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venerdì 28 ottobre 2022

VIA OLIVELLA, ESEMPIO DA PRESERVARE - di Salvatore Ciccone
C’è una stradina appartata che collega il mare alla via Appia (oggi via Remigio Paone) prima di guadare il torrente Rialto: è via Olivella, a me cara perché legata ai ricordi della prima infanzia quando vi abitavo ed era l’unico percorso più prossimo alla città per raggiungere la spiaggia di Vindicio e il porto Caposele. Allora un viatico di umanità colorita rompeva il predominante silenzio, dagli sporadici venditori al risonante scalpiccio degli zoccoli dei bagnanti e ai richiami in puro dialetto; i profumi poi, delle zagare inebrianti, insieme agli aliti del mare, dominante… Abbandonata dal prevalente transito della nuova via Felice Tonetti, nella sua attuale secondarietà via Olivella nasconde l’originaria rilevanza poiché ricalca una via romana, parte del tracciato che si vuole realizzato dal censore Lucio Valerio Flacco nell’anno 188 prima di Cristo. Da questa estremità di Formia, la via si allungava sulla costa di Vindicio e del monte Conca dove, presso l’omonima cappella viaria della Madonna, si biforcava da una parte nel golfo a servizio del “Portus Caietae” e dall’altra portarsi sulla costiera da Sant’Agostino a Sperlonga e il fondano: proprio quest’ultimo breve tratto condotto arditamente sulle falesie, sarebbe quello effettivamente realizzato da Flacco, a collegare due opposti percorsi preromani nell’occasione incrementati. L’attestazione archeologica della strada è in più parti riscontrabile e per quanto concerne il tratto litorale di Vindicio anche variamente testimoniata dal XVII secolo, sebbene ultimamente contraddetta in base ai reperti affiorati nei saggi per la realizzazione del nuovo lungomare, ma da trincee sulla parte esterna e in lungo alla carreggiata invece che opportunamente trasversali. Di fatto della via romana se ne evince la presenza e la direttrice nella parte inferiore di via Olivella sul mare, dove in un muro ottocentesco che la limita compaiono riutilizzati numerosi basoli di pietra lavica del selciato, evidentemente intercettati nello scavo di fondazione (fig. 1). Nel 2007 il terreno retrostante fu interessato alla realizzazione di due ville unifamiliari: la Soprintendenza Archeologica acertò l’assenza di testimonianze dell’epoca e un terreno vergine, dando disposizioni affinché i basoli presenti nel muro rimanessero visibili. Sullo scorcio degli anni 1950, con il passaggio della retroposta via Litoranea fu fatta ad essa sottopassata via Olivella modificando in quel punto il livello della carreggiata e l’uniforme pendenza, venendo intercettati e rimossi i resti dell’antico selciato (fig. 2). È da considerare che a Formia la pavimentazione in pietra lavica sulla via Appia è comparsa verso il basso Impero, a partire dal rifacimento della via fatto dall’imperatore Caracalla nell’anno 216 da Fondi a Formia; invece del più antico lastricato in pietra calcarea locale rimangono i singoli elementi di rado riutilizzati nei muri susseguenti, nonché lungo la salita di Conca presso il Borgo Sant’Angelo. Sulla via Olivella attualmente non vi sono presenze visibili di antiche costruzioni. Invece a metà Ottocento lo studioso formiano Pasquale Mattej documenta in una sua mappa una serie di sepolcri allineati sul limite a monte della salita in prossimità della via Appia (fig. 3): vengono riportati con forma quadrangolare di medie dimensioni, probabilmente parti basali o nuclei strutturali. Ad essi sembrano potersi riferire gli schizzi di due distinte costruzioni del genere (fig. 4), dove l’indicazione “a Vendice” deve ragionevolmente