mercoledì 22 dicembre 2021
LE MOLE DI FORMIA: PERMANENZA E RINASCITA DI UNA CITTA’
"Lunario Romano 1995", Mestieri nel Lazio, Roma 1995, pp. 177-194.
di Salvatore Ciccone
(terza parte)
Il processo di riduzione e riconversione dei mulini doveva già farsi sentire allora per il miglioramento delle tecniche di macinazione, ma fu decisivo con l'introduzione delle macine metalliche.
Il mulino a palmenti, benché perfezionato, aveva la caratteristica di schiacciare il frumento in un solo passaggio, detta bassa macinazione, producendo una farina ricca di impurità.
Il nuovo sistema a laminatoi e cilindri, definito di alta macinazione, si caratterizza per le macine costituite da coppie di cilindri metallici orizzontali variamente scanalati e procede allo schiacciamento del grano in fasi successive, differenziandone il prodotto fino alla massima purezza e finezza e in quantità giornaliere irraggiungibili dai vecchi mulini.
Nel 1904 sorge a Mola, nella contrada “fuori il Ponte” e sulla riva del mare, il primo mulino a cilindri mosso dalla forza del vapore, altra innovazione che svincolava questa attività dalla tradizionale dipendenza idrica oltremodo insufficiente ad azionare i più complessi macchinari. Il fondatore, Domenico Paone, concepisce una moderna industria affiancando la macinazione del frumento alla produzione di pasta alimentare che aveva intrapreso nel medesimo sito nel 1878.
La schiacciante superiorità dell'impianto rese inevitabile la chiusura di alcuni mulini, come quello dei fratelli Bove che era sorto tardivamente tra il mulino Nucci e quello a Mirti. Venne acquistato da un napoletano e riconvertito in cartiera alla quale si addicevano le grandi quantità d'acqua e lo sfruttamento della sua forza motrice; tuttavia anche la nuova impresa cessò nel 1914 e l'edificio fu trasformato in civile abitazione.
Per non chiudere l'attività i due mulini che facevano capo al formale di via Orto del Re verso il 1920 si fusero nella Società anonima “La Turbina” Molino e Pastificio, facente capo a Salvatore Magliocco. L'impianto si componeva di fabbricati contigui allineati sul versante occidentale della via e si caratterizzava dal mantenimento di una ruota idraulica perfezionata o turbina, mossa dalla maggiore quantità di acqua conseguente alla cessazione di alcuni mulini. Si trattava di una scelta operata nella tradizione sia dei modi che dei luoghi e che oggi si direbbe ecologica, ma il risparmio energetico si pagava in termini di rendimento sulla produzione e nel 1933 la società dichiarò fallimento, il fabbricato sarà adeguato a Scuola Avviamento al Lavoro, oggi Scuola Media Statale M. Vitruvio Pollione.
Nel fallimento della società fu trascinato l'altro mulino Magliocco insediato presso la Gualchiera, susseguitosi ai più antichi citati. Era mosso ancora dalla forza dell'acqua dell'omonimo formale e produceva farina integrale con il vecchio sistema dei palmenti. Venne acquistato all'incanto dai fratelli Colella che vi installarono un molino a cilindri. I nuovi opifici caratterizzarono maggiormente il tessuto urbano per la grandezza dei fabbricati, e sulla costa per i lunghi pontili di attracco per mezzo dei quali avveniva il rifornimento di grano e l'imbarco delle paste alimentari.
Il più lungo era quello dell'industria Paone, ad essa direttamente collegato, realizzato in ferro e munito di carrelli; vi ormeggiava una propria flottiglia di cui l'unità più grande era l'Immacolata III di 120 tonnellate di stazza.
Il pontile della “Turbina” si trovava in prossimità del fabbricato accanto al Castello di Mola e vi si accedeva da via Abate Tosti: era realizzato in legno con rinforzi di acciaio.
Altri pontili facevano da risalto, appartenenti ad altre industrie del luogo come quelle di laterizi “La Tiberina”, già di Tito Rubino, e quella di Luca De Meo poi SALID, che ponevano al vertice un'altra tradizione locale artigiana.
Mola si configurava ormai come quartiere industriale di Formia e la necessità di adeguate infrastrutture viarie e di approdo si rendeva inderogabile. Oltre alla costruzione del porto nel 1922 si diede mano al raddoppio della via Appia col prolungamento di via Vitruvio fino alle porte occidentali della città e allo scavalcamento del rione Mola. Quest'ultima opera fu effettivamente tracciata nel 1936 in base al piano regolatore redatto dall'architetto Gustavo Giovannoni. Tra l'altro si volle bonificare i terreni dalle acque — imperativo dell'epoca — per restituire salubrità ai luoghi. L'intervento condusse a indiscutibili vantaggi tuttavia produsse una lacerazione nel contesto abitato e di questo rispetto al territorio. La rete dei condotti scomparve fatta eccezione il Gran Formale corrente su un alto muro che, interrotto dalla nuova via, suggerì la creazione di una cascata ornamentale e la cui acqua continuava ad alimentare il rivierasco mulino di Rubino al vicoletto Ponte di Mola. Un'altra mola Rubino rimaneva presso il Maiorino, probabilmente ad uso di frantoio.
La persistenza dell'attività molitoria sviluppata in funzione di una forte industria alimentare fa sentire il suo peso anche nell'immagine materiale del quartiere. Nel 1928 il settantenne Domenico Paone con rara munificenza offre alla cittadinanza un'opera pubblica di grande impegno, la creazione di un largo con rotonda centrale nell'ansa della Spiaggia di Mola, che divenne la passeggiata del Rione. Fu un segno di riconoscenza per la considerazione che di lui avevano i cittadini, anche in occasione nell'episodio delittuoso che nel 1919 procurò col fuoco il grave danneggiamento dell'opificio. In quella occasione egli non si limitò a recuperare la raggiunta capacità produttiva, ma rinnovò potenziandolo anche il mulino con macchinari fatti eseguire dall'Officina Meccanica Lombarda.
Fino all'ultimo conflitto la tradizionale attività molitoria di Mola si concentra nei due mulini di Paone e dei Colella, ognuno con una lavorazione giornaliera di 150-200 quintali di grano. Nel primo erano occupati una decina di operai, nel secondo, compreso il pastificio, una cinquantina; poi l'indotto di facchini, trasportatori, marinai, artigiani.
Ecco allora che quest'industria si poneva in primo piano nell'occupazione del Rione e nell'economia primaria dei produttori della materia prima, dapprima singoli agricoltori, poi i consorzi.
Dai territori vicini provenivano per lo più grani teneri, dai chicchi tozzi ricchi di amido: si impiegavano principalmente per i prodotti da forno.
Più impegnativo era il rifornimento di grandi quantità di grano duro, dai chicchi allungati e lucidi, ricco di glutine, indispensabile alla fabbricazione delle paste alimentari. Paone lo trasportava dalle Puglie con i suoi motovelieri e dalla Russia per mezzo di un piroscafo che attraccava al suo pontile. In quello stabilimento la molitura in proprio agevolava la preparazione delle miscele di farine specifiche alla lavorazione dei diversi formati di pasta, oltre a controllarne la qualità, il prezzo e assicurarne le quantità necessarie.
Questa operosità fu spezzata la domenica del 12 settembre 1943, quando alle 13 tutta la zona del Ponte di Mola fu fatta segno di un violento bombardamento aereo alleato. Totalmente distrutto il pastificio; decine i morti e feriti tra i molani, molti dei quali colti in strada intenti agli ultimi acquisti di derrate. Paone, allora ultraottantenne, vi sopravvisse solo otto giorni a conferma della dedizione e dell'impegno profuso nel suo mestiere. In successivi bombardamenti anche il mulino Colella subì gravi danni, depredato inoltre di oltre 8000 quintali di grano.
Dalle macerie polverose, in fedeltà al motto araldico cittadino “post fata resurgo” si ricostruisce la speranza. Il mulino Colella riprese l'attività fino al 1960; oggi è trasformato in appartamenti. Il Pastificio Paone nella ricostruzione non ebbe reimpiantata la molitura per convenienza di mercato e passò in mano ad Erasmo, nipote del fondatore e ai due figli Domenico e Franco; da ultimo trasferito nell’area industriale di Penitro all'estremità orientale del Comune e acquisito da un facoltoso imprenditore italo-argentino.
Cessa così la lunga tradizione dei mulini che, residuati da Formia antica, per un millennio ne hanno guidato la rinascita urbana, economica e politica. Eppure il bagaglio di esperienze, la cultura del grano, la laboriosità di questa terra non sembra perduta; rimane insita nell'attuale Pastificio, diffusa in Italia, ed esportata col nome della famiglia e di Formia.
Di quella attività millenaria rimarranno il nome di Mola e quelli di vico Gualchiera con qualche pietra; dei siti del Maiorino, delle Forme, del vicolo Ponte di Mola e dell'Orto del Re; la nostalgia per quei vecchi mulini dalle caratteristiche ruote che il progresso ha relegato nella storia, ma che non impedisce di rammentarne e valorizzarne la testimonianza.
Nell’immagine il tratto della variante medievale della via Appia nella Spiaggia di Mola verso l’omonima porta poi dell’Orologio (dis. P. Mattej, 1840 ca.): l’insenatura rappresentava la parte più interna del porto romano, rimasta come valido approdo all’attività molitoria di supporto per Gaeta.
sabato 18 dicembre 2021
LE MOLE DI FORMIA: PERMANENZA E RINASCITA DI UNA CITTA’
"Lunario Romano 1995", Mestieri nel Lazio, Roma 1995, pp. 177-194.
di Salvatore Ciccone
(seconda parte)
Si è a conoscenza che la Mola Zoppella si trovava prossima a quella di Pampilino, rispettivamente appartenenti ai monasteri di S. Erasmo di Formia e di S. Michele in Planciano a Gaeta. Di tali proprietà la prima sembra la mola anonima posta sotto il mulino della Palude e sfruttante il medesimo formale; la seconda si trovava invece sulla spiaggia del mare: entrambe dovevano dunque trovarsi nell'area di via Orto del Re.
