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lunedì 20 giugno 2022

SAN MICHELE SUL MONTE ALTINO E LA STATUA DI POMPEO FERRUCCI - di Salvatore Ciccone
In questo 26 giugno di primo mattino, a Maranola si avvierà la caratteristica “Scalata di San Michele” che con grande devozione condurrà a spalla la taumaturgica statua di pietra dell’Arcangelo dalla chiesa della SS. Annunziata al suo antico santuario posto in un ampio speco del monte Altino a più di 1100 metri di quota; il simulacro rientrerà in paese il 29 settembre festa del Santo. Per questo ritengo opportuno pubblicare una sintesi di una lunga e laboriosa ricerca che mi ha condotto alla scoperta dell’autore della statua, cosicché laddove si trovassero simili notizie sarà possibile conoscerne la originaria trattazione dell’autore nelle edizioni riportate al termine di questo articolo. Una lunga serie di miracoli e la protezione avuta contro le scorrerie napoleoniche fece ottenere ai Maranolesi nell’anno 1800 di eleggere San Michele protettore del Paese; verso il suo santuario le popolazioni rurali del circondario si sobbarcavano a pellegrinaggi gravosi fatti a piedi nudi e pronunziando voti a gran voce. Monsignor Vincenzo Ruggiero arciprete di Marànola, sullo scorcio dell’Ottocento diede nuovo impulso al culto dell’Angelo, avventurandosi nell’impresa di rifondare in quella rupe una chiesa che venne inaugurata nel 1895; per l’occasione scrisse “L’Arcangelo S. Michele e l’antichissimo suo Santuario Sul Monte Altino in Maranola”, rarissimo volumetto pubblicato in Roma fondamentale per la conoscenza del monumento. La fondazione della chiesa e del cenobio di San Michele risale all’830 circa, come si legge in un diploma del Codex Diplomaticus Cajetanus, ad opera di Giovanni l vescovo della cattedra allora altalenante tra Formia antica in decadenza e la nuova più protetta Gaeta. La dislocazione in un sito così impervio è da porre in relazione ad un preesistente culto pagano dal quale si voleva purificare quel monte per mezzo dell’Angelo vincitore sul demonio, circostanza comune a molte altre località, come sul monte di Terracina, in cui il “maligno” poteva manifestarsi, specie in presenza di antri e burroni. Perciò il monte e lo speco stillante di perenne acqua dev’essere stato dapprima dedicato a Giove per quanto suggerisce il toponimo di “Altinum”, dell’alto, dell’eccelso; quindi il nome di “Gegne” dato all’altopiano dominato dalla vetta, è attendibile derivazione di Juno, la dea Giunone consorte di Giove alla quale erano sacre le giumente e appropriata a questo alpeggio. I monaci e l’abate Rodoino che tennero in un primo tempo il cenobio “in cilio montis qui vocatur de altino” appartenevano ad una specifica congregazione di San Michele, forse proveniente dall’omonimo e principale santuario dei Longobardi del Mezzogiorno situato nell’antro del Monte Gargano, tanto più che in presso il monte Altino si incrociavano il confine del Ducato di Gaeta, quello del gastaldato longobardo di Aquino e della Terra dell’abbazia di Montecassino. Una lapide posta nel santuario in occasione della riconsacrazione, il 5 agosto 1895, ricorda i principali eventi del luogo culminati nella nuova cappella, sostitutiva dell’ultimo edificio settecentesco con cupola posto all’esterno e ripetutamente offeso dagli eventi meteorologici: era ora tutta inserita nella caverna con l’imboccatura chiusa da un’armoniosa facciata neogotica, soluzione che venne suggerita da monsignor Niola arcivescovo di Gaeta, ispirata al santuario del Gargano e tradotta dall’ingegnere Silvio Forte di Trivio. La devozione per San Michele del monte Altino si concretizza con la venerazione del suo simulacro di pietra peperino dei Colli Albani. Il Ruggiero fida nell’antica tradizione popolare concernente la statua, subordinandone la datazione: in origine era collocata nella “Grotta delle Sette Cannelle” lungo la scogliera del promontorio di Giànola verso Scàuri, dalla quale a causa delle imprecazioni dei marinai se ne andò sulla cima del retrostante monte Sant’Angelo di Spigno; tuttavia anche dal quel luogo vedeva i marinai ed allora si portò nell’antro del monte Altino; gli spignesi la riportarono sulla cima