identificarsi con quelli ubicati sulla mappa lungo Via Olivella. Alla presenza dei sepolcri si confronta un reperto conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Formia, ritrovato nell’ambito della strada negli anni 1920 in occasione della costruzione di una casa e donato dal proprietario Bernardo Miele, il fondatore dello stabilimento balneare “Bandiera”: consiste in una scultura marmorea ascrivibile al I o II secolo d.C., che rappresenta il corpo mutilo di un animale mitologico di prevalentemente significato funerario. La caratteristica visuale del percorso storico della via Flacca – Olivella, oggi in parte compromessa dal passaggio della via litoranea, è rappresentata dalla combinazione tra la notevole pendenza della carreggiata e la stretta delimitazione dei fianchi, più evidente nella parte alta del tracciato dove vi sono gli alti muri di confine su entrambi i lati. Così da questa posizione elevata a scendere, si produce l’effetto ottico ‘a cannocchiale’ che risalta il tratto panoramico del golfo (fig. 5). Invece salendo lo sguardo è gradatamente accompagnato dai muri in curva sull’incrocio con la via Appia (fig. 6), questa però nel periodo post-bellico avvicinata di una quindicina di metri per infilare il nuovo ponte. I suddetti effetti si dimostrano alterati dove sul lato mare è stata poi abbattuta una porzione del muro relativa il fronte del dismesso “Romantic Hotel” costruito negli anni 1960. Vie ‘murate’ come questa erano consuete nelle immediate periferie ed anche nei centri abitati prima che l’urbanistica generalizzasse canoni relativi all’aumento e godibilità pubblica degli spazi privati con risultati non sempre felici. Credo che queste antiche strade così spazialmente definite costituiscano una preziosa componente del paesaggio, purtroppo continuamente stravolte come si vede lungo la via Appia ad occidente di Formia a causa dell’apertura di inviti con modalità contrastanti al valore dei siti. Esse ricadono comunque nei vincoli di tutela, non di meno per gli elementi significativi che spesso includono, veri e propri ‘muri parlanti’ della storia dei luoghi. L’auspicio di una maggiore attenzione verso queste precarie testimonianze si infrange nell’apprendere che proprio l’immediata vicinanza alla Tomba di Cicerone è interessata dal progetto di un innesto viario di sconvolgente brutalità che decreterebbe l’alienazione del monumento e il suo antico contesto, oggi appurato pertinente alla villa del celebre personaggio e dove venne trucidato il 7 dicembre dell’anno 43 prima Cristo: un uomo e un fatto delittuoso celebri e degni di considerazione nel mondo…A quanto pare non dove consegnati in lascito. Sulla via Flacca a Sperlonga e sulla villa e la Tomba di Cicerone, si veda dell’Autore in “Formianum”, Atti del Convegno IX-2001.
Didascalie immagini 1. Lo sbocco di via Olivella sul lido di Vindicio, incrocio vie Tito Scipione - Porto Caposele: a sinistra il muro include basoli lavici dell’antica via Flacca. 2. Via Olivella durante l’adattamento della carreggiata al sovrappasso della via Litoranea (circa 1958): la freccia indica alcuni basoli rimossi dell’antica via Flacca. 3. Particolare della mappa archeologica elaborata da Pasquale Mattej nel 1868: la freccia indica via Olivella con sepolcri espressi con quadratini rossi. 4. Resti di due sepolcri romani “a Vendice” in un disegno di Pasquale Mattej del 1847 presso la Biblioteca Vallicelliana in Roma. 5. Via Olivella in discesa verso con visuale indirizzata al lido di Vindicio: a sinistra il dismesso “Romantic Hotel”. 6. Via Olivella in salita nella visuale guidata dai muri in curva verso l’incrocio con la via Appia.