In una pianta parziale del borgo risalente al 1830, sono indicati in quel luogo due mulini disposti sulla direttrice di quella strada verso occidente, quello in alto di proprietà Agresti e l'altro sottostante sul lato opposto al mare di via Abate Tosti. Erano alimentati in successione da una diramazione del Gran Formale, ricalcante longitudinalmente il tratto antico dell'Appia. Sembra perciò di riconoscervi i mulini Zoppella e Pampilino, quest'ultimo, e non pare una coincidenza, in vicinanza della cappella di S. Michele Arcangelo inglobata poi dal duecentesco Castello di Mola. Riguardo ai condotti, sembrerebbe che il formale del Mulino della Palude venisse con esso dismesso, non essendovi traccia sulle mappe, deviando il canale all'origine e affiancandolo al Gran Formale per poi seguire, come detto, un tratto dell'Appia. La spiegazione di ciò starebbe nella presenza di un'altra mola che testimoni dicono situata nei giardini a oriente di via Orto del Re, lungo il rettilineo longitudinale, e chiamata Mola Stretta, dalla “Strettola” che era un viottolo pubblico munito di porta che conduceva agli orti, ai mulini e alle fonti. E probabile che la Mola Stretta fosse l'originale Mola “dellu Podio” o del Poggio, nome indicante o il salto di quota del luogo o qualche rudere dell'Appia.
Nella medesima mappa del 1830 si trovano altre due mole consecutive in via Ponte di Mola, tra l'antica Appia e la via Abate Tosti, servite direttamente dal Gran Formale: per quella a monte più grande sembra riconoscervi le mole Maggiore e Minore. Nelle testimonianze verbali la prima veniva indicata “Mola Noce”, per la presenza di un vetusto esemplare distintivo per grandezza da altri frequenti negli orti del borgo. Verso il mare, al di là della strada, vi era il luogo detto “abbascie gliu mugline”, dove era situata la mola di proprietà Rubino: era alimentata dall'acqua dello stesso formale che sottopassava la via e si accumulava in un caratteristico bacino. Essendo questa l'unica mola posta sul versante esterno della strada medievale, non sembra azzardata l'identificazione con la Mola de Fore.
Dai registri della chiesa parrocchiale dei Ss. Lorenzo e Giovanni Battista, si rilevano le rendite di alcuni mulini esistenti tra Settecento e Ottocento. Si menziona così un “montano con camera” al vicolo del Maiorino, forse il trecentesco Mulino della Camera; una “punta del vicolo di S. Caterina al Ponte”, forse la Mola de Fore; una “strettola della Madonnella ossia Molino” a Caposelice o “Vicolo della Molella” nel luogo del supposto Mulino di Follino.
Dalla individuazione più o meno certa di questi mulini è importante comunque rilevare che essi si trovavano per lo più dislocati in corrispondenza delle traverse marine dell'Appia, tanto da determinare la stessa rete dei formali. Ciò comprova l'originario sistema insediativo che si sviluppava secondo raggruppamenti isolati costituiti dai mulini con le loro pertinenze e dalle abitazioni, secondo la dinamica prevalente dell'attività che si basava sull'arrivo del frumento dalla consolare, stoccaggio e macinazione, imbarco sulla costa antistante. Il nucleo originario più importante fu certamente quello della via Maiorino che conduceva al porto, la zona degli Armeni, riferimento ad uno dei contingenti tradotti nel Meridione nell’887, quando Gaeta era nell’orbita dei Bizantini. Con l'accresciuto fabbisogno di Gaeta già dovette esservi una tendenza alla saldatura di questi gruppi edificati con collegamenti spontanei lungo la spiaggia, percorsi che diverranno sostitutivi dell'Appia per motivi strategici in occasione della costruzione da parte angioina del castello, sullo scorcio del Duecento.
Le caratteristiche dei mulini più antichi, desunte dai documenti, evidenziano una serie costante di elementi a configurazione di unità autosufficienti che, isolate in gran numero e concentrazione su questo substrato storico, hanno costituito le cellule di riaggregazione di un nuovo tessuto urbano. Il mulino sotto quello della Palude era una struttura integrata “con la casa, il cortile e gli orti davanti e di dietro, con la vigna annessa” (cum sedimen cortina et hortales suos ante et retro, cum ipsa vinea); è il già ipotizzato Mulino Zoppella che viene detto provvisto di “acque sue e di un suo canale e con il suo granaio” (cum aquis suis, et concursus aquarum suarum et cum paliaria sua). Similmente compaiono impostati il Mulino Maggiore, e quello Minore che si componeva “dei cortili, degli orti, delle parti in ferro, nonché della casa” (cum cortinas, seu hortales, et ferratura, necnon et sedimen suum).
Maggiori particolari costruttivi si colgono in un documento del 1353 riguardante “il mulino abbandonato detto la Mola di follino, nonché una casa dello stesso mulino scoperchiata e in parte diruta” (molendinum vocatum la Mola de follinu dirrutum ac domum unam ipsius molendini discopertam et partim dirutam). Questi vengono concessi in affitto per otto anni a Francesco Romano di Mola col patto che riconsegni “!il mulino finito e riparato, con la casa coperta ad embrici (cupellus seu canales) e con le porte e le serrature, nonché anche il canale di legno (canalem de ligno) dove corre l'acqua al mulino, rifatto e finito a malta di pozzolana e pietre” (calce pulvizana et lapidibus), il tutto “ad arte dei maestri fabbricatori di Gaeta”; inoltre “il mulino riparato e rifinito in tutto il necessario con le macine, la ruota e gli ingranaggi” (lapidibus molinis et fuso).
Le parti fondamentali dell'organismo meccanico, così sinteticamente delineate, sono ancora quelle ereditate dall'antichità e costituenti il mulino a macine orizzontali o a «palmenti», gradatamente soppiantate dalla metà dello scorso secolo dal sistema a cilindri metallici. Infatti le macine lapidee richiedevano frequenti e impegnative cure tanto da formare un'arte vera e propria nel mestiere del mugnaio.
I palmenti erano realizzati con pietre di particolare durezza come la quarzite e lavorati in forma di spessi dischi. Caratteristica figurativa la lavorazione delle facce di fregamento con solchi a raggiera variamente disposti, rievocativi le foglie di palma.
Il numero e la disposizione dei raggi dipendeva dalla qualità del grano da macinare: più radi per il grano duro, più fitti e profondi per il grano tenero, per permettere una maggiore circolazione dell'aria ed evitare il surriscaldamento delle farine.
Durante la macinazione le superfici pur non in stretto contatto erano soggette ad usura, tra l'altro con dispersione di sabbie nelle farine. Per questo ogni due o quattro giorni, a seconda della quantità e qualità del frumento e anche del tipo di pietra, si doveva restituire affilatezza alle raggiere con l'operazione di «aguzzatura», eseguita con martelli a punta e a taglio, che richiedeva 4-5 ore per macina. Il sollevamento e il rovesciamento della pietra superiore si effettuava per mezzo di un verricello munito di bilancia che si agganciava a due perni opposti lungo il bordo. L'aguzzatura di una sola macina, lasciando l'altra consunta, si diceva “rabbigliatura” e permetteva una macinazione più fine, si effettuava alternativamente tra la macina superiore rotante e quella inferiore fissa o” palmento dormiente”.
Proprio i palmenti sono oggi l'unica testimonianza dell'uso millenario di queste macchine che hanno dato il nome a Mola, superstiti per la loro durezza e per la loro durezza acconciati nel pavimento del vico Gualchiera a Caposelice.
La presenza dei mulini era fondamentale per le popolazioni del golfo. Dapprima avevano una importanza più strategica che economica e ponendo in maggiore rilievo il sito ove essi sorgevano, in rapporto ai rifornimenti di frumento e alla macinazione più rapida per mezzo della forza idraulica; comunque il sistema delle più antiche macine permetteva una scarsa produzione giornaliera di farina e da qui il numero considerevole di queste installazioni trasformative. A conferma della loro importanza, il fatto che la proprietà fu di iniziale esclusiva degli Ipati di Gaeta e dei loro familiari, poi degli istituti monastici, primo fra tutti il monastero di “S. Erasmo di Formia”, nonché dell'episcopio; in essi lavoravano perciò servitori, monaci o venivano concessi in fitto.
Interessante il prestito reciproco di due mulini, quelli della Palude e di Armenia, evidentemente volto a riequilibrare una disparità di redditi dei beni ereditati. È quindi sempre crescente negli atti la valenza economica di queste strutture di trasformazione nel quadro di una nuova espansione delle attività agricole e di controllo del territorio.
In questo senso risalta l'intervento di Carlo II d'Angiò in lotta con gli Aragonesi per il possesso del Meridione. Al potenziamento delle difese di Gaeta egli stimò necessario erigere a Mola un castello tale da costituire, con la deviazione dell'Appia e l'allagamento dei soprastanti pianori, un ostacolo momentaneo alla penetrazione offensiva e alla distruzione delle attività economiche. Queste ultime dovevano essere già abbastanza sviluppate e molteplici, ma è certo che l'impulso determinante fu l'immissione di popolazione provenzale, già al seguito di Carlo I, e la ristrutturazione urbanistica a vero e proprio borgo. Con il passaggio del castello in signoria alla famiglia Gaetani, nel 1460, un nuovo soggetto si affaccia nell'economia dei mulini, col diritto del castellano di esigere “un grano a tomolo” su tutti i cereali che si macinavano nella terra di Mola e sua comarca ossia “gabellam quartucio macinae spectantibus”.
Nel 1503 il monastero di S. Erasmo beneficia per i suoi mulini di una “regia esenzione delle tomola”, sia nei confronti del castellano che dei doganieri, a titolo di risarcimento dei danni di guerra: l'occupazione delle truppe di Carlo VIII e la riconquista spagnola di Gaeta dello stesso anno.
Riconosciuta anche dal nuovo governo la preminenza economica e strategica di Mola, il borgo avrà installate due nuove porte, una verso l'ansa dell'antico porto detta porta della Spiaggia poi dell'Orologio, l'altra a levante unita al castello detta porta del Ponte o degli Spagnuoli; per la funzione daziaria di quest'ultima Mola divenne una sosta forzata del Grand Tour, decantata e ritratta per amenità, ma disprezzata dai malcapitati viaggiatori vittime dei soprusi dei doganieri.