del loro monte nascondendola in una siepe spinosa, ma la statua si riportò sull’Altino, ancora andarono a riprenderla ma divenne tanto pesante che dovettero desistere, costruendo però una piccola cappella dove essi volevano che rimanesse. Nella leggenda è interessante come l’aumentato peso della statua trapeli una sopraggiunta statua di pietra. Quanto alla grotta di Giànola, originaria collocazione del simulacro, essa si presenta tra enormi strati obliqui di roccia conglomerata, dove l’erosione di una intercalazione più tenera apre una imboccatura a fessura e una vasta sala con basso soffitto che inclinato penetra il mare; nel mezzo una massiccia stalagmite tocca appena la volta la cui trasudazione d’acqua dolce va a colmare di quella alcune concrezioni a vaschette, fatto che spiega la denominazione e l’uso tradizionale fatto dai pescatori della zona. Sulla balza prossima alla grotta esisteva una torre di avvistamento distrutta nell’ultimo conflitto, detta di “Sant’Angelo” e più correntemente “della Fica”, denominazione questa che venne ‘aggiustata’ con “Fico” riferito all’albero, ma che senza dubbio deriva dalla caratteristica scogliera corrugata in cui si apre la fessura che l’immaginazione popolare colorita e grassa non ha esitato ad accostare alla forma del sesso femminile: stessa espressione è anche impiegata per indicare un gesto fatto a sua imitazione con le dita della mano, talvolta come scongiuro, talaltra per scherno. Emerge la concordanza tra la fuga della statua e il nome osceno del luogo, in una sorta di braccio di ferro tra la voluta santificazione della grotta e la pervicace locuzione popolare, inconciliabili nella pur bonaria intenzione della seconda rimasta nell’epiteto della Torre. La scultura era pervenuta assai rovinata e con le mani rifatte rozzamente di tenera pietra arenaria locale, e perciò nel 1888 il Ruggiero decise di farla restaurare interpellando a Roma lo scultore Lodzja Brozsky che diede l’incarico al suo primo collaboratore, il romano Giuseppe Blasetti: la pietra occorrente fu offerta appositamente dai Basiliani di Grottaferrata, presso la quale vi è il peperino in tutto simile alla scultura. Si ricostruirono oltre le mani la figura del demonio appena percepibile ai piedi dell’Arcangelo. Il Ruggiero raccolse il parere scritto dal restauratore che la statua sarebbe stata di manifattura romana tarda, cosa che andava a collegarsi bene con la tradizione che la voleva antichissima, influenzando in ciò il giudizio dello stesso Blasetti. La statua è alta cm 94, compresa la base quadrata di cm 42 di lato, alta cm 10 e rappresenta un guerriero le cui membra un po’ tozze sono più rispondenti a quelle di un fanciullo: veste tunica e lorica decorata nel mezzo da un serafino; sostiene col braccio sinistro un mantello desinente in terra e con la mano la catena con la quale soggioga il maligno atterrato; il braccio destro è alzato a sostenere la spada ed è coordinato al movimento della testa sfuggente dall’osservatore; le ali sono assenti, ma vi sono sulla schiena i fori per applicarle in metallo. Sul lato frontale della base vi è nel mezzo uno stemma, allora integro descritto dal Ruggiero: è ovale, forzatamente dimensionato con taglio dei culmini, avente una fascia centrale, tre monticelli nella metà inferiore e una rosa a cinque petali in quella superiore; a sinistra sono sovrapposte le residue lettere S e TOR, probabili desinenze di Angelus/victor; a destra quelle consecutive P ed F. La generale impostazione compositiva esclude che la scultura sia d’età Antica di uso cristiano, del IV-V secolo, principalmente perché l’Arcangelo veniva allora e fino al Medioevo raffigurato in semplice tunica. La statua va invece assegnata al Rinascimento, come quella simile marmorea del Gargano di Andrea Sansovino (1507), oppure all’età barocca, e della quale di ambiente romano è forse lo scultore in relazione all’uso del peperino, scelta da collegare con la destinazione del simulacro in un luogo freddo o umido e per il peso di dimensione minuta più agevole. L’identificazione dell’artefice viene facilitata dalle due lettere P ed F presenti sulla base, certamente iniziali di persona. Tra gli scultori