venerdì 21 ottobre 2022

UNA NUOVA IPOTESI SULLA CHIESA INCOGNITA - di Salvatore Ciccone
Ho iniziato il precedente articolo da due disegni di Pasquale Mattej del 1847 che raffigurano una “chiesa diruta” sulla via Appia presso la Tomba di Cicerone. La ricognizione del luogo ha evidenziato i resti ancor più degradati dell’edificio effettivamente rispondenti ai disegni, ma nulla è emerso sulla sua identità, né dai documenti, né dalla toponomastica locale. Si è supposto che tale ragione possa derivare dal remoto abbandono della chiesa, pressoché vicino alla sua istituzione, che dalla architettura rimonterebbe alla seconda metà del 1400, implicando forse i Francescani di Gaeta, il transitorio regno degli Aragona e un possibile conflitto con l’abbazia di Sant’Erasmo di Castellone. Proprio su questa pista, facendo riferimento alle continue cause intentate dagli Olivetani succeduti nell’abbazia nel 1491 a difesa della loro influenza, la mia attenzione si appunta sulla chiesuola di San Sebastiano eretta nel decennio 1470 e poi co-intitolata a San Rocco, situata davanti alla porta meridionale di Castellone detta più recentemente dell’Orologio. Dai documenti dell’Archivio Diocesano si documenta come il sacro edificio venne ostacolato fin dalla sua costruzione, alla fine compiuta ma con precisi condizionamenti al suo esercizio. Essa era intitolata a San Sebastiano, similmente all’altra cappella a Mola presso il castello e fuori la Porta degli Spagnoli, già abbandonata all’inizio del ‘600 e fittata ad altri usi. Essa era sussidiaria a quella interna di San Lorenzo, dove in quella attuale prevalsa da San Giovanni Battista è conservato il pregevole dipinto circa del 1490 riferibile ad Antoniazzo Romano, con San Sebastiano speculare a San Lorenzo ai lati della Vergine col Bimbo. Dunque, riguardo la chiesuola di Castellone, in un secondo momento compare anche il culto di San Rocco al quale oggi è comunemente riferita. Fatto sta che i due santi appaiono raffigurati sul trittico sopra l’altare, anche qui ai lati della Vergine col Bimbo. Quest’opera su tavole è firmata da Geronimo Stabile “neapolitanus”, probabilmente parente di Antonio attivo a Napoli nella seconda metà del Cinquecento e alla quale pure risale quest’opera. È pertanto da supporre che il culto di San Rocco venne istituito in antecedenza al dipinto, dove la figura dominante della Vergine sembra equiparare al Santo preesistente quello aggiunto successivamente nella cappella. Questa circostanza mi fa pensare alla possibilità che il culto di San Rocco possa essere stato trasferito a causa dell’abbandono di un altro specifico luogo; alla sua identificazione la natura del Santo è indicativa. Nativo di Montpellier intorno al 1350, il suo fervido credo lo condusse in pellegrinaggio in Italia curando miracolosamente gli infetti della peste che imperversava l’Europa e che fece strage della popolazione affliggendo egli stesso; morì a Voghera dopo tre anni di ingiusta prigionia più probabilmente il 16 agosto 1379. Il suo culto si propagò fulmineamente come secondo santo più invocato e diffusissimo con chiese e cappelle già alla metà del secolo successivo; alla sua specifica qualità si unì quella emblematica del pellegrino divenendone quindi anche patrono: così nel trittico di Castellone è nelle vesti di pellegrino intento a curarsi le piaghe. Il culto fu sostenuto dai frati di Assisi ai quali nel 1547 Papa Paolo III inserì nel loro Martirologio San Rocco in quanto ritenuto appartenente al Terz’Ordine Francescano. Questa canonizzazione mi riporta al monastero di Sant’Agata sull’omonimo colle di Gaeta, retto proprio dal Terz’Ordine Francescano; quindi il suo essere pellegrino alla chiesuola diruta sulla via Appia. Questa ipotesi verrebbe corroborata dalla natura dell’altro Santo, Sebastiano, che fu il primo ad essere invocato nelle pestilenze: anch’esso oriundo ‘francese’ di Narbona nato nel 256 d. C., ufficiale dell’esercito imperiale, fu martirizzato a Roma trafitto da innumerevoli frecce e creduto morto, guarito dalle ferite similmente alle piaghe della peste e poi ucciso