Le notizie sulla produzione dei macinati sono scarse e genericamente limitate alle granaglie. Si può supporre che oltre alle varie qualità di frumento vi fossero il farro, l'orzo, la segale; più tardi il mais: localmente era anche impiegato nel confezionamento di economici e compatti panini con olio di oliva detti “pène de ràurine”, dal color rame dell'ingrediente. Risalta invece una curiosa informazione tratta dalla già citata mappa del 1830, in cui appare un “Molino a Mirti” posto sotto quello Nucci in via Ponte di Mola. L'indicazione trova riscontro nei registri della chiesa parrocchiale dei Ss. Lorenzo e Giovanni Battista, dove nel 1795 si menziona la “Corba della Mirtella” esplicata come “diritto della chiesa di esigere una misura della mirtella macinata”: la macinazione delle bacche di mirto o “mortella”, la cui salsa trovava impiego nel trattamento delle carni, ma che in questo caso doveva riguardare l'estrazione di un olio profumato destinato ad uso liturgico; si trattava evidentemente di un mulino trasformato al nuovo e specifico impiego.
Nelle immagini: Veduta di Mola e della rada di Gaeta in cui è pienamente colta la floridezza delle attività produttive e commerciali nello scambio tra la via Appia e il mare (dipinto di Filippo Hackert, 1790, Reggia di Caserta); il Castello di Mola sulla variante medievale della via Appia (dis. P. Mattej, 1840 ca.): si evidenzia l’imbarco di sacchi di farina dai mulini dell’Orto del Re.
(continua)
mercoledì 15 dicembre 2021
LE MOLE DI FORMIA: PERMANENZA E RINASCITA DI UNA CITTA’
"Lunario Romano 1995", Mestieri nel Lazio, Roma 1995, pp. 177-194.
di Salvatore Ciccone
“Volo liberum esse petrulum a mola” (Voglio che sia libero Petrulo [uno schiavo] a Mola), con questa disposizione del testamento dell'ipata di Gaeta Docibile dell'anno 906, pubblicata nel Codex Diplomaticus Cajetanus (di seguito C.D.C.), compare la prima menzione del borgo di Mola, oggi quartiere di Formia.
Il nome del sito rivela la presenza di un'attività molitoria, determinata dalla presenza di copiose sorgenti in un’esile striscia di terra tra il mare e le estreme pendici dei Monti Aurunci. L'acqua si incanalava in numerosi «formali», correndo cristallina e rapida tra gli orti di agrumi, le vie e le case per unirsi al mare, specchio di un cielo splendente per i quali Simmaco scrisse di Formia tanta “coeli salubritate, et aquarum frigore” (Epistolarum, 8, 23).
La particolarità motiva il nome stesso di Formia che Strabone (Geographia, 5, 233) dice derivare dal greco hormiai, approdi, se si pensa che proprio in quest'ansa di mare più protetta e così proliferante di sorgenti i Romani vi edificarono il porto.
La genesi di Formia da una colonizzazione sparsa di pagi fortificati, solo nel V-IV secolo passa ad un insediamento cinto da poderose mura megalitiche a controllo del valico costiero, i “formiana saxa” (Livio, Ab Urbe condita libri, anno 215): per la morfologia del luogo si sviluppava in linea al mare per circa un chilometro dalla rocca al porto verso est, la zona che sarà Mola.
La principale arteria, un'importante via di transumanza, passava immediatamente a monte delle fortificazioni, fin quando il tracciato della via Appia diede una nuova impostazione alla città, attraversandola a formare il decumano massimo. Questo terminava in prossimità del porto per poi aggirarlo, dove nel Medioevo si diceva “Capite silicis” (C.D.C. n.430, anno 1306); la via pedemontana tuttavia sopravvisse, testimoniata nello stesso periodo come “Massarina”.
Nell'area del porto sono documentati i balnea riforniti da un acquedotto su archi, un edificio peninsulare sotto il Castello di Mola di probabile destinazione cultuale e tra i reperti una dedica sacra a Fontano (Corp.Inscr.Lat., X, 6100), dio delle fonti, che evidenzia la peculiarità e l'importanza delle scaturigini in questo contesto infrastrutturale.
Appare verosimile come già in quell'epoca la forza motrice sviluppata dall'acqua fosse utilizzata per azionare mole per cereali, innovazione introdotta verso il 170 a.C. e di cui Vitruvio (X, 5) ne descrive sommariamente il funzionamento: derivando il movimento dalla ruota idraulica: «i mulini ad acqua (hydraletae) (...) tengono attaccata all'estremità dell'asse una ruota dentata (tympanum dentatum) che posta verticalmente gira insieme all'asse: una seconda ruota dentata più grande si pone accanto orizzontalmente con il suo asse, sull'estremo del quale vi è il sostegno di ferro (subscudem ferream) che ne regge la macina (mola). Così (...) fanno girare la macina, sopra la quale stando appesa la tramoggia (infundibulum) somministra alle macine il frumento, ricavandone la farina».
Le testimonianze archeologiche forniscono complessi esempi di mulini, come quello di Arles a otto ruote idrauliche, di cui è significativa l'utilizzazione consecutiva dell'acqua per una fullonica o lavanderia.
Con i noti eventi della decadenza, il tessuto urbano di Formia venne rarefacendosi, rimanendo tuttavia focalizzato nei due principali poli della rocca e del quartiere portuale mentre si accresceva il castrum sorto sull'antistante promontorio a presidio del porto naturale di Cajeta. È qui che non ultime le vicende legate all'occupazione saracena dall'846 al 915, le principali rappresentanze del potere si trasferiranno a determinarne la nuova Civitas, che fortemente eccentrica rispetto al territorio produttivo avrà come principale base logistica il quartiere delle mole determinandone l'impulso. Nei diplomi medioevali che vanno dal X al XIV secolo nel C.D.C. sono nominate a Mola ben 12 aquismolae e individuate nella integrata mappa corografica: “de pampilini” (906-1008); “maiore” (933-1386); “minore” (933-1010); “de palude” (934-1024); "de Armenie” (937-1079); “Sancti Georgi” (954-1055); “de flumicello frigidi” (1002); “de tauro” (1024); “Zoppella” (1056-1386); “de follinu” (1353); “dellu Poggio”, “de fore, della Camera” (1386).
Esclusi i mulini coevi e quelli nominati insieme quali di Armenia e della Palude, del Toro e della Palude, Maggiore e Minore, Zoppella e Maggiore, S. Giorgio e Maggiore, del Fiumicello e Maggiore, è probabile che alcuni di essi cambiassero nome, come sicuramente dimostrabile per i secoli più recenti; che venissero abbandonati, rimpiazzati o che assumessero più tardi alcuni dei nomi suddetti, come quello posto sotto il mulino della Palude, poi Zoppella, o i “molendini novi iuxta portum ipsius loci molarum” del 1305, forse poi indicati in quelli “della Camera”, “de Fore” e “del Poggio”.
Sta di fatto che in un documento governativo del primo Ottocento pubblicato da A. Di Biasio, riguardante il Comune di Mola e Castellone di Gaeta" oggi Formia, si dice espressamente che superato il ponte sul fosso (del Rio Fresco già Flumicello Frigido) sul cammino da Napoli a Roma, «a destra delle prime abitazioni — perciò a monte della via — esistono dieci mulini a granaglia, animati dal perenne e copioso sgorgo delle acque dei suoi monti».
Rimane quindi comprovata la quantità dei mulini dedotti dalle antiche pergamene, dovendo anche considerare che per mulino si indicavano i frantoi o «montani», le cui molazze erano mosse ugualmente da ruote idrauliche.
Il numero elevato di queste mole spiega da sé il nome dato al luogo, ancor più per il peso che avevano per la vita delle popolazioni di questo territorio. Questa attività prevalente non poteva che innescare un sistema più ampio ed articolato, sviluppando un nuovo e specifico tessuto urbano e gettando le basi di una futura rinascita “politica”.
La lettura dei documenti va ben oltre la semplice citazione, offrendo una interrelazione di notizie che vanno dalla topografia dei luoghi, alle caratteristiche costruttive dei mulini e al loro impiego, ai proprietari e locatari, alle spettanze dei redditi, alle disposizioni sulle trasmissioni dei diritti, a scambi periodici, permute, vendite, riparazioni.
Primariamente necessaria è la restituzione topografica delle varie fasi dell'insediamento per comprendere in che modo e in quale misura lo sviluppo di questa attività ha esercitato sull'evoluzione del borgo.
Per l'ubicazione dei mulini è essenziale sapere che la strada fondamentale del borgo, via Abate Tosti, in tempi più recenti creduta e indicata come via Appia, in realtà è un percorso sostitutivo del basso Medioevo sulla medesima direttrice della consolare situata sul pianoro soprastante un centinaio di metri. In origine il borgo si strutturava sulle diramazioni a pettine che dall'Appia conducevano al mare, di cui quella per il porto era costituita dalle vie Maiorino-Provenzali; poi di seguito verso oriente via S. Lorenzo o «Portone Vecchio», via Orto del Re, via Ponte di Mola. L'ambito delle mole è strettamente dipendente dalle tre scaturigini, più o meno a 200 metri dal mare e nello spazio di circa 600 metri, di cui una è a Caposelice-Conca e le altre due vicino al capo orientale in prossimità del Rio Fresco-Ponte di Mola.
Queste sorgenti asservite alla rete idrica cittadina e i formali, già in parte tombinati durante gli interventi urbanistici degli anni Trenta, sono oggi praticamente scomparsi. È possibile ora ricostruirne i percorsi per mezzo delle mappe che vanno dalla prima metà dell'Ottocento agli anni Cinquanta, individuando i siti e talvolta gli edifici stessi dei mulini.