operanti a Roma in quel periodo la sigla corrisponde a Pompeo Ferrucci, originario di Firenze e vissuto all’incirca tra il 1566 ed il 1637, artista di scuola sebbene con una certa personalità, appartenente al folto gruppo operante nella massiva produzione decorativa della Città agli inizi del Barocco. Un confronto con alcune sue opere marmoree in parte ugualmente siglate, da me fatto una ad una a Roma, si rivela interessante per le analoghe caratteristiche delle figure dagli arti tozzi, per le posture ed i tratti dei volti, nonché per le modeste dimensioni delle sculture, riscontrabili nella Madonna col Bimbo ora sull’ingresso del convento delle Maestre Pie in via delle Botteghe Oscure, ma anche nella figurazione della Religione nel monumento del cardinale Alessandrino alla Minerva. Varie rispondenze stilistiche si possono inoltre cogliere nella pala marmorea del S. Matteo e l’Angelo, eseguita insieme al Coubert nella Trinità dei Pellegrini, e in quella dell’Assunta (1629) in Santa Maria della Vittoria, firmata, le cui Madonne sono simili a quella sull’ingresso principale del palazzo del Quirinale (1615); infine qualche similitudine nel volto si trova nelle cariatidi del monumento borghesiano in Santa Maria Maria Maggiore, eseguite insieme al Muzi. Un rilievo presente sopra l’altare maggiore della cattedrale di San Pietro a Frascati, La Consegna delle Chiavi (1612), attesta la sua presenza nell’area di provenienza del peperino in cui è scolpito il nostro San Michele, rispetto al quale le elencate sculture mostrano una diversa raffinatezza dovuta alla fine grana del marmo pur in simili caratteristiche d’impostazione e d’intaglio. Lo stemma inciso alla base è di complessa interpretazione e sicuramente aggiunto in un secondo momento da mano meno esperta insieme all’epiteto dell’Angelo, potendo rilevare un committente o offerente. Secondo la traccia di provenienza della scultura, lo stesso stemma compare tra gli emblemi della famiglia Orsini, nobili romani di antica origine della quale i capostipiti di nome Orso occupavano importanti cariche nel XII secolo e il cui elemento araldico principale era l’orso rampante. Una importante connessione si ha con Giacoma Orsini che fu la madre del conte Onorato I Caetani conte di Fondi, artefice sullo scorcio del Trecento di importanti opere a Maranola e fondatore del vicino Castellonorato, madre che era inumata con il consorte nella cappella della già francescana chiesa dell’Annunziata a Minturno; tuttavia la scultura del San Michele è di duecento anni dopo. Una delle principali famiglie di Maranola porta il cognome D’Urso che è facile far risalire a de Urso ossia dell’Orso. Comunque è possibile che da quella discendenza vi possa derivare la commissione della scultura. La vetustà attribuita alla statua di San Michele è quindi comprensibile nell’idealizzazione popolare insieme alla favola del suo peregrinare chiaramente espressive di una lunga tradizione di culto in questo territorio. Entrambe sottolineano la dimensione temporale di queste comunità dedite alla economia della montagna, che nella loro apparente immutabilità hanno tramutato gli eventi in saga fascinosa, come i luoghi tersi ed eterei risaltati dallo sfondo turchino del mare sconfinato. Bibliografia dell’Autore : - L’Arcangelo Michele del Monte Altino, “Lunario Romano”, Santuari cristiani del Lazio, pp. 175-194, Roma 1992. - La statua San Michele dalla leggenda alla storia, “Storia Illustrata di Formia”, vol. III, Formia in età moderna, pp.217-232, Pratola Serra 2000.
Didascalie immagini - 1 - La Statua di San Michele di Pompeo Ferrucci (1612?) dopo i restauri del 1888 (Maranola, Archivio parrocchia di San Luca) 2 - La statua marmorea di San Michele nel Santuario del monte Gargano, opera di Andrea Sansovino del 1507 (foto del Santuario). 3 - La Madonna col Bimbo di Pompeo Ferrucci sull’ingresso del convento delle Maestre Pie in via delle Botteghe Oscure a Roma (foto S. Ciccone). 4 - Arrivo della Scalata di San Michele al santuario nell’ampio speco del monte Altino (foto G. De Meo). 5 - La facciata neogotica del nuovo santuario consacrato nel 1895 (foto S. Ciccon

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