Cerca nel blog

Etichette

giovedì 25 gennaio 2024

VITRUVIO IN DUE NINFEI A FORMIA - di Salvatore Ciccone
Nello scorso articolo ho trattato del sepolcro recentemente scoperto a Formia sulla via Appia, dal quale si è dimostrata provenire l’iscrizione di età augustea del titolare, un Marco Vitruvio, riutilizzata nel vicino ponte di Rialto risalente al 1568 e che ha indotto i classicisti a ritenerla riferita all’architetto di Cesare e che ad Augusto dedicò il suo celebre trattato sull’Architettura, pertanto facendo ritenere questa città la sua più probabile patria. Per la restituzione grafica del sepolcro ho fatto riferimento al criterio proporzionale analogo a quello impiegato in uno dei due cosiddetti ninfei di tarda età Repubblicana nella prossima zona costiera, architetture che presentano riscontri con l’opera di Vitruvio. Si tratta di due originali sale voltate articolate da colonne in una vasta residenza romana compresa nella Villa del principe di Caposele, divenuta nel 1852 luogo di vacanza di re Ferdinando II di Borbone, oggi proprietà Rubino; entrambe hanno sul fondo un vano a nicchia con fonte sorgiva e per questo ricondotte al tipo dei ninfei. Nella pianta le due sale si distinguono dai prevalenti ambienti uniformi di sostegno di un originario piano residenziale, elevato dall’attuale giardino di circa metri 7,50 e già ridotto in orto pensile, che ricalcano l’andamento di una rupe ai cui piedi scaturisce la sorgente; la fronte rettilinea degli ambienti si elevava di circa 2 metri da una vasta peschiera antistante, i cui resti furono interrati dai Borbone nell’ampliamento del giardino. Il “ninfeo minore” ha una pianta su matrice quadrata che forma un ambiente principale scandito da quattro colonne doriche, approfondito in una nicchia con fontana. La parte principale è ricostruzione dei Borbone da un’unica colonna e volte perimetrali superstiti, riproponendo un soffitto centrale a padiglione sospeso su lunghe piattebande. La decorazione generale a pietre spugnose richiama una grotta cui si aggiungono effetti pittorici e illusori: nella volta a botte della nicchia con scomparti a sassolini, conchiglie e paste vitree; nelle pareti a stucco con porte inquadrate da motivo architettonico; sulla colonna in un residuo di mosaico a riquadri. Il “ninfeo maggiore” ha pianta sviluppata su matrice rettangolare, con al centro un’ampia volta a botte scandita da lacunari o cassettoni, sostenuta su ambo i lati da quattro colonne doriche di pietra a stucco che spaziano su navate laterali; il fondo ha un vano occupato da fonte in vasca e decorato con pitture ‘egittizzanti’; all’opposto verso l’esterno si allunga una “fauce” di accesso. Nel pavimento di mosaico bianco punteggiato di marmi policromi, si trova al centro una vasca rettangolare o “impluvium” corrispondente all’apertura che esisteva al centro della volta o “compluvium”, di questa la ricostruzione borbonica annullò il risalto delle membrature nei giochi di luci ed ombre, nonché la ventilazione ascensionale. Tra le due sale, la volta di un ambiente reca i resti di intonaco a scanalature per convogliare l’acqua di condensa di un ambito termale del quale è tramandata la presenza di dispositivi di riscaldamento delle pareti. Ciò richiama l’abbinamento usuale di “balneum” con “triclinium” o sala da pranzo, della quale nello sviluppo a colonne, Vitruvio (“De Architectura”, VI, 3, 9) la nomina “oecus” e ne classifica tre tipi tra i quali il tetrastilo e il corinzio e che, dal greco “oikos”, casa, si deduce assimilati al nucleo della casa romana e di quella greca corinzia. Pertanto si devono propriamente riferire al “ninfeo minore” un oece tetrastilo e al “ninfeo maggiore” un oece corinzio, qui complementari così come nella trattazione vitruviana, seppure aggiunti adeguatamente di una fontana. Questa coincidenza risalta più specificatamente nel “ninfeo maggiore” che si riconosce nella descrizione dell’oece corinzio data da Vitruvio (VI, 3, 9): “I corinzi hanno le colonne che posano su di un podio o a terra, e sopra hanno epistili e