Delle mole, solo una sfruttava le acque del «Fiumicello Freddo», collocata su un'isola del medesimo, alle spalle dell'antico ponte dell'Appia: aveva un proprio canale di derivazione con chiusa e in pertinenza altre due isolette di cui una nella foce. Tutti gli altri mulini erano disposti lungo la rete dei formali, sfruttando i salti di quota per aumentare la velocità dell'acqua e regolati da chiuse dalla presa ai collettori e alle diramazioni.
Vicina al fiumicello, la sorgente più abbondante alimentava dapprima il Mulino di S. Giorgio, eponimo della fonte, versando l'acqua nel “Gran Formale” che scendeva diritto al mare sottopassando un ponticello, verosimilmente della via Appia, sotto il quale stavano in stretta successione la Mola Maggiore e la Mola Minore.
Il formale dell'altra sorgente, poco ad occidente della prima, tagliava trasversalmente diretto all'ansa del porto al “Mulino di Armenia”, seguendo in parte lo speco dell'acquedotto romano, oltre gli archi del quale vi era una diramazione verso il “Portone Vecchio” per un mulino posto sotto l'Appia, quello del Toro. Dalla medesima sorgente è probabile che provenisse l'altro formale del Mulino della Palude, ubicato sul pianoro acquitrinoso in sommità di via Orto del Re.
Sul versante opposto dell'insenatura portuale, a Caposelice, correva l'acqua dell'altro formale che sottopassava la via Appia, attuale via della Conca, e azionava il Mulino di Follino, così chiamato forse perché in combinazione con una fullonica; da questa attività ne deriverebbe il nome attuale di vico Gualchiera.
I restanti cinque mulini di epoca medievale, per l'assenza a diretti e noti riferimenti topografici, non sono individuabili che in via mediata attraverso testimonianze di varia natura, restando perciò elevato il grado di incertezza.
Nell’immagine: Mappa corografica del Borgo di Mola tra X e XVIII secolo (S. Ciccone 1995) in nero pieno le sorgenti, i corsi d’acqua e il battente marino; in tratteggio i percorsi dismessi: A, Porta della Spiaggia; B, Castello di Mola e Porta del Ponte o degli Spagnoli; C, acquedotto romano. Mulini:1, di Follino; 2, di Armenia; 3, del Toro (Portone Vecchio); 4, 5, 6, Zoppella, di Pampilino, della Stretta (Orto del Re – Strettola); 7, della Palude; 8, S. Giorgio; 9, 10, Maggiore e Minore; 11, de Fore; 12, del Fiumicello. Nella vignetta, scorcio ridisegnato del Gran Formale con strutture pertinenti un mulino (da P. Mattej, 1840 ca.).
mercoledì 8 dicembre 2021
BREVE STORIA DELLA BIBLIOTECA COMUNALE DI FORMIA
Le origini della biblioteca comunale risalgono al 28 agosto 1920, quando un'Associazione Culturale formata da giovani studenti si prese l'incombenza di voler diffondere la cultura. Nel breve volgere di pochi anni riuscirono a raccogliere circa 10.000 volumi, riviste ed altro materiale. La biblioteca all'origine era denominata "Biblioteca Circolante Vitruvio Pollione" ed i libri erano custoditi in una casa privata. Tra i molti giovani che portavano avanti l'illustre iniziativa si ricordano i nomi dei fratelli Testa Tommaso, Pasquale e Filippo, i fratelli Rolando e Mario Di Fava, Placido Di Russo e Mario Franzini. Nel 1929 la biblioteca divenne comunale con sede nei locali al piano strada del palazzo comunale, dove oggi insiste il Museo Archeologico. Fu intitolata a Filippo Testa, uno dei fondatori, ufficiale nel primo conflitto mondiale, scomparso prematuramente nel 20.1 1926.
Quando l'Amministrazione comunale acquisì la Biblioteca, aveva già raccolto circa 18.000 volumi. La direzione venne affidata a Placido Di Russo che ne curò la custodia fino allo scoppio del secondo conflitto mondiale. La guerra e gli "sciacalli intellettuali", ridussero il patrimonio bibliotecario a non più di 7.000 volumi. Collocati nel secondo piano del palazzo comunale, furono inventariati e custoditi dal prof. Ciro Allegro. Alla fine degli anni Sessanta, con la sede definitiva e la cura di valenti Responsabili, il patrimonio librario è arrivato a circa 40.000 volumi. La Biblioteca oggi è un vanto per la nostra città ed i suoi locali sono sempre affollati da studenti e lettori di ogni età.
Nelle foto la prima sede della Biblioteca, il tenente Filippo Testa a cui è stata dedicata la Biblioteca e il fratello Tommaso che ne fu uno dei direttori.
martedì 30 novembre 2021
BREVE STORIA DELLA STAZIONE FERROVIARIA DI FORMIA
Quando il 3 maggio 1892 entrò in funzione la Stazione Ferroviaria di Formia, sulla linea Gaeta-Formia-Sparanise, nessuno avrebbe mai immaginato quale importante futuro era destinato a questo piccolo scalo ferroviario con solo due binari.
Il 16 luglio 1922, veniva inaugurato il primo tronco ferroviario da Roma a Formia sulla “Direttissima Roma-Napoli”, e la rinnovata Stazione Ferroviaria di Formia divenne una delle più importanti opere portate a termine tra il Lazio e la Campania. Da tempo si parlava di una nuova linea ferroviaria che collegasse Roma a Napoli in breve tempo, in alternativa alla lenta Roma-Segni-Cassino-Napoli, già in funzione dal 1863 e che aveva interessato tre differenti amministrazioni statali: la Monarchia Borbonica, il neonato Regno d’Italia e lo Stato Pontificio. Il primo progetto della Direttissima porta la data dell’anno 1871, ma soltanto nel 1907, con apposita legge sulla progettazione di nuove ferrovie, fu affidata all’Amministrazione delle Ferrovie dello Stato la costruzione della Direttissima. La nuova linea, per la quasi totalità prettamente in rettifilo, con pochissime curve d’ampio raggio, pendenze insignificanti, assenza di passaggi a livello e soprattutto a trazione elettrica, consentiva una maggiore velocità di quella a vapore e avrebbe ridotto di circa un’ora e mezza il viaggio tra Roma e Napoli, portandolo a tre ore, in luogo delle quattro e mezzo della linea Roma-Segni-Cassino-Napoli. I lavori della costruzione della nuova linea iniziarono nel 1907; nel tratto che da Formia conduce al fiume Amaseno, furono comprese le due gallerie più lunghe di tutta la linea, quella di Priverno-Fossanova e quella di Fondi-Sperlonga, di circa 7 km. cadauna. I lavori di traforo delle gallerie durarono 5 anni e furono completati nel 1912, quando il resto della ferrovia era ancora all’inizio.
Allo scoppio della prima guerra mondiale i lavori vennero sospesi e ripresero proseguendo a rilento nel 1920. Con l’insediamento del governo fascista venne dato una forte impulso ai lavori che proseguirono con celerità, tanto da ultimare il primo tratto fino a Formia già nel 1923 e concludersi, come preventivamente determinato, nel 1927.
L’inaugurazione della stazione di Formia, avvenne il 16 luglio del 1922, alla presenza del re Vittorio Emanuele III, con una fastosa cerimonia presenziata da autorità civili e militari locali e nazionali.
Fino al completamento della Direttissima avvenuta nel mese di ottobre del 1927, i treni provenienti da Roma, a Formia venivano istradati sul vecchio tratto della linea Gaeta-Sparanise fino a Caserta, per poi raggiungere Napoli sul vecchio tronco ferroviario. L’interessante denominazione Direttissima pare sia opera di un deputato napoletano che, affine ad usare i superlativi, la chiamò così nei suoi interventi di preparazione alla legge ferroviaria, e tanto piacque che ne divenne il toponimo indiscusso. Gli eventi bellici dell’ultimo conflitto mondiale non risparmiarono la stazione ferroviaria di Formia che venne quasi totalmente distrutta, rimanendo inattiva fino al mese di luglio del 1949, quando i lavori di ricostruzione riconsegnarono una nuova stazione più moderna, senza le pensiline di metallo in stile Liberty e con il numero dei binari portato a cinque, tutti a servizio dei passeggeri.
Nel 1926, la Stazione di Formia partecipò al "Concorso Abbellimento Stazioni", ricevendo un'ambita medaglia di vermeil.
Nelle immagini il frontespizio e uno stralcio su Formia della corografia del progetto originale, il giorno dell'inaugurazione avvenuta il 16 luglio 1922 alla presenza del re Vittorio Emanuele III e il riconoscimento del concorso ricevuto nel 1926.
mercoledì 24 novembre 2021
IL PRINCIPE ANTONIO DE CURTIS IN ARTE TOTO’ A FORMIA NEL 1937
Che il principe Antonio de Curtis, in arte Totò, avesse frequentato Formia negli anni Cinquanta durante le riprese del film “Totò terzo uomo” è un’informazione conosciuta, ma che la frequentasse anche negli anni Trenta prima del secondo conflitto mondiale e probabilmente una notizia poco conosciuta.
Durante le riprese del suo primo film in assoluto “Fermo con le mani”, diretto da Gero Zambuto nel Centro Safa Palatino di Roma, nel 1937, amava fermasi a Formia dove probabilmente già conosceva il produttore e regista teatrale Remigio Paone.
Il ritrovamento di una cartolina illustrata di Formia, scritta da Totò ad un amico di Roma e datata 1.4.1037 ne è la conferma.
Per la cronaca del tempo, lo scrittore e giornalista Marco Ramperti, sulla rivista settimanale L’Illustrazione Italiana così scriveva:
«Non mancate a Fermo con le mani, dove riappare Erszi Paal e dove si rivela Totò. Pare a me che la ballerina di Budapest non manchi, oltre che di vaghezza e di estro, di fotogenia: ma, soprattutto, subisce l'attrazione di Totò nella magrezza fantomatica e nella snodatura marionettistica di certi suoi passi di danza, dove il pallore e l'automatismo concorrono, insieme con la bravura, a una specie di pauroso incantamento, di allucinazione irresistibile».