per flagellazione il 20 gennaio del 288. Pertanto la chiesa di San Sebastiano già lo vedeva invocato contro le epidemie cui il successivo San Rocco appare sminuirne la qualità, a meno che quest’ultimo come pellegrino fosse considerato rifugiato presso quello con simile ufficio, da un luogo non più sicuro o dismesso per complessi motivi. Si deve ricordare che la dominazione Aragonese venne interrotta con la discesa in Italia di Carlo VIII, il quale nel 1495 prese Gaeta facendo scempio di popolazione persino nelle chiese e queste depredate e rovinate tanto che una delle quattro navi carica dei bottini naufragò presso Terracina e approfittata da quegli abitanti. Sicuramente a questa data la chiesa sulla via Appia non poté scampare e neppure la torre di vedetta adattata nel sepolcro di Cicerone. In questa circostanza è probabile il riparo del culto a Castellone, occasione forse per far decadere la chiesa periferica destinandola ad alto impiego, anche a frantoio come indica una pietra nei muri d’ampliamento. Si tratta naturalmente solo di una ipotesi, benché ponderata e molto probabile, cui mi serbo di mantenere la predominanza rispetto ad un culto mariano tipico di molte cappelle viarie della zona. Essa può costituire lo spunto di ricerche d’archivio, ma che potrebbero rivelarsi a lungo infruttuose. Nel frattempo è però da considerare lo stato del rudere, unica testimonianza certa di un culto e di non secondaria importanza. Esso è infatti in serio stato di degrado e il prossimo al cedimento di alcune sue parti potrebbe causare anche incidenti gravi al traffico viario. Questa urgenza nella apparente banalità dei resti potrebbe essere il pretesto di una facile risoluzione di abbattimento, cancellando definitivamente la memoria del sacro sito. Per la sua valenza storica la sua preservazione è cosa di competenza né si può addebitare ai proprietari, ma credo spetti al Comune di Formia e direi anche a quello di Gaeta sulla via che ne separa i rispettivi territori. Quanto poi alla chiesa di San Sebastiano e San Rocco di Castellone, essa sembra accomunata da similare sorte. Dopo il furto del trittico qualche anno fa e poi recuperato in parte mutilo dai Carabinieri, esso ancora non è stato ricollocato; benché tenuta aperta, si osserva un decadimento della stessa considerazione a confronto col restauro eseguito nel 2001 dalla Inner Wheel Formia-Gaeta, allora dinamicamente presieduta dalla compianta professoressa Paola Fabiani. Anche questo monumento presenta molti spunti di interesse. L’aula a tre campate con volte a crociera quattrocentesche è il risultato di una successiva trasformazione, essendo illustrata da Giacinto Gigante nel 1855 con antistante portico: è questo che chiuso ha costituito l’attuale terzo vano di accesso, insieme all’irrobustimento ‘scarpato’ del muro orientale. Si osserva come il portale d’ingresso sia una mescolanza tra le prevalenti parti ottocentesche e quelle visibilmente discordanti delle pietre ornate all’imposta dell’arco; in questo poi è l’ingenua riproposizione del sacro trittico. Si vede così come la conoscenza del nostro patrimonio muova la necessità della conservazione e la considerazione della cultura come base di ogni espressione della società civile. Per questo è proprio nell’attuale difficile situazione che questo principio deve essere sostenuto a fronte dell’incredibile sfaldamento di ogni certezza. Nello specifico caso si aggiunge la fede e comunque il dovuto rispetto verso il sacro che si spera possa essere ulteriormente determinante.
Didascalie Immagini 1 – La chiesa incognita in uno dei disegni di Pasquale Mattej del 1847 confrontata nel sito attuale. 2 – Vista frontale dei ruderi: a destra la parte dell’aula di culto. 3 – Chiesa di San Sebastiano e San Rocco a Castellone, confrontata con il disegno di G. Gigante del 1855 (da A. Treglia, Mola e Castellone di Gaeta oggi Formia, 2014): il portico risulta chiuso ad ampliamento dell’aula. 4 – Interno della chiesa di San Rocco con in primo piano l’ambito dell’originario portico. 5 – Il trittico con a destra rappresentato San Rocco.