cornici o in opera nella muratura o di stucco, di poi sopra le cornici, dei lacunari curvi che girano interrotti alle reni”; quest’ultima espressione allude ad volta di muratura a pieno centro, dove le reni sono le porzioni poco superiori ai piani d’imposta che non generano spinte laterali, per il resto ridotte dall’alleggerimento dei lacunari. Maggiori evidenze sul genere delle due sale si acquisiscono nello studio delle proporzioni. L’oece tetrastilo ha la pianta inscritta in un quadrato che comprende lo spessore del muro frontale, come pura quadrata è la nicchia, rivelando il criterio proporzionale dal teorema di Platone a quadrati concentrici tramandato da Vitruvio (IX, pref., 4-5): il quadrato principale della sala è di lato 25 piedi che nella serie concentrica trova nella sua metà di 12,5 piedi il lato della nicchia, traducibile in 25 palmi (1 palmo = m 0,074), cioè corrispondente al numero di piedi del quadrato maggiore. Anche l’alzato riscontra le regole stabilite da Vitruvio: la colonna di ordine dorico di altezza 14 volte il raggio di base (IV, 3, 4), qui di metri 4,14 su raggio di 1 piede; l’altezza della sala quadrata pari alla somma della larghezza con la sua metà (VI, 3, 8), qui presa tra i limiti interni delle colonne dà metri 5,85 in difetto di 15 centimetri, ma rispetto alla volta ricostruita. Nell’oece corinzio, la pianta risulta composta di tre rettangoli di diversa dimensione ma di medesima proporzione regolata da un segmento comune di 7,5 piedi ossia 30 palmi, che è il numero in piedi della lunghezza della sala colonnata: in questo segmento si deve perciò individuare il modulo che nel rettangolo maggiore scandisce la lunghezza in cinque parti e la larghezza in quattro, stabilendo una comune proporzione di 5:4. Il modulo poi decuplicato collima la lunghezza totale della sala con 75 piedi o 300 palmi, mentre la larghezza massima tra le pareti delle navate è di 37,5 piedi o 150 palmi, quindi rispettivamente di moduli 10 e 5 ribadendo il rapporto 1:2 prescritto per i triclini. Da ciò risalta pure come lunghezza totale dell’oece tetrastilo, di 37,5 piedi o 150 palmi, è la metà di quello corinzio dimostrando l’unità progettuale delle due sale. Anche nell’oece corinzio l’altezza confronta la proporzione prescritta da Vitruvio per i triclini, media della somma tra lunghezza e larghezza, qui in presenza delle colonne nel rapporto 1:2 della pianta la lunghezza effettiva di piedi 30 e larghezza la sua metà dà 3 moduli pari a 22,5 piedi (metri 6,65), in altezza coincidente al fondo dei lacunari di effettivo soffitto. La ragione del modulo di 7,5 piedi nel rapporto 5:4 dei rettangoli della pianta, si ha quando la misura viene convertita nel diretto multiplo del piede che è il cubito equivalente a 1,5 piedi (metri 0,445) e che ne assomma appunto 5; al contrario il numero 4 del rapporto dato in cubiti equivale a 6 piedi. A ciò Vitruvio (III, 1, 1-9), riguardo alle proporzioni degli edifici assimilate al corpo umano, fa corrispondere l’altezza e la larghezza con le braccia distese ad un quadrato proprio di 6 piedi di lato; inoltre inscrive il corpo in un cerchio con centro nell’ombelico a toccare le estremità degli arti divaricati. Al cerchio non dà una dimensione, ma dandogli il diametro di 7,5 piedi e cioè 5 cubiti, esso è tangente la base del quadrato e tocca i due angoli opposti, nel quale si verifica la collimazione con le membra. È quindi configurato uno schema di “symmetria” dimensionato dal cubito in cui si individua il modulo della sala, verificato dal fatto che in quella combinazione geometrica si inscrive perfettamente la pianta collimandone i punti principali. Dunque l’individuazione del criterio proporzionale dell’oece corinzio di Formia ricondurrebbe all’autentico schema geometrico dell’uomo vitruviano, che sicuramente non può corrispondere a quello celebre di Leonardo basato su numeri irrazionali, a decimali infiniti, non modulabili nell’Antichità e non confrontabili all’allora sistema di misura. La decifrazione architettonica dei due oeci trova così