Nelle immagini alcuni fotogrammi di Totò nel porto Caposele tratti del film “Totò terzo uomo” e la cartolina, facente parte della mia collezione, spedita da Formia nel 1937.
mercoledì 17 novembre 2021
LE DONNE DI MOLA E CASTELLONE QUANDO NON C'ERA IL COPYRIGHT
In un articolo pubblicato il 26 ottobre 1839 sul "Poliorama Pittoresco", uno dei più vivaci periodici napoletani della metà del XIX secolo, Pasquale Mattej scriveva: "Fogge di vestire e acconciature del capo delle donne di Castellone e Mola di Gaeta", articolo corredandolo da una splendida litografia che raffigurava alcune donne intente ad acconciarsi i capelli.
A quell’epoca non c'era il copyright, che soltanto nel giugno 1865 il Regno d’Italia, cominciò a regolare i diritti d’autore con Legge n. 2337.
L’articolo del Mattej, ben scritto e illustrato finemente, ha sicuramente riscosso un grande successo all’epoca. Il “Cosmorama Pittorico”, giornale illustrato, edito a Milano e fondato da Luigi Sacchi nel 1842, pubblicava un sunto dell’articolo del Mattej corredandolo con una incisione xilografica tratta da un disegno realizzato da Fiorentini e che inequivocabilmente era una copia dell'opera del Mattej.
Lo stesso articolo e immagine, sempre nel 1842, valicò le Alpi e, e arrivò a“Le Magasin Pittoresque”, edito a Parigi da M. Edouard Charton, che pubblicava un sunto in lingua francese, corredandolo con una xilografia firmata K. Girardet.
Un'ultima edizione sempre dello stesso articolo con altra xilografia, questa volta anonima, venne pubblicata nel 1866 nel giornale settimanale edito a Milano : "L'Emporio Pittoresco".
Le tre immagini, successive a quella del Mattej, sono senza dubbio di minor valore artistico, trattandosi anche di xilografie, incisioni provenienti da matrice lignea.
Nelle immagini la litografia del Poliorama Pittoresco realizzata da Pasquale Mattej e le xilografie del Cosmorama Pittorico, del Magasin Pittoresque e dell'Emporio Pittoresco.
lunedì 15 novembre 2021
ANTONIO SICUREZZA ARTISTA POLIEDRICO
Antonio Sicurezza nato a Santa Maria Capua Vetere nel 1905, si trasferì a Formia in epoca prebellica dove ha insegnato materie artistiche in varie scuole ed esercitato la sua arte per quasi mezzo secolo.
In questi ultimi anni sono stati pubblicati numerosi libri che hanno evidenziato la sua arte nelle varie sfaccettature, ma nessuno di questi volumi ha descritto il suo talento come illustratore di cartoline.
Per colmare questa lacuna, vi propongo due rarissime cartoline illustrate da Antonio Sicurezza negli anni Trenta: la prima realizzata nel 1938 per conto della Colonia Estiva "Emilio Tonioli" di Formia e la seconda nel 1935 in occasione della "II Festa dell'Arancio".
lunedì 8 novembre 2021
IL TIRO A VOLO A FORMIA
Negli anni Trenta si svolgevano a Formia delle gare nazionali di Tiro a Volo.
Quelle di Formia erano delle manifestazioni di altissimo livello, e si svolgevano di domenica nel mese di agosto.
La “Perla del Tirreno” sapeva organizzare, curate dal Podestà dell'epoca Felice Tonetti, manifestazioni di grande successo di pubblico. Le gare erano patrocinate dalla F.I.T.A.V. (Federazione Italiana di Tiro a Volo).
Il campo di tiro era improvvisato nello specchio di mare di fronte alla Villa comunale, con una pedana rettilinea lunga circa 20 metri improvvisata sopra i resti delle piscine romana.
Nella foto la manifestazione svolta nel 1932.
mercoledì 3 novembre 2021
IL SEPOLCRO DI MARCO VITRUVIO A FORMIA
di Salvatore Ciccone
Nello studio dei cosiddetti Ninfei di Villa Caposele si è risaliti al loro criterio modulare strettamente correlato ai concetti della “symmetria” esposti da Vitruvio nel “De Architectura”, fino ad identificare di questi lo schema di riferimento nelle proporzioni dell’uomo nel cerchio e nel quadrato (vedi : https://www.facebook.com/ComeEriBellaFormia/posts/4598820153514868 e https://www.facebook.com/ComeEriBellaFormia/posts/4623912414338975 ) Le stringenti corrispondenze e l’età dei “ninfei” si possono ricondurre allo stesso Vitruvio, che è più probabilmente ritenuto originario di Formia anche per le numerose epigrafi e in particolare quella funeraria di un Marco Vitruvio: più volte menzionata dagli studiosi del passato, si trova riutilizzata nelle spalle del cinquecentesco ponte di Rialto, all’ingresso occidentale della città.
Queste indicazioni trovano convergenza nel 1997, dalla fortuita scoperta di un’area sepolcrale nella creazione di un passaggio attraverso un vecchio muro di contenimento sul tratto della via Appia (oggi via G. Paone) in località S. Remigio (km 140,500), in un contesto ricco e documentato di cui restano eminenti la Fontana Romana e un sepolcro a torretta ottagonale.
L’elemento resosi evidente nella sezione del dislivello, consisteva nel grosso nucleo cementizio di un monumento a pianta quadrangolare in origine rivestito in “opus quadratum” di pietra calcarea, recinto sul lato di campagna con un muro in “opus reticulatum”, similmente replicato sul lato occidentale per distinguere un altro ambito funerario: da questi muri derivava l’iniziale datazione alla prima età augustea.
Alla residuale scarsa consistenza architettonica, gli ambiti recintati, già in origine all’aperto, hanno invece restituito diverse olle cinerarie protette dal terreno con pance d’anfora capovolte, i cui puntali fungevano da segnacolo; dall’area relativa il monumento, in una seconda fase di scavo affioravano anche le inumazioni sovrapposte di un uomo, di una donna e di due bambini.
Rimandando allo specifico resoconto archeologico in bibliografia, i contenitori delle ceneri e gli elementi di corredo, balsamari, lucerne ecc., vanno dalla fine del I secolo a.C. al II d.C., congruenti a pezzi monetali, gli “oboli di Caronte”, di età giulio-claudia, flavia e di Adriano; reperti depositati ma non ancora esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Formia.
Grazie alla documentazione prodotta a metà Ottocento da Pasquale Mattej, ho potuto identificare nel monumento il sito di provenienza di alcune epigrafi relative la “gens Vitruvia”.
Un suo disegno ritrae il medesimo tratto viario presso un casolare, dove ora l’edificio si presenta nell’ampliamento degli anni 1920 (fig. 1). Vi evidenzia i resti di due monumenti funerari contigui, uno in “opus quadratum” ed uno in reticolato con cantoni a blocchetti di calcare e laterizio; di questo andato distrutto nell’apertura del passaggio, Mattej in altri appunti specifica l’incasso di una epigrafe e che dice essere stata quella rimossa alla fine del Settecento da Carlo Ligny principe di Caposele per collocarla nella sua collezione nella Villa sul litorale di Castellone, così riportata da Mommsen nel “Corpus Inscriptionum Latinarum” (X, 6143): Q . CISVITIVS . Q . L ./ PHILOMVSVS . MAIOR / Q . CISVITIVS . Q . L ./ PHILOMVSVS . MIN / M . VITRVVIVS . M . L / DEMETRIVS . ET / VITRVVIA . CHRESTE / M . VITRVVIVS . M . L / ARTEMA).
L’epigrafe menzionante alcuni liberti delle “gentes” Vitruvia e Cisuizia si trova inizialmente citata in una imperfetta trascrizione di Leandro Alberti nella sua “Descrittione di tutta Italia” edita a Bologna nel 1550: “Et prima si vede una tavola di marmo posta nelle mura di un nuovo edificio [il casolare ritratto dal Mattej], lunga piedi sei, e larga uno e mezo in due parti spezzata, in cui sono scritte queste parole. EX TESTAMENTO. M. Vitruvii Menpiliae hoc Monumentum. Her. E. N. M. Poi in un’altra tavola di quattro piedi per lato [quella già riprodotta]. Q. Cisuitius. Q. L. Philomusus an. Mor. Cisuitius. Q. L. Philomusus. M. N. M. Vitruvius. M. L. De. Vitruvius e Vitruviis Chreste. M. Vitruvius. S. M. L. Fratrem.”.
Dunque quella epigrafe si trovava accostata ad un’altra pure relativa la “gens Vitruvia”, quella appunto tra i blocchi reimpiegati per le spalle del ponte dell’Appia sul fossato di Rialto, 600 metri oltre verso Formia, costruito nel 1568 dal viceré di Napoli Don Perafan de Ribera, perciò dopo l’annotazione dell’Alberti ed evidentemente tratta da quel sepolcro in opera quadrata raffigurato da Mattej.
Così è nella trascrizione di Mommsen, con le parti visibili in grassetto (CIL X, 6190):
A) “M . VITRVVIVS (…)”, verificabile nella spalla sinistra e consiste nelle sole tre lettere RVV, alte cm. 24, con incisione accurata a sezione triangolare nel tipo della ‘capitale’ repubblicana con apicature di età augustea, distribuite nella metà superiore di un blocco di calcare locale alto cm 59,5 e lungo cm 63 (fig. 2);
B) “EX . TESTAMENTO arbitratu / M . VITRVVI . M . L . APELLAE . ET (…) / HOC . MONVMENTVM. HEREDEM non sequitur”, a lettere più piccole e posta di fronte, come annotato, ma risulta coperta da una moderna briglia cementizia.
Il testo concerne in sostanza il sepolcro di un Marco Vitruvio “dominus” erettogli da un suo liberto ed un altro personaggio, come nella traduzione in parte lacunosa: “Marco Vitruvio (…) / per volontà testamentaria / M. Vitruvio Apella liberto di Marco [e …] / questo monumento non seguito da eredi [fece]”.
L’epigrafe ha sempre suscitato l’attenzione degli studiosi per il l’omonimia del Marco Vitruvio con l’autore del “De Architettura”, ritenuto nativo di Formia per altre iscrizioni della “gens” ed anche per quel Marco Vitruvio Vacco di Fondi a capo della rivolta contro Roma nel 330 a.C.
