprensiva del recinto, considerando lo spessore dei blocchi mancanti sul fronte strada di due piedi, risulta un quadrato con lato di m 5,90 cioè 20 piedi, come le dimensioni di un’area sepolcrale scritte su un frammento di stele a sommità semicircolare murato sotto la vicina torretta ottagonale (CIL X, 6216) e forse appartenuta a quell’area. Questa misura appare sostanziare la “symmetria” del monumento, tramite lo schema del teorema di Platone, con quadrati concentrici normali e ruotati a 45 gradi, verificato nella sala tetrastila in Villa Caposele, qui alternando cerchi tangenti ai quadrati vigendo tra essi il medesimo rapporto √2. Considerando dunque il quadrato di 20 piedi del limite sepolcrale e il trascurabile scarto tra lo schema geometrico e le misure in piedi, il secondo quadrato immediatamente inferiore risulta di 14 piedi pari a m 4,14 rispondente alla parte rialzata sul podio reintegrata degli elementi lapidei a costituire lo zoccolo dell’altare (fig. 6, sotto dx); di questo pure lo spostamento funzionale verso il filo stradale e verso occidente è fatto in coincidenza delle linee del sistema geometrico (fig. 6, sotto sx). Il sovrapposto dado che realizzava il vano sepolcrale risulta essere stato all’esterno di 12 piedi (m 3,55) e all’interno di 8 (m 2,37). Le altezze del monumento dovevano pure conformarsi al criterio e considerando che quella del podio doveva dipendere dal piano più antico dell’Appia, sottoposto al rifacimento pavimentale di Caracalla in basoli vulcanici (216 d.C.), essa risulta di 10 piedi (m 2,97), metà di quella fondamentale. Per quella complessiva, nella scala di rapporto è apparsa congrua la misura del quadrato di 28 piedi cioè m 8,28 immediatamente superiore a quello fondamentale, dei quali sono dell’altare 18 piedi oltre il podio, pari ad 1,5 volte il lato del dado (fig. 6, sopra). Da ciò si può ricavare il modulo che deve necessariamente essere il divisore comune di 14-20-28, quindi di 2 piedi, dunque un modulo ‘bipedale’ confermato dalle dimensioni degli elementi lapidei, per il quale si giunge alla ripartizione in verticale di 5 moduli per il podio, 2 per lo zoccolo, 5 per il dado e ancora due per il coronamento. In tale suddivisione nella cella, la sezione semicircolare della volta certamente a padiglione, si trova sovrapposta ad un quadrato e perciò complessivamente di 12 piedi, 1,5 volte il lato interno e pari al lato esterno del dado. La collocazione del fregio aggiunge nuove considerazioni (fig. 5). La metopa è larga cm 33, esattamente 18 dita, 1 dito = cm 1,85), il triglifo ricostituito di 15 dita, cm 28 perciò sulla larghezza del dado di 12 piedi si possono comprendere 6 triglifi e 5 metope: le cinque metope ammontano a 90 dita ed altrettante ne sommano i sei triglifi con una lunghezza complessiva di m 3,33 rivelando una intenzionale proporzione in difetto per permettere una rastremazione del dado: considerando il risalto dell’ornato di un dito, ammonta esattamente a 7 dita (cm 13) in meno per lato. I numeri impiegati ricorrono in diverse scale di misura in corrispondenze ‘simmetriche’ come osservato nei cosiddetti Ninfei in Villa Caposele: 18 dita della metopa, decuplicata in 180 dita dell’intero fregio, con i 18 piedi di altezza dell’altare; la quota totale di rastremazione di 14 dita del dado con il lato dello zoccolo di 14 piedi. Inoltre si è già ravvisata una reiterazione di misure dall’orizzontale alla verticale, come i 14 piedi di base dell’altare con i 14 moduli dell’intera altezza del monumento, oppure l’ampiezza del dado di 12 piedi riportata sull’altezza della cella. Nel modello restituito trovano pure congrua collocazione gli elementi iscritti. Indicativa è la parte “M.VITRVVIVS” che con un pur breve “cognomen” doveva essere lunga intorno a m 3, la cui posizione alta delle lettere nel blocco deve giustificarsi dall’impedimento visuale come una fascia di risalto del podio. In base ai vari esempi, come il coevo sepolcro di Eurisace o quello antecedente di Bibulo a Roma, il nome si colloca bene al centro dello zoccolo dell’altare, mentre la disposizione testamentaria è adeguata su detta fascia; anche la stele con le dimensioni dell’area sepolcrale si presta a concludere il recinto sul fronte stradale. Lo scomparso epigrafista Lidio Gasperini, mentre approva la ricostruzione del monumento, preferisce la soluzione dell’epigrafe titolare posta sul dado sotto il fregio e quella testamentaria sul limite inferiore del medesimo. L’individuazione del criterio di “symmetria” anche se di estrema applicazione teorica, ha consentito in un ipotetico modello restitutivo del monumento di spiegare le peculiarità della struttura di scavo, di verificare l’attinenza degli elementi epigrafici e di quello ornamentale. Resta aperto il problema dell’identità di questo Marco Vitruvio, già ritenuto possibile quello autore del “De Architectura” ed ora più probabile in concordanza alle indicazioni provenienti dal sepolcro, fatto questo di eccezionale significato tuttavia ancora misconosciuto insieme al misero resto e come il Ponte di Rialto con i suoi frammenti epigrafici, da nascondere piuttosto che riconoscervi un privilegio. Bibliografia Michela Nocita, La Gens Vitruvia e Formia: testimonianze epigrafiche e letterarie, “Formianum” V – 1997, Atti del Convegno di Studi sull’antico territorio di Formia, Marina di Minturno 2000, pp. 117 segg. Nicoletta Cassieri, Nuove acquisizioni sul culto funerario nel Lazio meridionale: un sepolcro lungo l’Appia a Formia e un sarcofago cristiano a Fondi, “Formianum” VI – 1998, supra 2002, p.33 segg. Salvatore Ciccone, Il sepolcro formiano di Marco Vitruvio, “Formianum” VII-1999, supra 2007, p.47 segg. Aa. Vv., Vitruvio opera e documenti, “Formianum” VIII-2000, supra 2009.

1 commento:

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