mercoledì 19 ottobre 2022

LA COLLABORAZIONE DI PASQUALE MATTEJ CON IL POLIORAMA PITTORESCO
Il “Poliorama Pittoresco”, uno dei più vivaci periodici napoletani, diretto dall’abate Giustino Quadrari, edito a Napoli dal 1836 al 1860, stampato dell’editore-tipografo Filippo Cirelli, è stata forse la pubblicazione più letta della stampa periodica del Regno di Napoli. Garantiva una notevole varietà di argomenti e di spunti artistici e letterari, vantando una numerosa schiera di collaboratori. Uno dei più fecondi è stato il formiano Pasquale Mattej, che illustrava numerosi articoli del periodico. La litografia che vi presento è una pregevole opera del nostro artista pubblicata nel numero 2 dell’anno 1855, dove si festeggia la nascita della principessa Maria Luisa. A margine della litografia si legge: “Illuminazione che l’Eccellentissimo corpo di città faceva eseguire nel largo del Mercatello per tre sere consecutive nei giorni 23, 24 e 25 gennaio per festeggiare il felice sgravio di Sua Maestà la Regina” Maria Luisa di Borbone (Caserta, 21 gennaio 1855 – Pau, 23 agosto 1874), era figlia minore di Ferdinando II delle Due Sicilie e della sua seconda moglie, l'arciduchessa Maria Teresa d'Austria. Orfana del padre a soli 4 anni, fu cresciuta insieme alle sorelle della madre, che dedicò il resto della sua esistenza esclusivamente alla cura della sua numerosa prole.
Nelle immagini, oltre alla stupenda litografia, una fotografia della principessa Maria Luisa.

venerdì 14 ottobre 2022

LA CHIESA INCOGNITA - di Salvatore Ciccone
Tra i tanti disegni che il colto artista Pasquale Mattej produsse intorno la metà dell’Ottocento, quasi fotogrammi del suo peregrinare nel territorio di Formia, un soggetto mi incuriosisce ben oltre l’apparenza. È in due simili schizzi nell’album conservato presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma, che rappresentano un tratto della via Appia presso il bivio della via Canzatora in direzione di Formia, dove la carreggiata appare limitata da un fabbricato diruto ma caratterizzato da un pregevole portale: dei due schizzi uno è annotato “Scansatoia 20 feb° 47” e l’altro con “Casa di Polito alla Scansatoia, chiesa diruta 14 marz° 47”, dunque eseguiti nel 1847 una ventina di giorni l’uno dall’altro. La Scansatoia è appunto la via oggi omologata “Canzatora”, definita anche “Spartitora d’Itri” nel ‘700, strada che consentiva il diretto collegamento con la via litorale più interna al golfo di Gaeta già in epoca romana, come ha dimostrato il selciato di recente venuto in luce. Poi nel secondo disegno, a parte il nome del proprietario, certo Polito, quello che risalta è la definizione del rudere in “chiesa diruta”, senza specifico titolo insolito alla scrupolosità del Mattej. Comunque, rispetto ad altre sue raffigurazioni lungo la via Appia che oggi non hanno riscontri, queste invece corrispondono con lo stesso rudere ulteriormente degradato, certamente riconducibile ad un edificio di culto. Il fabbricato è a pianta rettangolare all’incirca di 15 metri lungo la via e di 8 metri nell’interno, con muri rosi di una sequenza di vani scoperchiati dei quali si distingue quello estremo verso Formia, con resti di copertura a botte, come androne di passaggio del campo retrostante: ampio poco più di 3 metri, tiene all’interno un muro aggiunto alla parete verso Itri, rinforzo alla sopraelevazione abitativa palese nei disegni di Mattej. La volta è tranciata nella parte di colmo che era pressappoco 5 metri dal pavimento e pare essere stata moderatamente a sesto acuto: è di tipo massiccio, formata di blocchi di tufo giallo rinfiancati da calcestruzzo livellato per un piano superiore; resto di una simile volta si osserva nel vano susseguente. L’androne è quello che corrispondeva al portale illustrato e perciò doveva costituire l’aula di culto il cui fondale è però totalmente aperto sul campo e non determinabile. Nulla resta dell’ingresso che dai disegni appena si può delineare nella sua principale