Il sepolcro rimasto sempre relegato alla tradizione letteraria e l’epigrafe con proprio valore documentale, si identificavano ora con il monumento riaffiorato, in cui l’esclusione ad eredi del “sepulcrum” non impediva la deposizione delle spoglie di liberti all’intorno in riverente protezione dell’illustre “patronus”.
Alle acquisizioni archeologiche e all’identificazione topografica dei reperti epigrafici, ciò che resta del monumento solo apparentemente sembra non offrire appigli alla restituzione della sua forma. In realtà l’analisi costruttiva, metrologica e tipologica rendono fattibile un’ipotesi della sua architettura.
Il nucleo in “opus caementicium” di pietre calcaree si presenta a strati alti m 0,60 (2 piedi romani; 1 piede = m 0,2957), indicando la pari altezza degli elementi del rivestimento lapideo all’interno del quale si eseguivano i progressivi getti cementizi; i piani di ripresa, per assicurare coesione, sono cosparsi di scaglie minute derivate dalla lavorazione dei blocchi: queste indicazioni sono congruenti ai reperti documentati sotto il ponte.
Nella pianta lievemente sghemba, la forma del nucleo è composta di due parti sovrapposte con unico piano frontale (figg. 3, 4): quella inferiore come podio è rispetto alla via con il lato maggiore di circa m 5,50, verso l’interno m 5,30 e da alta mediamente circa m 2,15; quella superiore di m 3,90x3,50 è alta appena m. 0,60 con i due lati ortogonali alla via rientranti dal podio mediamente ad est di m 0,85 e ad ovest di m 0,75. Sul piano di queste rientranze e sui salienti del rialzo, rimangono sul conglomerato le impronte lasciate dalla parte sbozzata degli elementi lapidei, per il cui spoglio venne demolito parte del soprastante recinto reticolato. Pertanto il piano del podio era rivestito a pareggiare il rialzo con blocchi larghi circa m 0,60 posti trasversalmente, ma sul lato est alcuni vennero posizionati in senso longitudinale, penetrando il rialzo come a formare l’invito di una porta, proprio nella parte più ampia. Nella parte posteriore del medesimo rilevato resta l’impronta di un altro filare di elementi di minori dimensioni pure a pareggiare la sua sommità, mentre il resto a tergo compreso nel recinto è di solo terreno.
Queste particolarità e l’assenza di un elevato nucleo cementizio induce a ritenere la parte emergente e significativa del sepolcro realizzata in soli blocchi a comprendere una cella, come nel ricorrente modello dell’altare a fregio dorico, di contenute dimensioni e decisa caratterizzazione, introdotto dalla fine del II secolo a.C. Un pezzo di fregio dorico si trova riutilizzato capovolto nel ponte di Rialto (fig. 5) e presenta la consueta versione con triglifi in partiture orizzontali a incorniciare su un unico piano la metopa: questa reca un fiore, sulle diagonali con quattro foglie dagli apici ritorti al centro delle quali risalta un tortiglione che richiama il bocciolo delle viole, specifiche con le rose al culto funerario.
La forma in pianta della struttura comprensiva del recinto, considerando lo spessore dei blocchi mancanti sul fronte strada di due piedi, risulta un quadrato con lato di m 5,90 cioè 20 piedi, come le dimensioni di un’area sepolcrale scritte su un frammento di stele a sommità semicircolare murato sotto la vicina torretta ottagonale (CIL X, 6216) e forse appartenuta a quell’area.
Questa misura appare sostanziare la “symmetria” del monumento, tramite lo schema del teorema di Platone, con quadrati concentrici normali e ruotati a 45 gradi, verificato nella sala tetrastila in Villa Caposele, qui alternando cerchi tangenti ai quadrati vigendo tra essi il medesimo rapporto √2.
Considerando dunque il quadrato di 20 piedi del limite sepolcrale e il trascurabile scarto tra lo schema geometrico e le misure in piedi, il secondo quadrato immediatamente inferiore risulta di 14 piedi pari a m 4,14 rispondente alla parte rialzata sul podio reintegrata degli elementi lapidei a costituire lo zoccolo dell’altare (fig. 6, sotto dx); di questo pure lo spostamento funzionale verso il filo stradale e verso occidente è fatto in coincidenza delle linee del sistema geometrico (fig. 6, sotto sx). Il sovrapposto dado che realizzava il vano sepolcrale risulta essere stato all’esterno di 12 piedi (m 3,55) e all’interno di 8 (m 2,37).
Le altezze del monumento dovevano pure conformarsi al criterio e considerando che quella del podio doveva dipendere dal piano più antico dell’Appia, sottoposto al rifacimento pavimentale di Caracalla in basoli vulcanici (216 d.C.), essa risulta di 10 piedi (m 2,97), metà di quella fondamentale. Per quella complessiva, nella scala di rapporto è apparsa congrua la misura del quadrato di 28 piedi cioè m 8,28 immediatamente superiore a quello fondamentale, dei quali sono dell’altare 18 piedi oltre il podio, pari ad 1,5 volte il lato del dado (fig. 6, sopra).
Da ciò si può ricavare il modulo che deve necessariamente essere il divisore comune di 14-20-28, quindi di 2 piedi, dunque un modulo ‘bipedale’ confermato dalle dimensioni degli elementi lapidei, per il quale si giunge alla ripartizione in verticale di 5 moduli per il podio, 2 per lo zoccolo, 5 per il dado e ancora due per il coronamento. In tale suddivisione nella cella, la sezione semicircolare della volta certamente a padiglione, si trova sovrapposta ad un quadrato e perciò complessivamente di 12 piedi, 1,5 volte il lato interno e pari al lato esterno del dado.
La collocazione del fregio aggiunge nuove considerazioni (fig. 5). La metopa è larga cm 33, esattamente 18 dita, 1 dito = cm 1,85), il triglifo ricostituito di 15 dita, cm 28 perciò sulla larghezza del dado di 12 piedi si possono comprendere 6 triglifi e 5 metope: le cinque metope ammontano a 90 dita ed altrettante ne sommano i sei triglifi con una lunghezza complessiva di m 3,33 rivelando una intenzionale proporzione in difetto per permettere una rastremazione del dado: considerando il risalto dell’ornato di un dito, ammonta esattamente a 7 dita (cm 13) in meno per lato.
I numeri impiegati ricorrono in diverse scale di misura in corrispondenze ‘simmetriche’ come osservato nei cosiddetti Ninfei in Villa Caposele: 18 dita della metopa, decuplicata in 180 dita dell’intero fregio, con i 18 piedi di altezza dell’altare; la quota totale di rastremazione di 14 dita del dado con il lato dello zoccolo di 14 piedi. Inoltre si è già ravvisata una reiterazione di misure dall’orizzontale alla verticale, come i 14 piedi di base dell’altare con i 14 moduli dell’intera altezza del monumento, oppure l’ampiezza del dado di 12 piedi riportata sull’altezza della cella.
Nel modello restituito trovano pure congrua collocazione gli elementi iscritti. Indicativa è la parte “M.VITRVVIVS” che con un pur breve “cognomen” doveva essere lunga intorno a m 3, la cui posizione alta delle lettere nel blocco deve giustificarsi dall’impedimento visuale come una fascia di risalto del podio. In base ai vari esempi, come il coevo sepolcro di Eurisace o quello antecedente di Bibulo a Roma, il nome si colloca bene al centro dello zoccolo dell’altare, mentre la disposizione testamentaria è adeguata su detta fascia; anche la stele con le dimensioni dell’area sepolcrale si presta a concludere il recinto sul fronte stradale. Lo scomparso epigrafista Lidio Gasperini, mentre approva la ricostruzione del monumento, preferisce la soluzione dell’epigrafe titolare posta sul dado sotto il fregio e quella testamentaria sul limite inferiore del medesimo.
L’individuazione del criterio di “symmetria” anche se di estrema applicazione teorica, ha consentito in un ipotetico modello restitutivo del monumento di spiegare le peculiarità della struttura di scavo, di verificare l’attinenza degli elementi epigrafici e di quello ornamentale.
Resta aperto il problema dell’identità di questo Marco Vitruvio, già ritenuto possibile quello autore del “De Architectura” ed ora più probabile in concordanza alle indicazioni provenienti dal sepolcro, fatto questo di eccezionale significato tuttavia ancora misconosciuto insieme al misero resto e come il Ponte di Rialto con i suoi frammenti epigrafici, da nascondere piuttosto che riconoscervi un privilegio.
Bibliografia
Michela Nocita, La Gens Vitruvia e Formia: testimonianze epigrafiche e letterarie, “Formianum” V – 1997, Atti del Convegno di Studi sull’antico territorio di Formia, Marina di Minturno 2000, pp. 117 segg.
Nicoletta Cassieri, Nuove acquisizioni sul culto funerario nel Lazio meridionale: un sepolcro lungo l’Appia a Formia e un sarcofago cristiano a Fondi, “Formianum” VI – 1998, supra 2002, p.33 segg.
Salvatore Ciccone, Il sepolcro formiano di Marco Vitruvio, “Formianum” VII-1999, supra 2007, p.47 segg.
Aa. Vv., Vitruvio opera e documenti, “Formianum” VIII-2000, supra 2009.
giovedì 28 ottobre 2021
ULTERIORI ANNOTAZIONI AI COSIDDETTI NINFEI DI VILLA CAPOSELE
Salvatore Ciccone
L’esigenza di queste pagine di esporre in forma divulgativa un argomento vasto e complesso come quello dei cosiddetti Ninfei di Villa Caposele (vedi il post di queste pagine del 20 ottobre scorso : https://www.facebook.com/ComeEriBellaFormia/posts/4598820153514868), ha dovuto ricorrere ad una semplificazione dei concetti come delle immagini. Visto l’interesse suscitato dalla trattazione precedentemente pubblicata, si crede opportuno fare qualche precisazione su alcune particolarità architettoniche delle due sale colonnate ad uso di triclinio ossia ‘oeci’.