con opera di Vitruvio una stringente serie di correlazioni fino a risalire allo schema basato sul corpo umano. Ciò mi ha inoltre consentito una innovativa interpretazione della perduta basilica a Fano, da egli concepita e descritta, secondo la stessa somiglianza con gli oeci corinzi. Queste circostanze si possono ricondurre ad un medesimo autore, rafforzando di Vitruvio la presenza a Formia e che in aggiunta alle altre consistenti testimonianze ne rendono più probabile l’origine. Pertanto questi oeci, architettonicamente già riconosciuti basilari ed ora di tangibile correlazione alla sua opera, si presentano eccezionali come documenti di riferimento e risorsa culturale, ad identità ed onore della cittadinanza. ****** Per un’ampia bibliografia sull’argomento: S. CICCONE, Sale con volte su colonne al tempo di Vitruvio: gli esempi originali di Formia, “Formianum” VI-1998, Marina di Minturno 2002, pp. 11-29; AA. VV., Vitruvio opera e documenti, “Formianum” VIII-2000, Marina di Minturno 2009. Una sintesi più recente dello stesso autore è nella rivista “Lazio ieri e oggi”, anno LV, n. 7-9, 2019, pp. 250-56.
Nelle immagini: Veduta verso settentrione della Villa Caposele dal porto omonimo e planimetria dell’area archeologica: nella linea rossa la sostruzione voltata; A – “ninfeo maggiore”; B – “ninfeo minore”; il “ninfeo minore”, propriamente oece tetrastilo, nella parziale ricostruzione borbonica e nella antecedente illustrazione di Pasquale Mattej (“Poliorama pittoresco”, IX -1845); pianta dell’oece tetrastilo basata sullo schema di simmetria dal teorema di Platone, a destra (CICCONE 1998); il “ninfeo maggiore”, propriamente oece corinzio, con la volta ricostruita dai Borbone e con gli effetti di luce dall’originario compluvium, nell’incisione di LUIGI ROSSINI (Viaggio pittoresco da Roma a Napoli, Roma 1839); pianta dell’oece corinzio con a destra il diagramma dei rettangoli costituenti in cui si individua il modulo (CICCONE 1998); schema di “symmetria” vitruviano del corpo umano commisurato al piede (B) e al cubito (A), nel quale si inscrive e coincide la pianta dell’oece corinzio (CICCONE 1998-2000).

martedì 23 gennaio 2024

I VENTICINQUE PONTI
La storia del viadotto del Pontone, i cosiddetti “25 Ponti” la conosciamo legata alla ferrovia Gaeta – Formia – Sparanise, inaugurata il 4 maggio 1892, quando venne aperta all’esercizio la nuova linea ferroviaria che da Sparanise raggiungeva Gaeta, passando per Sessa Aurunca, Minturno e Formia. Per Gaeta, isolata dall’entroterra e non attraversata dall’Appia, si dimostrò immediatamente un importante punto di comunicazione. I “25 Ponti” costituiscono una imponente opera, forse tra le più importanti realizzate alla fine dell’800 nel basso Lazio: in località Piroli sovrapassavano l’Appia e si presentavano maestosi al viandante del tratto Itri - Formia. Nel giugno del 1933, alla presenza di numerose autorità, tra cui l’allora Ministro degli Interni Costanzo Ciano, prese il via la “Littorina”, nuova automotrice con motore a scoppio di 120 HP, capace di raggiungere una velocità massima di 130 km. orari, che in seguito collegherà in pochi minuti il centro di Gaeta a quello di Formia, passando sullo storico viadotto. Diversi tratti della linea ferroviaria furono fatti saltare dai genieri tedeschi, che nel 1943 minarono i “25 Ponti”, riducendo 21 delle 25 arcate dell’imponente viadotto ferrato in un ammasso di macerie. Soltanto nel 1948, vennero appaltati dalle Ferrovie dello Stato i lavori di ricostruzione, ultimati nel 1950. L’Impresa Bajetti-Rocchi di Roma si aggiudicò la ricostruzione del viadotto composto da 25 luci di ml. 12 ciascuna, e ricostruito con le stesse caratteristiche tecniche e architettoniche del precedente. Con l'inaugurazione della Stazione di Formia sulla, direttissima Roma - Napoli, avvenuta il 16 luglio 1922, iniziò un lento declino della linea ferroviaria Gaeta - Formia - Sparanise. Da itinerario alternativo per raggiungere Napoli da Roma, nel luglio del 1957 venne chiusa e trasformata in collegamento di servizio urbano