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lunedì 8 agosto 2022

CIAO ILARIA … di Salvatore Ciccone
Quest’oggi mi ha raggiunto una notizia di quelle che non vorresti mai avere sia pure prevedibili: la morte di Ilaria Liberace. Non è possibile nel dolore e dall’accalcarsi dei sentimenti fare di Ilaria ora un sereno profilo. Figlia di questa terra da generazioni, parente di quel Valentino Liberace estroso pianista di fama negli Stati Uniti, era artista che assorbiva energia e ispirazione dalla natura marina e in generale dalle umili cose: da una conchiglia, da un legno arrotondato dal mare, come da pannucci multicolori sapeva restituire i sentimenti, le sensazioni e perfino i profumi di quell’elemento sconfinato dominante nel suo quotidiano, nella sua casa lì a Vindicio, solo dopo anteposta dalla pinetina. Le estati vissute nello stabilimento balneare fondato dal nonno materno il patriottico Bernardo Miele che per questo lo intitolò Bagni Bandiera; gli inverni lunghi chiusa nelle economie familiari in attesa di una nuova proficua stagione, a studiare. Divenne insegnante di Educazione Artistica, la mia insegnante presso la Scuola Media Statale Marco Vitruvio Pollione nel quartiere di Mola, collega “di battaglia” di mio padre e amicissima di mia madre che la conobbe ragazzetta con tutta la famiglia dal giugno del 1956, proprio recandosi ai Bagni con me di pochi mesi. Poi il matrimonio con quel simpaticone irruento ma “signore” di Corrado Bartolomeo, anch’egli compagnone tra le giovani coppie di quegli anni che trafficavano il lido del Miramare, a mangiare le cozze strappate dalla Scogliera della Regina e subito mangiate con una spruzzata dei limoni dei giardini soprastanti… Voglio fermarmi qui, a quel tempo di sofferenze ma di nutrite speranze, di semplicità e immediatezza, di rispetto, di umanità in quella Formia in parte ancora in macerie ma che conservava anima distintiva e dignità nelle quali Ilaria si identificava. La pubblicazione qui di seguito di una sua memoria formiana a me consegnatomi anni fa penso sia il modo migliore, ora, di onorare la sua persona e nel contempo la sua terra che spero di Ilaria Liberace non sarà dimentica.
Memorie formiane - Gli agrumi del Porto Caposele - di Ilaria Liberace - È una tiepida sera di maggio, arrivo fino al porticciolo Caposele, la meta preferita delle mie passeggiate. Questo ritaglio di mondo, pur vicino alla città e alla strada litoranea, riesce ancora a rimanere isolato e tranquillo, dove puoi assaporare momenti di pace. La Villa Rubino e i ruderi romani sono immersi nel verde incolto. Le barche quasi immobili dormono affiancate, attraccate ai pontili. Le scogliere scure adagiate nell’acqua sembrano anch’esse addormentate. Solo i pipistrelli intrecciano una notturna danza frenetica sotto i lampioni, quasi a sfiorarti. C’è nell’aria un forte odore di mare misto a quello delle sentine, ma come oltrepasso il Circolo Nautico mi colpisce un intenso profumo di zagare: sono gli alberi di agrumi tutti in fiore, aranci, mandarini e limoni che crescono nei giardini a terrazzo che sovrastano e abbracciano il piccolo porto. Aspiro profondamente quel sano profumo e la mia mente come ossigenata si risveglia e si tuffa nei ricordi. Ero bambina quando in questo porto c’erano i velieri che caricavano e scaricavano merci. I carretti andavano e venivano rasentando gli antichi muri per via della strada stretta che era tutte buche provocate dalle mareggiate d’inverno. Passando davanti alle grotte romane dalle alte volte a botte mi vengono in mente le cose che diceva mia nonna “Ntoniella”. In questi antichi magazzini che sorgono nei giardini attorno al porto si svolgeva la florida attività della raccolta e selezione degli agrumi che venivano mandati ovunque. Le donne, accompagnandosi con la voce “misuravano” le arance così: con il pollice e il medio della mano sinistra tenevano il frutto, poi aggiungevano una, due o tre dita dell’altra mano e a seconda della grandezza li mettevano in ceste separate, 1ª scelta, 2ª scelta, ecc. Un altro lavoro che veniva fatto era quello di estrarre l’olio essenziale dalle cedrangole che veniva poi destinato alle fabbriche di essenze e profumi. le cedrangole o melangole sono arance amarognole, sgradevoli da mangiare, ma nei giardini formiani abbondavano proprio perché venivano utilizzate le loro bucce spesse e profumate. Con una spugna [ndr quella di mare lievemente rigida e abrasiva] si assorbiva dalla scorza del frutto, precedentemente tagliato a metà, l’olio (localmente detto spirito) che ne veniva fuori premendola. Si usava per questa operazione di raccolta anche un vaso di terracotta internamente smaltato color ocra, fornito di due manici e un becco. Il lavoro era lungo e faticoso, ma redditizio. Successivamente le bucce premute venivano infilate in uno spago a mo’ di collana, quindi queste collane venivano immerse in botti colme di acqua delle adiacenti fonti, caricate sui bastimenti e mandate nel napoletano perché venissero candite in apposite fabbriche. Ora i cedrangoli sono spariti dai giardini formiani. Infatti prima dell’invasione del cemento, Formia era tutto un immenso giardino che dai monti digradava fino al mare, dove prosperavano oltre agli agrumi e all’olivo, il melograno, il nespolo, cotogni, fichi e vigneti i cui frutti erano la delizia del palato perché nutriti dalla terra ricca d’acqua e maturati al sole temperato dal vento del mare. (Formia, giugno 2008)
Nelle immagini: Il porto Caposele, con le “grotte” di una villa romana in un dipinto di anonimo della prima metà dell’Ottocento, in una fotografia degli anni Cinquanta e in una veduta verso villa Caposele dei giorni nostri.

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