Nella sala quadrata ‘tetrastila’, merita di essere considerato nella ulteriore immagine (fig. 1) il muro prominente orientale prossimo alla colonna originaria nel quale si apriva, verso un ambiente contiguo, un largo passaggio quadrangolare definito da architrave a piattabanda con soprastante arco di scarico, quest’ultimo residuato e tutto murato nell’Ottocento. La curiosità sta nel fatto che il passaggio si trova decentrato rispetto alle due colonne e cioè verso il fondo (fig. 3 a dx): entrando dal davanti esso si sarebbe veduto per intero, come anche provenendo dall’ambiente laterale avrebbe consentito una visione articolata della sala colonnata; accorgimenti anche in relazione alle dimensioni stesse del passaggio che ad una altezza di 8 piedi (m. 2,36) ha assegnata una larghezza di 9 piedi (m. 2,66) per restituire una immagine circa quadrata del varco.
Non è possibile sapere se pari passaggio fosse praticato nel muro opposto, visto che era completamente crollato e ricostruito nell’Ottocento, ma è probabile che attraverso l’apertura documentata la visuale fosse indirizzata verso un elemento scultoreo. A questa funzione si riconducono le “ambulationes” citate da Vitruvio (“De Architectura” VII, 5, 2) come luogo espositivo di cicli pittorici quando non di sculture relativi la Guerra di Troia o le gesta di Ulisse. Ciò è tanto più rimarchevole se si considerano altre sale prossime provviste o documentate con nicchia semicircolare di fondo, questo nel contesto paesaggistico di Formia evocante i mitici Lestrigoni e del promontorio destinato alla sepoltura di “Caieta”, la nutrice di Enea.
Si è già puntualizzato sulla destinazione generale delle stanze comprese tra i due ‘oeci’, tetrastilo e corinzio, senza dubbio termale dai vari indizi e osservazioni tramandate, tipologicamente calzante con la contiguità ai triclini. Nella duplice linea di stanze interposte, quella centrale delle tre posteriori, si aggiunge l’immagine sulla volta a botte (fig. 2) del residuo del rivestimento decorativo in stucco ‘strigilato’, con scanalature replicanti la curvatura. È questo un espediente tipico degli ambienti caldo-umidi per evitare il gocciolamento dell’umidità di condensa favorendone lo scorrimento lungo i lati e sulle pareti, di pari provvisto di forte risoluzione decorativa in questo caso forse risalente ad una successiva fase manutentiva; similare e integralmente conservato è nell’ambiente del “balneum” nelle sale voltate del vicino ambito delle cosiddette “Grotte di Cicerone” (fig. 3).
Riguardo agli alzati delle due sale si aggiungono le sezioni (figg. 4, 5) nelle quali, nel tangibile criterio modulare ampiamente esposto, si possono osservare le collimazioni geometriche nel riporto delle dimensioni delle parti tramite archi di cerchio.
Una curiosità che non trovava spiegazioni all’atto del rilievo, si presenta nell’oece corinzio nella diversa altezza delle navatelle laterali al colmo delle volte. Questa nella sezione (fig. 5 in alto a sx) si dimostra relazionata alla nicchia comprendente la vasca sorgiva, poiché è di poco decentrata per aumentare l’ampiezza dell’adito dell’antica scala per il piano superiore: delle navate si riportò la distanza dal centro della nicchia come altezze, come evidentemente indicato nel progetto, ma confondendoli coi riferimenti reali corretti in corso d’opera, risultando così difformi. Questa circostanza dà certezza sui metodi di progettazione e messa in opera, suscettibili di aggiustamenti e tollerabili errori: al rigoroso e occulto criterio a base della perfezione dell’opera, è un errore che a distanza di millenni ne restituisce la dimensione della più modesta ma vitale identità umana.
Nelle immagini: Oece tetrastilo, vista del muro orientale con l’accesso murato; Ambiente tra i due oeci, volta con residuo di rivestimento a stucco ‘strigilato’; Volta ‘strigilata’ nel “balneum” nell’ambito delle cosiddette “Grotte di Cicerone”; Sezioni parzialmente restitutive dell’oece tetrastilo, trasversale a sx, longitudinale a dx; Sezioni parzialmente restitutive dell’oece corinzio, trasversale verso il fondo in alto a sx e verso l’ingresso a dx, longitudinale sotto.
mercoledì 20 ottobre 2021
TRACCE DI VITRUVIO A FORMIA: I COSIDDETTI NINFEI DI VILLA CAPOSELE
di Salvatore Ciccone
Nello studio personale di alcuni monumenti d’epoca romana di Formia si è voluto risalire al criterio geometrico-matematico della “symmetria”, che tramite il modulo regola in una costruzione la misura di ogni singola parte in corrispondenza al suo insieme. Questo procedimento è reiterato dall’architetto Vitruvio nel suo trattato scritto per Ottaviano Augusto e teorizzato nelle proporzioni dell’uomo nel quadrato e nel cerchio di cui si ha l’emblematico disegno di Leonardo da Vinci, tanto abusato oggi e coniato sulle monete da 1 euro; all’opera di Vitruvio infatti si ricondussero gli artefici del Rinascimento che cercarono di carpire dalle costruzioni romane le formule per riprodurne la magnificenza.
L’intento attuale è quello di ‘vedere’ un edificio dalla parte di chi l’ha concepito ripercorrendone il processo concettuale verso una appropriata interpretazione. Maggiori riscontri oggettivi e con il “De Architectura” di Vitruvio risultano in due originali sale tra i resti di una vasta residenza romana compresa nella cinquecentesca Villa Caposele, divenuta nel 1852 residenza privata di re Ferdinando II di Borbone, oggi proprietà Rubino (fig. 1).
Queste sale articolate da colonne di sostegno alle volte si distinguono nell’uniforme successione di concamerazioni di una terrazza artificiale: ciascuna ha sul fondo un vano a nicchia con fonte sorgiva e per questo semplicisticamente ricondotte al tipo dei ninfei.
Il complesso edificato ha muri in prevalente opus quasi “reticulatu”m collocabile al 50 prima di Cristo. Esso ricalca i piedi di un’originaria rupe alta circa 20 metri coronata dalle mura poligonali della città, sotto la quale scaturisce la sorgente. Le due sale, con comune fronte rettilinea, affacciavano a circa due metri dal livello del mare su una vasta peschiera, i cui resti furono interrati dai Borbone per la creazione di un ampio giardino; maggiore visuale degli specchi marini e del panorama si aveva dal piano superiore ad uso residenziale in seguito ridotto in orto pensile ed elevato di circa m. 7,50.
Il cosiddetto “ninfeo minore” (fig.2) ha pianta impostata sul quadrato, in un ambiente principale rimarcato da quattro colonne doriche semplificate e in un vano con fontana. È in parte ricostruzione dei Borbone da un’unica colonna superstite e dai resti di voltine a botte perimetrali, come si rileva in alcune precedenti illustrazioni, dalla quale si risalì all’ardita soluzione di lunghe piattabande di sostegno ad una volta centrale a padiglione.
Tre elementi originali della sala hanno diverse tecniche murarie non attribuibili ad interventi successivi, ma a specifiche esigenze costruttive: il muro di fondo e la nicchia di contenimento del terreno in più resistente “opus incertum” di grosse pietre irregolari; i muri isolati di contenuto spessore in “opus quasi reticulatum” a piccoli elementi tronco-piramidali; le colonne di maggiore compattezza in “opus testaceum” con settori di tegole, ugualmente alle piattabande intersecate sulle colonne e incastrate nelle pareti come travatura lignea.
La decorazione generale con pietre spugnose richiama una grotta, impreziosita nella volta a botte della nicchia con scomparti a sassolini, conchiglie e paste vitree, mentre le pareti a stucco riproducono un motivo architettonico con porte; sulla colonna un residuo di mosaico a riquadri rivela come subordinasse la struttura.
Il cosiddetto “ninfeo maggiore” (fig. 3) ha pianta sviluppata in forme rettangolari e volte a botte, con sala aumentata su ambo i lati da navate distinte con quattro colonne doriche di pietra a stucco sostenenti la più ampia volta centrale cadenzata da lacunari; il fondo ha un vano occupato da fonte in vasca e decorato con pitture egittizzanti (III stile) e all’opposto si allunga quello di accesso dall’esterno. Il pavimento è in mosaico ‘a canestro’ bianco punteggiato di marmi policromi, al cui centro si trova una vasca di “impluvium” corrispondente all’apertura a “compluvium” che esisteva nella volta originaria. Lo spiraglio venne meno con la ricostruzione di una nuova volta eseguita dai Borbone, facendo perdere i giochi di luci ed ombre nei risalti delle membrature come appare nelle illustrazioni, e di pari la ventilazione ascensionale a temperare l’ambiente insieme all’acqua sorgiva.
Tra le due sale colonnate, una volta mostra i resti di intonaco a scanalature, ‘strigilato’, funzionale negli ambienti termali caldo-umidi per convogliare l’acqua di condensa. Ciò richiama l’abbinamento usuale di “balneum” e “triclinium” o sala da pranzo, questa che nello sviluppo a colonne si definiva “oecus”, dal greco “oikos”, casa: Vitruvio (VI, 3, 9) classifica il tipo tetrastilo, corinzio ed egizio, che si confrontano con il nucleo della casa di rango romana, di quella greca corinzia e di quella egizia.
Il “ninfeo maggiore” risalta a confronto dell’espressione figurativa data Vitruvio all’oece corinzio (VI, 3, 9): “I corinzi hanno le colonne che posano su di un podio o a terra, e sopra hanno epistili e cornici o in opera nella muratura o di stucco, di poi sopra le cornici, dei lacunari curvi che girano interrotti alle reni”; in quest’ultima espressione, “curva lacunaria ad circinum delumbata” è implicita una copertura cementizia, poiché le reni in una volta a pieno centro sono la parte poco superiore al piano d’imposta che non genera spinte laterali, queste più sopra ridotte dall’alleggerimento della struttura a lacunari.
Dunque le due sale colonnate si devono propriamente riferire ad oeci, pure adeguatamente contestuali ad una fontana: il “ninfeo minore” al tipo tetrastilo, il “ninfeo maggiore” al tipo corinzio; così come nella trattazione vitruviana risaltano complementari a Formia.