tra le città di Formia e Gaeta. Nel 1966, senza apparenti importanti motivazioni, la littorina andò in pensione ed il traffico passeggeri, che era notevole, venne effettuato con autobus che collegavano le due stazioni ferroviarie, senza effettuare fermate intermedie, ed il tronco ferroviario venne usato esclusivamente per il trasporto merci. Infine la chiusura dell’A.V.I.R. (la vetreria di Gaeta) mandò in completo disuso l’intero tratto, lasciando i “25 Ponti” in totale abbandono. Il traffico caotico che collega Formia e Gaeta soprattutto nel periodo estivo, imporrebbe oggi il ripristino di questo collegamento ferroviario tra le due città, senza eccessivi impegni di spesa; la breve distanza consentirebbe ancora il trasporto ferroviario, evitando gli onerosi costi di elettrificazione, consentendo alla famosa “Littorina” di ritornare a fare spola tra Formia e Gaeta. Da qualche anno si sta lavorando per il ripristino della linea ferroviaria ma tra burocrazia amministrativa e ricorsi vari ancora non si sa quando il servizio ferroviario ritornerà ad essere operativo.. I VENTICINQUE PONTI La storia del viadotto del Pontone, i cosiddetti “25 Ponti” la conosciamo legata alla ferrovia Gaeta – Formia – Sparanise, inaugurata il 4 maggio 1892, quando venne aperta all’esercizio la nuova linea ferroviaria che da Sparanise raggiungeva Gaeta, passando per Sessa Aurunca, Minturno e Formia. Per Gaeta, isolata dall’entroterra e non attraversata dall’Appia, si dimostrò immediatamente un importante punto di comunicazione. I “25 Ponti” costituiscono una imponente opera, forse tra le più importanti realizzate alla fine dell’800 nel basso Lazio: in località Piroli sovrapassavano l’Appia e si presentavano maestosi al viandante del tratto Itri - Formia. Nel giugno del 1933, alla presenza di numerose autorità, tra cui l’allora Ministro degli Interni Costanzo Ciano, prese il via la “Littorina”, nuova automotrice con motore a scoppio di 120 HP, capace di raggiungere una velocità massima di 130 km. orari, che in seguito collegherà in pochi minuti il centro di Gaeta a quello di Formia, passando sullo storico viadotto. Diversi tratti della linea ferroviaria furono fatti saltare dai genieri tedeschi, che nel 1943 minarono i “25 Ponti”, riducendo 21 delle 25 arcate dell’imponente viadotto ferrato in un ammasso di macerie. Soltanto nel 1948, vennero appaltati dalle Ferrovie dello Stato i lavori di ricostruzione, ultimati nel 1950. L’Impresa Bajetti-Rocchi di Roma si aggiudicò la ricostruzione del viadotto composto da 25 luci di ml. 12 ciascuna, e ricostruito con le stesse caratteristiche tecniche e architettoniche del precedente. Con l'inaugurazione della Stazione di Formia sulla, direttissima Roma - Napoli, avvenuta il 16 luglio 1922, iniziò un lento declino della linea ferroviaria Gaeta - Formia - Sparanise. Da itinerario alternativo per raggiungere Napoli da Roma, nel luglio del 1957 venne chiusa e trasformata in collegamento di servizio urbano tra le città di Formia e Gaeta. Nel 1966, senza apparenti importanti motivazioni, la littorina andò in pensione ed il traffico passeggeri, che era notevole, venne effettuato con autobus che collegavano le due stazioni ferroviarie, senza effettuare fermate intermedie, ed il tronco ferroviario venne usato esclusivamente per il trasporto merci. Infine la chiusura dell’A.V.I.R. (la vetreria di Gaeta) mandò in completo disuso l’intero tratto, lasciando i “25 Ponti” in totale abbandono. Il traffico caotico che collega Formia e Gaeta soprattutto nel periodo estivo, imporrebbe oggi il ripristino di questo collegamento ferroviario tra le due città, senza eccessivi impegni di spesa; la breve distanza consentirebbe ancora il trasporto ferroviario, evitando gli onerosi costi di elettrificazione, consentendo alla famosa “Littorina” di ritornare a fare spola tra Formia e Gaeta. Da qualche anno si sta lavorando per il ripristino della linea ferroviaria ma tra burocrazia amministrativa e ricorsi vari ancora non si sa quando il servizio ferroviario ritornerà ad essere operativo..