caratteristica. Si tratta infatti di un portale di stile “durazzesco” riferibile al quattrocentesco tardogotico, individuato dalla incorniciatura quadrangolare della parte alta a contenere e a risaltare l’arco, qui in più con un soprastante fastigio in forma di frontone triangolare ‘spezzato’, probabilmente per accogliere nel mezzo un elemento emergente. Di questo portale, almeno in parte di elementi di pietra o marmo, ho tentato una ricostruzione schematica del tutto ipotetica con possibile proporzionamento secondo la “sezione aurea” e al relativo rettangolo, solo per rendere intellegibile il disegno di Mattej. Dunque l’edificio presenta una modalità costruttiva in uso nel ‘400 e combacia lo stesso portale più evoluto da collocare nella seconda metà o allo scorcio del secolo medesimo. La chiesa si collocherebbe quindi nel periodo della conquista aragonese, da Alfonso V che dalla presa di Gaeta del 1435 vi eresse la reggia per sette anni per poi insediarsi a Napoli, fino al figlio Ferdinando sul finire del secolo. Allo stesso periodo deve risalire l’adattamento della Tomba di Cicerone a vedetta e perciò prima detta “Torre di Cicerone”, con l’intonacatura sfaccettata del fusto cementizio tipica dell’epoca e la colombaia sulla soprastante terrazza, torre indispensabile a sorvegliare la via Appia in collegamento con il castello di Gaeta. Si deve rammentare quanto narra Beccadelli, biografo di Alfonso, quando il re non volle impiegare per le fortificazioni di Gaeta i massi appartenenti alla villa per “antica tradizione” indicata di Cicerone, di certo quelli del basamento del sepolcro e in quel “vico ciceriniano”, villa o contrada, citato nel testamento dell’Ipata Docibile II nell’anno 915, perciò probabilmente quello stesso monumento trasformato dagli Aragonesi in difesa. Si può quindi immaginare una organizzazione del territorio in relazione alla presenza del re, dove anche la chiesa assolveva una funzione utile sì, ma anche di immagine tanto è denotata dal pregevole portale altrimenti eccessivo per un sito rurale periferico. A quale titolo fosse dedicata la chiesa e a chi affidata resta un mistero; però se fosse stata connessa alla vicina abbazia di Sant’Erasmo che aveva molti possedimenti nella zona, essa sarebbe rimasta più lungamente in uso, presente nei documenti di quell’istituto come nella toponomastica, invece nulla di ciò. È quindi probabile che sia stata relazionata ad un ordine religioso di più recente insediamento, come quello francescano che a Gaeta era potentemente attestato anche nel monastero di Sant’Agata sull’omonimo colle e che attraverso quella chiesa periferica poteva dare assistenza ai contadini e ai viandanti ricavandone utili offerte. Simile situazione si è avuta con la chiesa di Santa Maria delle Grazie presso Giànola sulla stessa Appia, tenuta dai Francescani di Marànola nel cui territorio insisteva e della quale recentemente ho individuato l’edificio. Il culto della chiesa in questione poteva essere riferito alla Vergine come le frequenti cappelle mariane su strada di Gaeta ed Itri, il quale probabilmente imposto nell’ambito dell’abbazia benedettina, appena fu possibile venne da questa soppresso cancellandone totalmente la memoria: sappiamo di svariate cause intentate dai successori dei Benedettini cassinesi, quelli dell’ordine Olivetano insediatisi nel 1491, riguardo a chiese e cappelle che potessero distogliere i fedeli dalla loro influenza; anzi è proprio forse dall’insediamento di quelli che la chiesa di lì a poco può essere stata soppressa, tanto indietro nel tempo da cancellarne la memoria. Null’altro si può dire se non che alla ricerca infruttuosa di notizie, ho dovuto far posto ad un ragionevole rientro nel mio campo dell’architettura, lasciando ad altri l’eventuale rinvenimento di documenti, soprattutto sperando che questo contributo, nell’attuale bisogno di migliori auspici, possa muovere l’interesse e comunque salvaguardare la memoria di questa chiesa incognita.