Nella ricerca delle proporzioni si acquisiscono maggiori evidenze sul genere delle due sale.
L’oece tetrastilo ha la pianta inscritta in un quadrato che comprende lo spessore del muro frontale, come pura quadrata è la nicchia (fig. 4). Da ciò si individua il criterio proporzionale in una serie di quadrati concentrici determinati dalle rispettive diagonali e originata dal teorema di Platone tramandato da Vitruvio (IX, pref., 4-5): il quadrato principale della sala, scandito da quattro moduli di 6,25 piedi (1 piede m. 0,2957), trova nella serie concentrica inferiore il quadrato della nicchia di lato due moduli, fatto che conferma l’omogeneità costruttiva dell’insieme. Inoltre la misura del singolo modulo si può tradurre in 25 palmi (1 palmo = m 0,074), numero in piedi del quadrato maggiore ad evidenziare il ricercato gioco delle corrispondenze simmetriche.
L’alzato trova riscontro alle regole stabilite da Vitruvio. Per la colonna di ordine dorico altezza 14 volte il raggio di base (IV, 3, 4): qui a capitello semplificato, corrisponde in m. 4,14 su raggio di 1 piede. Per gli oeci tetrastili quadrati, altezza pari alla somma della larghezza con la sua metà (VI, 3, 8): la dimensione presa tra i limiti interni delle colonne dà m. 5,85 in difetto di appena 15 centimetri, ma rispetto alla volta ricostruita.
Dell’oece corinzio, la pianta risulta composta di tre rettangoli nella medesima proporzione scandita da un segmento di 7,5 piedi, in quella maggiore in cinque parti e sulla larghezza in quattro (fig. 5). Anche in questo caso, nel gioco delle corrispondenze simmetriche, la misura tradotta in palmi ne dà 30 che è il numero in piedi della lunghezza della sala colonnata: in questo segmento si deve perciò individuare il modulo che nel rettangolo maggiore stabilisce una comune proporzione di 5:4. Inoltre la lunghezza del rettangolo minore e la larghezza di quello maggiore collimano le dimensioni della fauce d’ingresso della sala in rapporto 1:2 indicata per i triclini, palesando l’origine dell’elaborazione. Il modulo poi decuplicato collima la lunghezza totale della sala di 75 piedi o 300 palmi, mentre la larghezza massima tra le pareti delle navate è di 37,5 piedi, o 150 palmi, quindi rispettivamente di moduli 10 e 5 ribadendo il rapporto 1:2 dei triclini.
Da ciò risalta come lunghezza totale dell’oece tetrastilo è la metà di quello corinzio, di 37,5 piedi o 150 palmi, dimostrando l’unità progettuale delle due sale.
Anche nell’oece corinzio l’altezza confronta la proporzione prescritta da Vitruvio per i triclini, media della somma tra lunghezza e larghezza, qui da interpretare in presenza delle colonne; pertanto nel rapporto 1:2 della pianta si considera la lunghezza effettiva di piedi 30 e come larghezza la sua metà, risultando dall’operazione 3 moduli pari a 22,5 piedi (m. 6,65), in altezza coincidente al fondo dei lacunari quale parte effettiva di copertura.
La ragione del modulo di 7,5 piedi nel rapporto 5:4 nei rettangoli della pianta, trova spiegazione se la misura viene tradotta con il diretto multiplo del piede che è il cubito pari a 1,5 piedi (m. 0,445) e che ne assomma appunto 5; se poi anche il numero 4 del rapporto si considera in cubiti esso è pari a 6 piedi. Da ciò la stessa quantità del modulo di 7,5 risulta connaturata nel rapporto 5:4 con il quoziente 1,25 moltiplicato 6, oppure 6 e ¼.
Vitruvio (III, 1, 1-9) in argomento alle proporzioni degli edifici assimilate al corpo umano fa corrispondere l’altezza e la larghezza con le braccia distese ad un quadrato proprio di 6 piedi di lato; inoltre inscrive il corpo in un cerchio con centro nell’ombelico a toccare le estremità degli arti divaricati, cerchio di cui non dà una dimensione. Ipotizzando per esso il diametro di 7,5 piedi e cioè 5 cubiti, si confronta la collimazione assegnata alle membra rispetto al cerchio e il medesimo tangente la base del quadrato toccare i due angoli opposti, configurando uno schema di “symmetria” che individua il modulo e tutto dimensionato dal cubito (fig. 6): lo stesso cubito che è composto di 6 palmi è ‘simmetrico’ al numero di piedi dell’altezza dell’uomo; dell’effettività dello schema ne è prova il fatto che in esso si inscrive perfettamente la pianta e ne collimano i punti principali.
Dunque l’individuazione del criterio proporzionale dell’oece corinzio di Formia si ricondurrebbe all’autentico schema geometrico dell’uomo vitruviano, che sicuramente non può corrispondere a quello celebre di Leonardo basato su numeri irrazionali, a decimali infiniti, non modulabili nell’Antichità e non confrontabili all’allora sistema di misura.
Lo schema deve originarsi dal teorema di Platone utilizzato nell’oece tetrastilo anche in virtù della complementarietà con l’oece corinzio. Infatti dalla serie concentrica di quadrati si raggiunge una “sezione aurea” che determina il raggio del cerchio e perciò un “rettagolo aureo” compreso tra il suo centro e il lato tangente del quadrato (fig. 7); Il rapporto tra il lato maggiore e quello minore del rettangolo è di 8:5 il cui quoziente 1,6 esprime in numeri naturali la “sezione aurea”, dai moderni derivata da un’equazione di secondo grado con numero irrazionale 1,618…all’infinito.
Questo rapporto che risale ai Pitagorici è descritto da Euclide di Alessandria nel VI libro degli “Elementi”. Curiosamente Vitruvio non cita questa proporzione né Euclide, bensì il maestro di costui, Platone, cosa che fa ritenere una reale attribuzione da fonti perdute piuttosto di una improbabile ignoranza o trascuratezza dell’architetto.
La decifrazione architettonica dei due oeci trova così nell’opera di Vitruvio una stringente serie di correlazioni intrinseche nei concetti della simmetria fino ad identificare lo schema di riferimento basato sul corpo umano; inoltre ha consentito verifiche e una innovativa interpretazione della sua perduta basilica a Fano, secondo la somiglianza da egli stesso riferita tra oeci corinzi e egizi e le basiliche.
Queste circostanze che si possono ricondurre ad un medesimo autore, si rafforzano nel fatto che Formia è considerata la più probabile patria del celebre architetto anche nel numero e contenuto delle epigrafi della “gens Vitruvia”: quella celebre è di un Marco Vitruvio, proveniente da un sepolcro d’età augustea recentemente scavato sulla via Appia. Pertanto questi oeci, architettonicamente già riconosciuti basilari ed ora di tangibile correlazione alla sua opera, si presentano eccezionali come documenti di riferimento e risorsa culturale della Città.
Per un’ampia bibliografia sull’argomento: S. Ciccone, Sale con volte su colonne al tempo di Vitruvio: gli esempi originali di Formia, “Formianum” VI-1998, Marina di Minturno 2002, pp. 11-29; Aa. Vv., Vitruvio opera e documenti, “Formianum” VIII-2000, Marina di Minturno 2009. Una sintesi più recente dello stesso autore è nella rivista “Lazio ieri e oggi”, anno LV, n. 7-9, 2019, pp. 250-56.
Nelle immagini: veduta verso settentrione della Villa Caposele dal porto omonimo; planimetria dell’area archeologica: nella linea rossa la sostruzione voltata; A – “ninfeo maggiore”; B – “ninfeo; minore”; il “ninfeo minore”, propriamente oece tetrastilo, nella parziale ricostruzione borbonica: sul fondo a destra la colonna e parte delle volte originali come si vede nella antecedente illustrazione di Pasquale Mattej (“Poliorama pittoresco”, IX -1845); il “ninfeo maggiore”, propriamente oece corinzio, con la volta centrale ricostruita dai Borbone e precedentemente con gli effetti di luce dall’originario “compluvium”, nell’incisione di Luigi Rossini (Viaggio pittoresco da Roma a Napoli, Roma 1839); pianta dell’oece tetrastilo basata sullo schema di simmetria dal teorema di Platone, a destra (Ciccone 1998); pianta dell’oece corinzio con a destra il diagramma dei rettangoli costituenti in cui si individua il modulo (Ciccone 1998); schema di “symmetria” vitruviano del corpo umano commisurato al piede (B) e al cubito (A), nel quale si inscrive e coincide la pianta dell’oece corinzio (Ciccone 1998-2000); genesi dello schema di “symmetria” vitruviano (Ciccone 2017): 1 - in rosso, il rettangolo aureo; (2) schema del teorema di Platone, con raggio del cerchio da “sezione aurea”; (3) sovrapponibilità dei due schemi.
martedì 12 ottobre 2021
STANCHI IN FORMIA LA SERA AVEMMO ALBERGO
“In Mamurranum lassi deide urbe manemus - Stanchi in Formia la sera avemmo albergo”.
La bellissima incisione, porta in basso questa didascalia ed è tratta dall'opera "Quinti Horatii Flacci Satyrarum libri I Satyra V", volume edito a Roma dal De Romanis nel 1816. Furono pubblicate due edizioni nel medesimo anno, la prima stampata in 150 copie e la seconda in 200, curate dalla duchessa Elisabetta di Devonshire, generosissima mecenate di artisti tra i cui lo scultore Antonio Canova. Nel frontespizio dell'opera primeggia la scritta: "immagini fedelmente ritratte su li luoghi stessi nel loro stato attuale". Nel volume sono raffiguranti i principali luoghi sulla via Appia tra Roma e Brindisi. La duchessa di Devonshire fece distruggere 90 copie della prima edizione per aumentarne la rarità. L'incisione da lastra di rame è opera del valente incisore Achille Parboni e raffigura il mausoleo di Marco Tullio Cicerone, lungo la via Appia all'ingresso di Formia. Interessante notare la scritta Formia, anche se nel 1816 tale toponimo era scomparso e la città era conosciuta come Mola di Gaeta.
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