Nelle immagini il viadotto del Pontone nei primi anni del Novecento, mentre salta sotto le mine tedesche nel 1943, la consegna del cantiere all'impresa Bajetti - Rocchi nel 1948, lo stato dei lavori nel dicembre 1948 e maggio 1949, infine il viadotto a ricostruzione ultimata nel 1950 e la littorina ferma nella stazione di Formia alla fine degli anni '50

mercoledì 17 gennaio 2024

VITRUVIO A FORMIA di Salvatore Ciccone
Vitruvio fu l’autore del “De Architettura libri decem” (I dieci libri dell’architettura) dedicato all’imperatore Ottaviano Augusto e redatto tra il 27 e il 23 prima di Cristo. Come egli scrive in prefazione al primo libro, era stato nell’esercito di Giulio Cesare come sovraintendente alle macchine belliche e, ormai anziano, ottenne un vitalizio da Augusto tramite la sorella di questi Ottavia; in riconoscenza all’imperatore, raccoglie le sue cognizioni di architetto nel trattato, quale sussidio ai programmi di rinnovamento edilizio da quello intrapresi. Egli dimostra le conoscenze della disciplina e gli espedienti di mestiere, concretizzati nel quinto libro nella basilica da lui progettata e diretta nei lavori a Fano, evidentemente l’apice professionale convenientemente di ambito pubblico. Della diffusione del trattato si ha riscontro nell’opera di Frontino e nel compendio di Faventino, mentre Sidonio Apollinare nel V secolo indica Vitruvio come esponente dell’architettura. Il testo serbato nelle biblioteche monastiche ricomincerà a circolare nel Trecento; ritornerà alla ribalta con Leon Battista Alberti, affermandosi come uno dei cardini del Rinascimento, basilare nell’interpretazione dell’architettura classica, dell’arte del costruire e dello stesso mestiere dell’architetto, fino all’Ottocento. Eppure di Vitruvio è ignota la terra natale, nonché la veridicità dell’intero nominativo, Marco Vitruvio Pollione. Varie le identificazioni delle origini: Fano per via della Basilica, Fondi per quel Marco Vitruvio Vacco a capo della rivolta contro Roma nel 330 a.C.; quindi per le iscrizioni a Roma, Verona e in Numidia su un edificio pubblico finanziato da un Marco Vitruvio Mamurra, per il quale l’architetto creduto lo stesso ricchissimo formiano Mamurra, capo del genio militare e amico di Cesare, ipotesi destituita di ogni fondamento. Tuttavia la patria più accreditata è Formia, per il numero di iscrizioni seconda solo a Roma e perché in esse sono menzionati sia personaggi gentilizi, sia i liberti e in un arco di tempo che va almeno dal I secolo avanti Cristo al terzo dopo Cristo. Di recente lo studio di alcuni monumenti formiani rivela interessanti legami con il trattato. Nei cosiddetti Ninfei tra i resti di una residenza in Villa Caposele (oggi Rubino), si è risaliti al criterio modulare strettamente correlato ai concetti della “symmetria”, identificati nel famoso schema proporzionale dell’uomo nel cerchio e nel quadrato ripreso da Leonardo: le stringenti corrispondenze nella datazione dei “Ninfei” possono ricondurre allo stesso Vitruvio e ad avvalorare la sua origine formiana. Tra le numerose epigrafi, particolare è quella funeraria di un Marco Vitruvio, più volte menzionata dagli studiosi del passato, il cui blocco si trova riutilizzato nelle spalle del ponte di Rialto datato 1568, all’ingresso occidentale della città. Essa si trova inizialmente citata in una imprecisa trascrizione di Leandro Alberti nella sua “Descrittione di tutta Italia” edita a Bologna nel 1550: “[…] vicino a Mola, ove si veggono molti vestigi d’antichi hedifici et anche molti marmi