Didascalie Immagini 1. Il rudere della chiesa incognita sulla via Appia raffigurato da Pasquale Mattej il 20 febbraio 1847: sul fondo la più evidente Tomba di Cicerone. 2. I ruderi della “casa di Polito” comprendenti la chiesa disegnati da Mattej il 14 marzo 1847. 3. Veduta attuale del tratto della via Appia con i ruderi identificati alle raffigurazioni di Mattej. 4. Vista frontale dei ruderi: a destra l’ambiente con volta corrispondente all’aula della chiesa. 5. Il portale della chiesa: dal primo disegno di Mattej e ipotesi del disegno (S. Ciccone, 2022).

giovedì 13 ottobre 2022

UN'ANTICA PORCELLANA CON LA VEDUTA DI MOLA
Tra i servizi da tavola in porcellana realizzati, certamente quello della Real Fabbrica delle Porcellane di Napoli, è uno dei più rari e belli. Le porcellane, volute da Ferdinando IV di Borbone, vennero modellate e create tra il 1793 e il 1795, e composte da numerosi pezzi. Il servizio, chiamato dell'Oca per via del pomello dei coperchi che raffigurano un puttino che abbraccia un'oca, è decorato con le vedute dei siti più importanti e pittoreschi del Regno di Napoli. Le immagini che hanno decorato il servizio furono ispirate da dipinti di Hackert, Cardon, Hamilton e dell'Abate di Saint-Non. In una grande zuppiera è stata dipinta una veduta di Mola, tratta da un famoso dipinto di Jacob Philipp Hackert realizzato nel 1793. Di questo splendido servizio di porcellane, se ne conservano ben 347 pezzi, nel museo di Capodimonte in Napoli.

martedì 4 ottobre 2022

UN VENTAGLIO DA MOLA
Il ventaglio ha antichissime origini che probabilmente risalgono al V secolo avanti Cristo. Fu certamente utilizzato nella civiltà egizia e successivamente in quella greca. Corredati di stecche interne e guardie in madreperla, avorio o tartaruga, i ventagli sono oggi oggetti ricercatissimi dai collezionisti. Il ventaglio è stato visto come un oggetto complementare, spesso presente nella pittura classica a testimonianza del raffinato gusto di un’epoca passata che distingueva l’aristocrazia dal popolo. La peculiarità del ventaglio artistico riveste lo stesso valore di un dipinto su tela poiché, oltre ad essere realizzato, come una tela in un solo esemplare, è frutto di una manifattura artigianale di altissimo livello, con montature che vanno dall’avorio alla tartaruga, alla madreperla e persino ai metalli preziosi come l’argento e l’oro, con la presenza anche di perle e pietre preziose. Sono riuscito ad acquistarne un esemplare particolarmente interessante, sia per la sua rarità che per il suo stato di conservazione. Si tratta di un bellissimo ventaglio realizzato verso la fine del secolo XIX, forse unico nel suo genere . Su una delle pagine è dipinta una gouache raffigurante Mola di Gaeta, (oggi Formia); e poiché era in uso dipingere vedute solo di grandi e importanti città, la veduta di Mola di Gaeta rende ancor più raro e prezioso il ventaglio. Le stecche interne e le guardie realizzate in tartaruga ne impreziosiscono il valore artistico e commerciale; la sua apertura massima raggiunge i cinquanta centimetri. Il retro ritrae invece un trittico della città di Sperlonga, piccolo centro marinaro ubicato nella parte settentrionale del Regno di Napoli, ed è visibile il borgo posto al centro tra la torre Truglia e la grotta di Tiberio.