spezzati, nelli quali leggonsi molti epitaphi antiqui, delli quali ancun io descrivero, come vidi passando quindi per andare a Napoli. Et prima si vede una tavola di marmo posta nelle mura di un nuovo edificio, lunga piedi sei, e larga uno e mezo in due parti spezzata, in cui sono scritte queste parole. EX TESTAMENTO. M. Vitruvii Menpiliae hoc Monumentum. Her. E. N. M. Poi in un’altra tavola di quattro piedi per lato. Q. Cisuitius. Q. L. Philomusus an. Mor. Cisuitius. Q. L. Philomusus. M. N. M. Vitruvius. M. L. De. Vitruvius e Vitruviis Chreste. M. Vitruvius. S. M. L. Fratrem.”. Della prima iscrizione Pasquale Mattej a metà Ottocento documenta sotto il ponte due distinti testi parziali, così successivamente integrati da Mommsen (CIL X, 6190): A) “M . VITRVVIVS (…)”, non riportato dall’Alberti, titolo a caratteri “capitali” di età augustea alti cm. 24; B) “EX . TESTAMENTO arbitratu / M . VITRVVI . M . L . APELLAE . ET (…) / HOC . MONVMENTVM. HEREDEM non sequitur”, quello inizialmente documentato, a lettere più piccole, oggi coperta da un gradone cementizio: il testamento concerne il sepolcro di un Marco Vitruvio eretto da un suo liberto M. Vitruvio Apella e non destinato ad eredi. Grazie alla stessa documentazione di Mattej, presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma, ho potuto identificare il sito di provenienza delle epigrafi: in alcuni disegni ritrae un tratto della via Appia prossimo al ponte, dove ai piedi di un casolare cinquecentesco sono i resti di due monumenti funerari contigui, uno in “opus quadratum” ed uno in reticolato con cantoni a blocchetti di calcare e laterizio; di questo in un appunto si specifica l’epigrafe rimossa alla fine del Settecento dal principe di Caposele e collocata nel lapidario all’ingresso della sua villa. Queste indicazioni trovano conferma nel 1997, allorché sul quel tratto dell’Appia (attuale via G. Paone) prossimo alla Fontana Romana e ad un sepolcro a torretta ottagonale, la creazione di un passaggio attraverso un vecchio muro di contenimento ha fatto affiorare una struttura funeraria sulla quale è intervenuta la Soprintendenza Archeologica. L’elemento resosi evidente nella sezione del dislivello, consisteva nel grosso nucleo cementizio di un monumento a pianta quadrangolare in origine rivestito di blocchi lapidei, recinto sul lato monte con un muro in “opus reticulatum” di prima età augustea, similmente replicato sul lato occidentale per altro ambito funerario. Queste aree hanno restituito diverse olle cinerarie protette dal terreno con pance d’anfora capovolte, i cui puntali fungevano da segnacolo; dall’area relativa il monumento, affiorarono anche le inumazioni sovrapposte di un uomo, di una donna e di due bambini. I contenitori delle ceneri e gli elementi di corredo, balsamari, lucerne ecc., vanno dalla fine del I secolo a.C. al II d.C., congruenti a monete, gli “oboli di Caronte”, di età giulio-claudia, flavia e di Adriano; reperti conservati ma non esposti nel Museo Archeologico Nazionale di Formia. Ciò che resta del monumento sembra non offrire appigli alla restituzione della sua forma. In realtà l’analisi costruttiva, metrologica e tipologica mi hanno consentito una ipotesi della sua architettura. Il nucleo in “opus caementicium” di pietre calcaree è in strati alti m 0,60 (2 piedi romani; 1 piede = m 0,2957), indicando la pari altezza degli elementi del rivestimento lapideo, poiché all’interno vi si eseguivano i progressivi getti cementizi, coesi tramite lo spargimento di minute scaglie calcaree derivate dalla lavorazione dei blocchi perciò di pari materiale: queste indicazioni sono congruenti ai reperti documentati sotto il ponte, tra i quali un pezzo di fregio dorico in cui si presenta un fiore con quattro foglie dagli apici ritorti e un tortiglione centrale che richiama il bocciolo di una viola, insieme alle rose fiori specifici del culto funerario. La struttura del sepolcro ha pianta quadrata e dalle impronte lasciate dai blocchi è riferibile al modello dell’altare a fregio dorico introdotto dalla fine del II secolo a.C., contenente una cella di contenute dimensioni. La pianta della struttura, compreso il recinto in “opus reticulatum”, è un quadrato di lato m 5,90 cioè 20 piedi e che sostanzia la proporzione del monumento con lo schema geometrico di Platone del rapporto √2 costituito da quadrati concentrici o in equivalenza alterni a cerchi, come appunto verificato in uno dei “ninfei” in Villa Caposele. In questo schema si ottengono coincidenze con le tracce sulla struttura, fornendo indicazioni anche per le altezze del monumento: il basamento o podio risultava alto di 10 piedi (m 2,97), quella complessiva di 28 piedi cioè m 8,28 di cui l’altare di 18 piedi (m 5,32). Nel modello ricostruttivo trova pure congrua collocazione l’iscrizione del “patronus”, che prima di svincolato valore documentale, ora si identificava con il monumento riaffiorato. In base ai vari esempi, l’epigrafe “capitale” si colloca bene al centro dello zoccolo dell’altare, mentre la disposizione testamentaria è adeguata sulla fascia del podio; invece lo scomparso epigrafista Lidio Gasperini le riconduce entrambi all’altare. Resta aperto il problema dell’identità di questo Marco Vitruvio, già ritenuto quello autore del “De Architectura” ed ora più probabile in concordanza alle informazioni scaturite dal sepolcro, fatto questo di eccezionale significato tuttavia ancora misconosciuto: così è il sepolcro, volutamente in via di occultamento con vegetazione rampicante in violazione alle norme manutentive del monumento vincolato; nondimeno è il Ponte cinquecentesco con i suoi frammenti epigrafici; quindi il principale corso cittadino intitolato a Vitruvio non reca che generiche targhe. A ciò, altre città tentano in ogni modo di attribuirsi la natalità di Vitruvio e con vane congetture; Formia invece continua ad ignorare i documenti materiali di quello che fu uno dei principali artefici della cultura occidentale.
Bibliografia - NICOLETTA CASSIERI, Nuove acquisizioni sul culto funerario nel Lazio meridionale: un sepolcro lungo l’Appia a Formia e un sarcofago cristiano a Fondi, “Formianum” VI – 1998, ed. 2002, p.33 segg. - SALVATORE CICCONE, Il sepolcro formiano di Marco Vitruvio, “Formianum” VII-1999, ed. 2007, p.47 segg. - AA. VV., Vitruvio opera e documenti, “Formianum” VIII-2000, ed. 2009.
Immagini: 1 – L’area funeraria di Marco Vitruvio sulla via Appia, come è oggi ricoperta da edera, e come ritratta da Mattej nel 1847 (Bibl. Vallicelliana, Roma). 2 – Blocco epigrafico alla base della spalla del Ponte di Rialto con disegno integrativo del titolo. 3 - Sepolcro di Marco Vitruvio, vista dei resti verso oriente e dalla parte superiore. 4 – Sepolcro di Marco Vitruvio, disegno restitutivo (CICCONE 1999): in basso a destra, proporzione teorica della pianta sullo schema in rapporto √2 a sinistra determinante l’effettiva posizione regolarizzata delle parti; sopra, alzato frontale secondo il criterio modulare; a destra, sezione trasversale con vano della cella e in tratteggio il nucleo esistente.